Master “Museo Italia: allestimento e museografia”

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L’Università degli Studi di Firenze ha istituito per il secondo anno il Master di secondo livello in allestimento e museografia per gli studenti di architettura, ingegneria civile, ingegneria edile e design. Il master si pone l’obiettivo di formare figure professionali in grado di operare nell’ambito della valorizzazione del patrimonio culturale del nostro Paese. Le domande di ammissione devono essere presentate entro e non oltre il 18 gennaio 2022, mentre il corso inizierà l’11 marzo 2022 e avrà una durata di dodici mesi. Il corso si suddivide in moduli didattici che affrontano differenti aspetti della disciplina, dalle strategie comunicative e di marketing, allo studio della progettazione dei musei e dei relativi allestimenti, dalla storia della museografia, a studi di design. 

Parlare di un Master in museografia può alimentare in noi la curiosità sui musei, in quanto  sono luoghi nobili, ricchi, preziosi e densi di significato. Perciò apriamo una breve parentesi sulla loro storia. 

Breve accenno alla storia dei musei 

Il termine museo deriva dal greco antico e significa “luogo sacro alle Muse” (per la mitologia classica esse erano figlie di Zeus e protettrici delle arti e delle scienze). Il museo è un luogo di conservazione dei reperti storici, scientifici, tecnologici, artistici, archeologici (e potremmo andare avanti un bel po’ nella nostra lista), a servizio della società. Lo scopo primario non è solo quello di conservare, ma anche promuovere la conoscenza e la cultura e ovviamente stimolare il progresso scientifico. 

Fino al XVIII le opere d’arte venivano riprodotte dagli artisti su commissione di grandi casate nobiliari che collezionavano tali opere nelle proprie abitazioni. Lo scopo era celebrare le virtù, le qualità e le doti della famiglia mostrandole ad altri nobili, che si sarebbero recati presso la loro abitazione. Come possiamo comprendere, l’accesso a queste opere d’arte era estremamente selettivo; inoltre si tendeva a privilegiare la presenza di un’innumerevole quantità di quadri presso i muri delle stanze principali, piuttosto che avere un singolo quadro attaccato alla parete: si preferiva che gli ospiti rimanessero colpiti dalla quantità dei quadri presenti, piuttosto che dalla loro qualità, peculiarità e originalità. Ecco perché si parla di esposizione dei quadri ad “incrostazione“. Con l’avvento dell’Illuminismo alcuni nobili aprirono le loro collezioni d’arte a un gruppo ristretto di persone che, però, doveva presentare uno specifico status socio-economico e una determinata provenienza. L’avvento di uno spazio espositivo aperto al grande pubblico, senza distinzione alcuna, è avvenuto il 19 settembre 1792 quando il ministro francese Roland sancì il trasferimento di tutte le collezioni appartenenti al sovrano di Francia alla nazione francese: da questo momento le opere iniziarono ad appartenere al pubblico in quanto proprietà dello Stato.

Con L’ascesa al potere di Napoleone Bonaparte si iniziarono a raccogliere le opere d’arte più significative non soltanto della storia di Francia, ma di tutti i Paesi che sarebbero stati gradualmente conquistati dal condottiero francese. L’obiettivo era quello di costituire un museo in grado di raccogliere e documentare lo sviluppo della storia dell’arte, disciplina che di lì a poco sarebbe nata ufficialmente, sul continente europeo. Anche l’Italia ne venne colpita profondamente, perché moltissime sue opere d’arte vennero confiscate e portate in Francia come pegno di guerra (il Bel Paese, infatti, fu conquistato nel 1796 da Napoleone). Non dobbiamo pensare, però, che tutti i pensatori e gli intellettuali francesi fossero concordi con questo atto: molti di loro ritenevano che ciascuna opera d’arte dovesse rimanere ancorata con il territorio che l’aveva vista nascere e per questo non poteva affatto essere sradicata dal suo luogo di origine. Con la caduta di Napoleone Bonaparte, nel 1815, e il Congresso di Vienna, molte opere ritornarono ai rispettivi Paesi di origine e l’Italia, ancora non ufficialmente unificata, si rese conto della ricchezza e vastità delle proprie opere d’arte, le quali necessitarono di essere protette e tutelate. Ciò risultò essere molto complesso dal momento in cui, come abbiamo detto poc’anzi, non esisteva una Italia unita, ma successivamente alla sua nascita venne varato un decreto regio che permise al Governo di sancire che tutti i beni preziosi e le opere d’arte sul territorio italiano dovessero essere riunite in musei provinciali. Inizialmente questa decisione comportò scontento da parte di tutti quei comuni che si sentirono privati delle loro opere e ciò spinse alla creazione di musei civici: si mostrò ancora una volta la necessaria preservazione del rapporto tra l’opera d’arte e il suo territorio a prescindere dalla qualità o dal valore artistico del manufatto. 

Qualche pillole di informazione 

Dopo questa breve premessa storica è interessante analizzare alcuni musei che sono conosciuti a livello mondiale proprio per le loro caratteristiche peculiari. Partiamo dal primo! 

Secondo alcuni studiosi il primo museo della storia risale addirittura al 530 a.C. Siamo in Mesopotamia, per essere più precisi presso l’antico Stato di Ur. La principessa Ennigaldi, figlia dell’ultimo re dell’impero neo-babilonese decise di costituire quello che poi sarà definito come il museo di Ennigaldi-Nanna. Gli scavi archeologici che furono condotti nel tempio/museo riportarono alla luce decine di manufatti ordinati ed etichettati in tre lingue diverse.  Il Museo di Alessandria, in Egitto, è considerato, a livello mondiale, come il primo vero museo della storia.  Era un edificio dedicato alle Muse che venne eretto da re Tolomeo I, a cavallo tra la fine del 300 a.C. e gli inizi del 200 a.C. Tale luogo non era solo dedicato al culto, ma ospitava anche una comunità scientifica e letteraria. Il primo museo che può definirsi come tale secondo la nostra attuale definizione sono i Musei Capitolini a Roma. Nel 1734 Papa Clemente XII fece costituire il primo museo aperto al pubblico come lo si intende attualmente: in questo museo le opere erano fruibili a tutti e non solo ai legittimi proprietari. Il museo più visitato al mondo è invece il museo del Louvre a Parigi con 8.5 milioni di visitatori all’anno, non considerando ovviamente i due anni di pandemia da COVID-19, che ha abbattuto enormemente la quantità di visitatori ed i musei aperti. Il museo più piccolo al mondo si trova a Monza e si chiama Mimumo. È un Museo da Guinnes dei primati: 2,29 metri quadrati di superficie. Uno dei musei più strani al mondo è il Museo del carro funebre a Barcellona dove sono esposti diciannove collezioni di carri funebri in base al periodo storico. Ad Anzola dell’Emilia, si trova il Museo del gelato: 1000 metri quadrati dedicati a uno dei dolci più buoni e golosi al mondo. 

Come possiamo ben comprendere la lista è particolarmente lunga e sicuramente ci sono musei per qualsiasi tipo di visitatore. Una cosa è certa: è importante raggiungere le competenze necessarie ad operare consapevolmente in un ambito complesso e mutevole come quello dei musei. Un buon museo, organizzato in maniera consona al suo scopo, saprà valorizzare il patrimonio culturale materiale, immateriale e paesaggistico di qualsiasi territorio.

Martina Marradi 

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TikTok: luci e ombre

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Morire per una sciocca sfida su TikTok: sembra uno scherzo, ma purtroppo ogni giorno su questa piattaforma nascono nuove “challenges” che attirano e stimolano innumerevoli utenti a tentare di superarle. In occasione di una lezione di Media Education, tenutasi presso la Scuola di Scienze Politiche, ho deciso di analizzare quanto un social network come TikTok sia pericoloso. 

TikTok è una piattaforma molto diversa rispetto alle più conosciute Facebook e Instagram: è un social network che permette la creazione di video molto brevi che possono spaziare su qualsiasi tema, dal ballo, al make-up, da una imitazione a una ricetta di cucina. La caratteristica peculiare che ha reso questa piattaforma estremamente popolare, soprattutto tra i giovanissimi, è la presenza di “tiktoker” non famosi, ovvero semplici creatori di contenuti non professionisti, che sono adolescenti tanto quanto gli utenti che li guardano. 

Tale elemento, di non poca rilevanza, attira i giovani che, intenti a seguire tendenze e sfide, entrano in un tunnel oscuro dove non si rendono conto di quanto quel “mettersi alla prova”, per apparire celebri e popolari, rischi seriamente di mettere in pericolo la loro vita. Nel momento in cui una sfida diventa virale su TikTok, si crea una vera e propria competitività mondiale e ogni utente freme dal desiderio di diventare famoso mostrando agli altri quanto sia stato semplice per lui superare quella rischiosa challenge.

Ciò di cui stiamo parlando sono essenzialmente delle sfide che vari tiktoker lanciano sulla piattaforma e, se è vero che alcune di esse sono innocue, come balli di gruppo o imitazioni di spezzoni di film celebri, altre sono estremamente rischiose e spesso mortali come la “planking challenge”, la “skull breaker challenge” e la “blackout challenge” (queste sono solo alcune delle più pericolose sfide che chiunque può visionare su TikTok con un semplice click).

La prima sfida consiste in due duplici possibili azioni: sdraiarsi per strada senza essere visti dai conducenti delle auto, attendendo che queste arrivino vicino, per poi alzarsi e schivarle all’ultimo secondo o lanciarsi direttamente sopra il cofano di un’auto in corsa cercando di cadere seduti.

La seconda sfida, il cui nome parla già da solo, consiste nel far inciampare una persona facendogli lo “sgambetto” in modo che cada a terra battendo la testa. L’ultima sfida, invece, consiste nel legarsi una cintura intorno al collo fino a svenire.

Questo ultimo evento ci è tristemente noto in quanto una bambina di Palermo, di solo dieci anni, è deceduta proprio a causa di questa sfida: nel praticare la prova si è asfissiata non riuscendo più a togliersi la cintura dal collo. È giunta in ospedale cerebralmente morta: l’ossigeno non ha raggiunto il cervello per diversi minuti danneggiandolo in modo irreversibile. 

Sotto un profilo psicologico è tipico degli adolescenti mettere alla prova se stessi, sfidare gli altri e spingere sempre più in alto l’asticella dei propri limiti. Questo comportamento viene attuato sia per dimostrare di essere “già degli adulti”, sia per emanciparsi dall’autorità genitoriale. Le challenges sul web sono il prodotto della volontà di esorcizzare le proprie paure, ma sono portate all’estremo. L’utente sa che la sua sfida verrà registrata e fatta circolare sui social. Questo aumenta lo stato di eccitazione e di euforia, perché nel caso in cui la prova venisse superata non solo ci si sentirà invincibili, ma si diventerà, anche solo per pochi giorni, popolari. La pratica di condurre una sfida  pericolosa acquisisce un gusto diverso se si è consapevoli che milioni di persone in tutto il mondo potranno vedere la nostra challenge, commentare, mettere like e condividere. 

Poche volte, però, un adolescente o addirittura un bambino è in grado di avere tutto sotto controllo e per quanto si possano valutare accuratamente tutte le possibili conseguenze, non sempre i risultati di queste challenges sono privi di rischi.

L’analisi che è stata appena esposta, circa pericoli della piattaforma TikTok, non propone come soluzione ultima l’abolizione dei social network: ciò risulterebbe essere quasi impossibile, dato che la nostra società odierna è cambiata, così come sono cambiati i modi di conoscere e relazionarsi con il mondo circostante. Le relazioni umane sono sempre più basate sui likes e commenti virtuali, ovvero da interazioni prive del vero contatto umano, come se lo schermo fosse un prolungamento del nostro corpo. Questo non significa che dobbiamo rimanere impassibili a ciò che sta accadendo davanti ai nostri occhi. Un primo atto utile a ridurre la presenza di bambini molto piccoli sulle piattaforme è imporre un limite minimo di età che sia vero, cioè effettivo. I vincoli imposti dai social attuali sono estremamente semplici da scavalcare: è facile falsificare i propri dati o farsi iscrivere a nome di un fratello o di una cugina più grande e la piattaforma nemmeno se ne accorge, o forse fa finta di non vedere. Sicuramente un elemento da non fare è vietare ai figli l’uso dei social, perché proprio la negazione stimola la risposta contraria. I social non devono diventare un tabù. 

La soluzione è educare i bambini a un corretto uso dei social network, facendoli entrare nelle loro attività quotidiane con consapevolezza. Lo spirito critico, per essere costruito, necessita di una sinergia tra la famiglia e la scuola: solo così il bambino sarà in grado di discernere i contenuti utili da quelli che non lo sono.

Dunque, non solo è necessario utilizzare questa piattaforma con estrema cautela, ma è possibile conferire uno scopo pedagogico e didattico ai video che vengono pubblicati. Questo può sembrare un paradosso: potremmo chiederci, cioè, come sia possibile che un social network che vive di video poco educativi possa diventare esso stesso istruttivo e formativo. Eppure, tutto è vero e sarebbe necessario dare maggiore spazio a tutti quei tiktoker che hanno aperto il loro profilo proprio come questo obiettivo e ve ne sono molti: da scienziati che raccontano curiosità sul mondo della natura, a insegnanti madrelingua che insegnano a pronunciare parole e coniugare verbi; da esploratori che immortalano le meravigliose città e gli incredibili Paesi che hanno visitato, a chef che insegnano a cucinare piatti sfiziosi e semplici.

Il materiale a disposizione per cambiare questo social c’è…Forse non c’è l’interesse nel farlo. Non è un caso che i profili di cui ho appena parlato sono estremamente poco conosciuti, hanno poco seguito e anche pochi guadagni rispetto all’immenso lavoro di creazione e montaggio video. E proprio perché non hanno un grande numero di follower sono penalizzati dall’algoritmo di TikTok che, invece, preferisce premiare chi riesce a raggiungere in poco tempo milioni di views, a prescindere dal tipo di contenuto mostrato. Se l’algoritmo non funziona come vorremmo, questo non significa che non potrebbe cambiare. Se ogni utente iniziasse a interagire, con commenti, likes e condivisioni ai video educativi, questi inizierebbero a essere mostrati di più: è necessario, però, un impegno da parte di tutti. Se l’algoritmo di TikTok non vuole cambiare, proviamo ad aggirarlo noi. 

Martina Marradi 

Master Unifi per assistere gli orfani vittime di femminicidio

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Il 25 novembre ricorre la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Ogni giorno, alla televisione, sui giornali, alla radio, sentiamo risuonare la stessa terribile parola. Femminicidio. E come se non bastasse, spesso assistiamo a persone che addirittura sminuiscono il problema e parlano solo di esagerazioni. No, purtroppo non ci sono esagerazioni. Il femminicidio è reale ed è necessario parlarne. Introdurre questo tema è molto difficile, in quanto internamente complesso e articolato, ma è giusto cercare di delinearne le caratteristiche essenziali dato che l’Università degli Studi di Firenze ha proposto un Master per tutti coloro che vorranno occuparsi di assistenza di orfani vittime di femminicidio. Come si legge sul sito dell’Ateneo fiorentino il “Master è rivolto ai professionisti del settore socio-educativo, dell’assistenza sociale e socio-sanitaria e a tutti i gestori di processo e di sistema, di qualsiasi formazione accademica, allo scopo di implementare conoscenze e competenze per gestire il complesso intervento nelle situazioni post-femminicidio. Il percorso di formazione di Master è finalizzato a creare le conoscenze e le competenze psico-socio-educative per un intervento globale sul soggetto e per la creazione di un sistema professionale che ha il compito di coordinare, gestire e partecipare alla presa in carico dei minori orfani di crimini domestici”. Il Master inizierà a marzo 2022 e avrà una durata di 12 mesi. 

Che cos’è il femminicidio? 

Il primo utilizzo della parola “femminicidio” inteso come uccisioni di una donna da parte di un uomo, per motivi misogini, appartiene al 1990 per opera della docente femminista di Studi Culturali Americani Jane Caputi e dalla criminologa Diana E. H. Russell. Quest’ultima vide nella pratica del femminicidio una vera e propria categoria criminologica, cioè quella di un uomo che uccide una donna in quanto convinto della esistenza di una struttura patriarcale entro la quale quest’ultima deve essere sottomessa in ogni modo e con ogni mezzo. Per molte studiose femministe il femminicidio non è soltanto l’atto in sé, ma anche il contesto: ciò significa che non dobbiamo considerare solo il gesto commesso, ma anche lo spazio entro il quale il gesto è stato compiuto. Un ambiente dove la violenza sulle donne è una costante, dove si sminuisce il problema della misoginia, dove si impedisce alle donne di esprimere la propria voce e dove c’è omertà, è un luogo dove il femminicidio si radica maggiormente. 

Secondo altri studiosi il femminicidio sarebbe l’azione scaturita al culmine della violenza perpetrata ad una donna, ovvero il momento nel quale lo stupro, la schiavitù sessuale, le mutilazioni genitali  causano la morte della stessa. È necessario ricordare, però, che non tutti gli omicidi di donne sono considerati dei femminicidi: se una donna viene colpita e uccisa durante un furto nella sua abitazione non parliamo di femminicidio, in quanto questo concetto è connesso ad una visione patricentrica della società dove l’uomo deve sottomettere la donna tanto a livello privato quanto pubblico. 

 Le tipologie di femminicidio 

La categoria più nota e conosciuta di femminicidio è il femminicidio intimo, tanto che quando parliamo di femminicidio implichiamo generalmente proprio questo genere di omicidio. Il femminicidio intimo consiste nell’uccisione di una donna da parte del suo partner. Le cause sono varie, ma generalmente l’atto accade al culmine di una lite per gelosia o dopo la rottura della coppia, quando il compagno non riesce a sopportare che la donna lo abbia lasciato. Si parla invece di femminicidio indiretto quando il compagno decide di uccidere i figli, affinché la moglie provi un dolo

re più forte della sua stessa morte. Il delitto d’onore, invece, consiste nell’uccisione di una donna da parte del compagno o dei familiari di lui o di lei: la donna, avendo compiuto gesti che hanno macchiato l’onore della famiglia, viene “condannata a morte” dalla stessa. Questi gesti possono essere: aver rifiutato un matrimonio combinato, aver tradito il marito, non arrivare casta al matrimonio, volere il divorzio. In Italia il delitto d’onore era contemplato: esso comportava un importante sconto di pena, ma era valido esclusivamente per l’uomo. Venne abrogato nel 1981. La morte per dote consiste nell’uccidere o indurre al suicidio una donna a causa della sua dote. Questa pratica è estremamente presente in Paesi come il Pakistan e l’India. Proprio in quest’ultimo Paese, tra il 1999 e il 2016 quasi il 50% dei femminicidi erano legati all’omicidio per dote. Nel subcontinente indiano per tradizione ogni ragazza deve portare alla famiglia dello sposo una dote, la quale può consistere in oro o elettrodomestici, arrivando anche ad indebitare le famiglie delle spose. Ma qualora le ragazze non fossero in grado di portare una dote effettivamente consistente, o non riuscissero a pagare i loro debiti vengono uccise, spesso dalle suocere. L’ultima categoria è l’aborto selettivo: in molti Paesi come la Cina, l’India, il Pakistan, il Bangladesh la nascita di una bambina è considerata come un segno di sfortuna, in quanto l’arrivo di un maschio significa che questo sarà forza lavoro per la famiglia, ma soprattutto potrà mandare avanti il cognome e la stirpe della stessa. Dunque, spesso assistiamo alla pratica dell’aborto o addirittura dell’infanticidio delle bambine. 

Quali sono le caratteristiche del femminicida? 

Dare una risposta netta a questa domanda è quasi impossibile dato che vi sono diverse variabili che possono rendere un uomo un possibile femminicida e queste variano sotto il profilo spaziale, temporale, ma anche culturale e psicologico. Vi sono stati psicologi che hanno tentato di delineare le caratteristiche del femminicida le cui caratteristiche spaziano dall’essere: controllatore (teme che la propria autorità e autorevolezza siano messi in discussione e deve controllare i familiari per evitare che ciò accada); difensore (non accetta l’autonomia della partner e si lega solo a donne che può sottomettere); incorporatore (non accetta di stare senza la partner e qualora ella si allontani vi è una esplosione di odio e violenza).

Inoltre, l’uomo abusante può: essere narcisista (necessita di continua ammirazione, sfrutta la partner ed è indifferente ai suoi bisogni); soffrire di “disturbo antisociale di personalità” (è un soggetto aggressivo e impulsivo, spesso violento che non prova rimorso per le proprie azioni); soffrire di “disturbo borderline di personalità (presenta cambiamenti di umore repentini, impulsività e irrequietezza, idealizza la propria partner, ma può svalutarla completamente l’attimo seguente, con importanti scatti d’ira); essere un perverso narcisista (vive di menzogne e bugie volte alla rappresentazione di un mondo perfetto che, nella realtà, non esiste); essere una personalità paranoica (è un soggetto convinto della inferiorità della donna e della sua necessaria sottomissione all’uomo. La donna non può lavorare, avere hobby, stare con gli amici, perché per queste personalità tali caratteristiche appartengono ai comportamenti degli uomini). 

Gli orfani vittime di femminicidio 

Agli orfani vittime di femminicidio spetta il compito più arduo: rielaborare il lutto e cioè la perdita della madre, ma anche accettare che il padre risulti essere l’omicida e che passerà gran parte del futuro prossimo in carcere. Come ci si sente vivendo in una condizione dove la madre è defunta e il padre in carcere? Questi bambini provano un dolore ineffabile, che spesso non riescono a liberare in alcun modo. Nell’infanzia si pensa che i propri genitori non solo stiano insieme per sempre ma anche che costruiscano giorno dopo giorno una famiglia robusta, solida, basata sull’amore e sull’aiuto reciproco. Quando questo non accade già si crea un turbamento interiore nel bambino, la cui tenera età viene stroncata nel momento in cui scopre di aver perso la madre in un modo atroce. 

Il percorso che gli orfani dovranno intraprendere è lungo e tortuoso. Un appoggio e un valido sostegno passa anche dalla figura del professionista nel settore dell’assistenza agli orfani vittime di femminicidio. Ciò potrà aiutare loro nella fase di rielaborazione del lutto e della forzata recisione del legame naturale e biologico con la mamma materna, attraverso un percorso che cerchi di ridurre il trauma. Dunque, è chiaro che tale figura debba essere dotata di una grande carica empatica e della capacità di aiutare l’altro, di assisterlo soprattutto quando è difficile aprire un dialogo con lui. 

Martina Marradi 

Master Unifi sul caffè 

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Il caffè

Già pronunciando il suo nome si può sentire tutto il suo inebriante odore. Il caffè è una bevanda che coinvolge a pieno i nostri cinque sensi, ma anche il nostro spirito: riscalda la nostra gola, accende e risveglia la nostra mente,  avvolge il palato con la sua carica decisa e schietta e stimola il nostro olfatto con il suo aroma inconfondibile

Eppure di caffè non ce n’è solo uno, e i più esperti sanno distinguere con grande fermezza anche le varietà meno conosciute. Si contano addirittura 60 specie di piante di caffè in tutto il mondo e più di 100 tipi di caffè diversi, sebbene solo una piccola parte sia commerciabile.  Le tipologie di caffè più conosciute al mondo sono: Caffè Arabica, Caffè Robusta, Caffè Liberia, Caffè Excelsa. 

Vi sto raccontando tutto questo perchè l’Università degli Studi di Firenze ha appena istituito il Master di primo livello UniVerso caffè, proposto dall’Ateneo per l’anno accademico 2021-2022. Il Master nasce dal Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agrarie, Alimentari, Ambientali e Forestali e si articola in nove mesi, a partire dal 13 gennaio 2022. I posti disponibili sono limitati e per accedere è fondamentale partecipare ad un bando pubblico. La domanda di partecipazione deve essere presentate entro il 15 novembre.

Ma torniamo al nostro viaggio verso la scoperta del caffè…

Il significato della parola caffè 

Il termine caffè deriva dall’arabo e significa «bevanda stimolante». Come risulta essere noto, il caffè contiene caffeina, una sostanza altamente eccitante che stimola il sistema nervoso. Anche se viene definita come una sostanza stupefacente, che crea dipendenza, essa è considerata legale in tutti i Paesi del mondo. Questo non significa che sia possibile consumare quantità elevate di caffè: le autorità sanitarie consigliano di essere prudenti e di non consumare più di tre tazzine al giorno. Per quanto il caffè abbia un leggero effetto digestivo, ci aiuti a combattere la stanchezza e il sonno, migliori l’umore e aumenti le prestazioni atletiche, può avere importanti effetti collaterali in caso di un uso eccessivo, quali tachicardia, insonnia, irritabilità e gastrite. Inoltre, al contrario di quanto si pensi, il caffè espresso della moka contiene maggiori quantità di caffeina rispetto a quello della macchinetta. 

Alcuni studiosi non sono concordi sul significato del termine “caffè” e sostengono che esso derivi dal nome della regione in cui questa pianta era maggiormente diffusa originariamente, ovvero il Caffa, nell’Etiopia sud-occidentale. La pianta del caffè, infatti, cresce nei Paesi dal clima caldo e umido, tra il tropico del Cancro e quello del Capricorno, con temperature comprese tra i 18 e i 22 gradi Celsius. 

La storia del caffè 

Tre sono le leggende più conosciute attorno al caffè. La prima riguarda un pastore etiope che portava a pascolare il suo gregge di capre. Queste iniziarono a mangiare le bacche del caffè e durante la notte, invece di dormire, iniziarono a muoversi energicamente fino alla mattina. Il pastore dopo varie ricerche si rese conto che la causa dell’evento fosse derivante proprio da quella strana pianta: decise di prenderne i chicchi, abbrustorirli sul fuoco, macinarli e farne un infusione. La seconda leggenda ha come protagonista Maometto il quale, dopo essersi sentito male, ebbe una visione nella notte: l’Arcangelo Gabriele gli mostrò una bevanda scura creata da Allà, che gli avrebbe permesso di stare meglio. L’ultima leggenda narra di un incendio in Etiopia che bruciò una gran quantità di piante selvatiche di caffè, il cui odore avvolgente arrivò a decine di chilometri di distanza.

Gli antenati etiopi del gruppo etnico degli Oromo furono probabilmente i primi ad aver riconosciuto l’effetto stimolante del caffè che cresceva spontaneamente nei loro territori, ma non ci sono prove al momento che dimostrino con assoluta certezza che la pianta di caffè sia nata nel continente africano. In Europa ci vorranno secoli prima che il caffè arrivi nelle case e venga considerato come una bevanda da bere quotidianamente. 

Al giorno d’oggi in Italia il 97% della popolazione consuma caffè ogni giorno e il 50% della popolazione mondiale fa lo stesso. Contrariamente, però, a quanto si pensi, il Bel Paese non si trova al primo posto nel consumo di caffè, perché in testa alla classifica c’è la Finlandia con un consumo di addirittura 12 chili di caffè all’anno! Non fatevi ingannare, in Finlandia il caffè non costa 1€ a tazzina, anzi il suo costo si aggira attorno ai 5€. Ma ai finlandesi non importa: amano l’effetto energizzante e stimolante di questa bevanda e non possono farne a meno. È forse proprio per questo motivo che la Finlandia è considerata uno dei Paesi più felici del mondo? 

Lasciando da parte il nostro umorismo è giusto addentrarci su alcuni aspetti più tecnici che vedono ancora una volta il caffè come protagonista. 

Caffè, economia mondiale ed etica

Il commercio del caffè è dominato da poche grandi multinazionali, venti per l’esattezza, che controllano più di tre quarti del mercato del caffè. Un esempio sono Neumann Kaffee (Germania), Volcafè (Svizzera), Cargill (Stati Uniti).

Il caffè rappresenta per migliaia di famiglie in tutto il mondo l’unica fonte di reddito. In molti Paesi africani, quali Uganda, Ruanda ed Etiopia, così come in altrettanti Paesi dell’America Latina, come Brasile e Colombia, questo prodotto costituisce la principale merce di esportazione. Un po’ come nel caso del petrolio anche il caffè subisce oscillazioni di prezzo, ma nella stragrande maggioranza dei casi chi guadagna da tali speculazioni non sono certo i lavoratori, ma le multinazionali. 

Non è sbagliato dire che l’attività di raccolta dei chicchi di caffè sia una delle più spietate al mondo. Solo in Africa Occidentale oltre due milioni di bambini sono coinvolti nella raccolta del caffè e purtroppo il confinamento mondiale, dovuto alla pandemia, ha ulteriormente peggiorato la situazione, perché la chiusura delle scuole e l’impossibilità di uscire dalla propria abitazione ha spinto molte famiglie a mandare i loro figli a lavoro. Più che lavoro, però, dovremmo definirla una forma di schiavitù, dato che tali bambini sono costretti a lavorare dodici ore al giorno, ogni giorno della settimana. I bambini, anche di sei anni, ricevono una paga di uno o due euro l’ora: in tutto questo anche noi consumatori di caffè ne siamo in parte la causa. 

Lo sfruttamento della manodopera minorile è una fetta di una pratica ben più grande che coinvolge persino gli animali. In Indonesia si produce una varietà di caffè che può essere considerata come la più cara al mondo. Al costo di 500 euro al chilo il Kopi Luwak è al primo podio per quanto riguarda il lusso. Eppure prima di diventare il caffè più costoso del pianeta era la bevanda dei braccianti: quest’ultimi non potendo bere il caffè, in quanto bevanda da esportazione per il Paese, iniziarono a utilizzare i chicchi defecati da un piccolo mammifero chiamato Civetta delle palme. L’aumento della domanda di questo caffè particolare che, dopo essere stato digerito dall’animale acquisisce un retrogusto di cioccolato, ha comportato lo sfruttamento intensivo di questo animaletto. Il mammifero è tutt’oggi tenuto in condizioni atroci non solo perché le gabbie dove risiede sono minuscole, ma anche perché viene letteralmente ingozzato di chicchi di caffè e privato della sua vera alimentazione, ovvero rettili, insetti e piccoli mammiferi. I livelli di stress delle Civette delle Palme sono talmente elevati da provocare loro comportamenti autolesionisti e la morte dopo pochi anni. 

Dopo aver letto tutto questo potremmo sicuramente affermare «il caffè sì che è amaro». Dietro ad una semplice tazzina c’è sfruttamento e disinteresse completo, per la manodopera, ma anche per la fauna. Ma si può fare qualcosa. Da anni molte aziende hanno deciso di produrre e esportare solo caffè biologico e equosolidale, acquistabile anche nei supermercati. Questo significa che la nostra pausa caffè avrà un doppio valore: liberare la nostra mente e aiutare i lavoratori che operano in questo settore. I tentativi di creare una rete di produzione e esportazione solidale hanno dato i loro frutti e anche noi possiamo irrobustire la filiera della produzione solidale di caffè con i nostri acquisti: così facendo non solo si rispetterà chi lavora, ma anche l’ambiente. 

 

Siete curiosi di altre informazioni sul Master Unifi sul caffè? Come affermato dal coordinatore del Master Francesco Garbati Pegna, in questo corso «si studieranno […] i processi e i contesti di coltivazione e di prima lavorazione del caffè, le sue caratteristiche chimico-fisiche e nutrizionali, le dinamiche del mercato dei prodotti intermedi e finali. Saranno approfonditi anche i processi di selezione, tostatura, macinatura ed estrazione, in Italia e nel mondo». 

Se sei un amante del caffè e senza questa bevanda nemmeno ti alzi dal letto la mattina;, se vuoi combattere contro lo sfruttamento dei lavoratori nelle piantagioni di caffè o semplicemente desideri inserirti nella filiera di produzione di questa bevanda solo per business, ciò che ti posso consigliare è di dare un’occhiata a questo bando. 

Che aspetti? Affrettati a iscriverti! 

Martina Marradi 

Siamo stati sulla Luna, ma non tutti ne sono convinti.

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Nel luglio del 1969 l’Eagle, il modulo lunare dell’Apollo 11, toccava per la prima volta la superficie lunare. Eppure, nonostante le prove e le spiegazioni fornite nel corso degli anni, quell’avventura (e le successive) sarebbe, secondo alcuni, una mera messa in scena per pura propaganda politica. Fra le teorie del complotto quella dell’Allunaggio è forse quella con maggior impatto mediatico, forse superiore a quella dell’assassinio di JFK. Negli anni, per ogni controprova portata dai sostenitori della teoria del complotto gli esperti hanno ribattuto con evidenze scientifiche, e fake news come la letalità della fasce di Van Allen o le impronte “impossibili” di Armstrong sono state confutate più e più volte nei minimi dettagli.

Ma com’è nato il complotto dell’allunaggio? Come si è diffuso? L’idea di “non siamo mai andati sulla luna” circolava già nei momenti successivi alla passeggiata lunare: Bill Clinton nella sua biografia racconta di come il suo falegname non credesse allo sbarco sulla luna «perché quei tizi della televisione potevano far sembrare reali cose che non lo erano».

Quindi, ben prima di Internet, il complotto era ben diffuso e i media più tradizionali hanno contribuito a renderlo endemico. “Non siamo mai stati sulla Luna. Una truffa da 30 miliardi di dollari”, di Bill Kaysing, uscì autopubblicato nel 1974. Per la prima volta veniva data una forma definita alla teoria del complotto, in un libro che raccoglieva speculazioni sui motivi del complotto e le argomentazioni più diffusione all’epoca. Fra le teorie da lui esposte, c’è quella secondo cui, l’incaricato a girare i filmati delle missioni sarebbe stato il regista Stanley Kubrick, già famoso per gli effetti speciali nel suo film 2001: Odissea nello spazio. L’incarico gli sarebbe stato assegnato sotto la minaccia di rendere pubblico il coinvolgimento di un suo fratello “Raul” col partito comunista. Queste affermazioni contrastano però con il fatto che Kubrick non ha mai avuto alcun fratello, ma solo una sorella minore. 

Anche il cinema ha giocato un ruolo decisivo nella diffusione della teoria del falso allunaggio. Per esempio nel 1971, prima del libro di Kaysing, uscì Agente 007 – Una cascata di diamanti. In una scena James Bond si trova in un grande laboratorio privato nel Nevada, e cercando di sfuggire ai suoi inseguitori entra su un set cinematografico dove è ricreato l’allunaggio. Nel 1978 invece uscì Capricorn One, di Peter Hyams, e qui il complotto è ben più esplicito. L’atterraggio falsificato dalla Nasa questa volta è su Marte, e prevede l’assassinio degli inconsapevoli astronauti che non volessero cooperare alla messinscena. Lo spunto di partenza per Hyams era il fatto che non si poteva credere né ai giornali, né alla televisione, e nella fantasia ha portato il tutto a conseguenze estreme. Da segnalare come Hyams conoscesse la teoria del complotto dello sbarco lunare per sentito dire: non aveva mai letto un libro dei sostenitori della teoria perché da lui giudicati come “completamente ridicoli”.

In Italia, eclatante è il caso del documentario “Apollo 11 – il lato oscuro della Luna” di Willy Brunner e Gerhard Wisnewski andato in onda nel 2006 su Rai2 nel programma “La storia siamo noi”. Nel corso della trasmissione, oltre ad essere mostrare immagini di una missione diversa dall’Apollo 11, Giovanni Minoli, il presentatore, parlava di una presunta serie di dubbi inquietanti circa l’Allunaggio.

La maggior responsabilità della diffusione del complotto lunare forse spetta proprio ai mezzi di informazione. Nel 2001 la Fox mandò in onda Conspiracy Theory: Did We Land on the Moon? (ora disponibile su Netflix!). La voce narrante era Mitch Pileggi (Skinner di X-Files) e tra i tanti pseudo esperti intervistati spiccava proprio Kaysing. L’impostazione del documentario è una che ora è molto familiare a noi: lasciar decidere lo spettatore cosa credere ma senza un contraddittorio che bilanci le tesi degli intervistati.

Lorenzo Niccoli

Sono un cameriere, ma anche uno studente universitario!

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Quanti di noi, pensando all’Università e al lavoro si mettono le mani tra i capelli? «È letteralmente impossibile. Non si possono svolgere queste due attività contemporaneamente» pensano molti. Effettivamente è molto difficile e spesso sembra un ostacolo insormontabile. L’Università degli Studi di Firenze ha istituito da tempo un percorso formativo ad hoc per questa categoria. In realtà non parliamo di studente lavoratore, ma di studente part time: ciò che, per noi, può sembrare una mera differenza lessicale (potremmo pensare che studente lavoratore e studente part time siano in fondo la stessa cosa), per l’Università designa una macroarea molto più ampia.

Uno studente può definirsi part time se: è un lavoratore; è impegnato nella cura e assistenza di familiari; presenta problemi di salute o di invalidità; è una studentessa in gravidanza; è uno studente o una studentessa con figli; presenta dei disturbi specifici dell’apprendimento; è impegnato nello sport ad alto livello nazionale o internazionale. Come è possibile notare il percorso formativo previsto per lo studente part-time non può essere superiore al doppio degli anni previsti dal relativo corso di studio: 


Quali sono i vantaggi e gli svantaggi di essere studente part time?

I vantaggi

Lo studente part-time è tenuto a pagare una quantità di tasse, ovvero la tassa di iscrizione, in quantità molto inferiori rispetto al classico studente universitario, mentre la tassa regionale per il diritto allo studio universitario e l’imposta di bollo restano invariate. Inoltre, gli spettano le stesse agevolazioni economiche per merito. Se, però, non fosse in grado di concludere il suo percorso di studi entro gli anni richiesti, non ci saranno più tasse agevolate oltre gli anni fuoricorso.  Lo studente può studiare liberamente secondo i propri ritmi senza sentirsi oppresso dal frequentare e dal dare tutti gli esami del proprio semestre e, inoltre, presenta un appello in più, solitamente nel mese di aprile. 

Gli svantaggi

Affinché si possa continuare ad essere considerati studenti part time è fondamentale rientrare nel range di crediti minimi e massimi richiesti, evitando di non raggiungerli oppure di “sforarli”. Se tali vincoli non vengono rispettati, il proprio status viene perso: se lo studente non ha più i requisiti necessari per il rinnovo dell’iscrizione part-time o non ha rispettato l’impegno formativo previsto gli viene revocata la qualifica di studente part-time e deve integrare la quota dei contributi dalla quale era stato esonerato. È, però, consentito presentare una nuova richiesta di tempo parziale, facendo domanda al Rettore. La richiesta di iscrizione a tempo parziale non può essere presentata per l’anno accademico nel quale lo studente intende partecipare a bandi relativi alla mobilità internazionale e all’attività di collaborazione a tempo parziale. 

Il numero di studenti lavoratori in Italia

L’Italia non risulta di certo essere la prima Nazione al mondo per quantità di studenti lavoratori. Secondo l’Istat la fetta di 15-29enni che nel 2018 era impegnata come studente lavoratore riguardava 206mila soggetti, con una leggera maggioranza di femmine (109mila, pari al 53%).  Il dato, però, non è completamente aderente alla realtà perché spesso, oltre a chi lavora nella ristorazione o come rider, c’è chi dà ripetizioni, fa la babysitter o consegna volantini, per lo più in nero, non permettendo di essere registrato nelle statistiche ufficiali. Secondo Almalaurea il 59%  dei laureati del 2018 ha compiuto una qualche esperienza di lavoro nel corso degli studi universitari. Pochi sono quelli che concludono i loro studi lavorando stabilmente: circa il 6%, mentre le mansioni maggiormente svolte consistono in piccoli lavoretti saltuari e disomogenei nel tempo. 

La maggior parte degli studenti lavoratori, soprattutto chi lavora nella ristorazione, non ha un contratto regolare e guadagna molto poco: per mantenersi deve lavorare molto, soprattutto in specifici periodi, dove è presente una forte richiesta, come il periodo delle festività natalizie: questi momenti coincidono con il periodo di preparazione agli esami. Ciò ovviamente espone questi ragazzi a momenti di forte stress, sia fisico che cognitivo, ma non solo. Tornando a casa stremati dal lavoro, gli studenti non riescono a preparare gli esami, indaffarati dalle bollette che devono pagare, da come devono gestire il denaro per arrivare a fine mese o semplicemente per la stanchezza, finendo per darne pochissimi durante il semestre.

Tutto questo perché? Perché anche tra gli studenti universitari c’è chi è costretto a lavorare per vivere e mantenersi gli studi, e proprio quando lavorare non è una scelta, ma una costrizione, che lo studio si fa più difficile. Immaginiamo di dover lavorare per dover sopravvivere, anche se il nostro sogno è quello di laurearci: mangiare e avere un tetto sopra la testa sarà comunque il nostro primo pensiero al mattino. Per questo sarebbe necessario aumentare gli aiuti agli studenti con servizi e welfare che siano veramente sinonimo di diritto allo studio. In conclusione, possiamo affermare che lavorare e studiare non è impossibile, ma è spesso “il sistema” che lo rende come tale o quanto meno non agevole. È necessario intraprendere a livello istituzionale, un percorso di aiuto e sostegno al lavoratore part time per conciliare lo studio, un diritto, con il lavoro, spesso una necessità.

Martina Marradi

Tutor: un supporto allo studio

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Conosci i tutor universitari? Una novità di questi ultimi anni, che l’Università degli studi di Firenze ha introdotto, è il tutoraggio come mezzo attraverso il quale sostenere lo studente nel suo percorso di studi. Pochi giorni fa tutti gli studenti del nostro Ateneo hanno ricevuto una mail, la quale citava che “per gli studenti delle lauree triennali e per quelli dei primi due anni delle lauree magistrali a ciclo unico, sono presenti dei tutor senior di Ateneo che svolgono attività didattica integrativa per alcune discipline di base“. 

Lo studio universitario, lo sappiamo, è impegnativo, stressante e ricco di ostacoli. Spesso ci abbattiamo, perché non riusciamo a trovare un metodo di studio efficace per tutte le materie che dobbiamo studiare, oppure non riusciamo ad organizzarci con il tempo che abbiamo a disposizione. Capita a tutti di guardare il libro, chiudere gli occhi e sperare di catapultarci in una bella spiaggia caraibica, così come capita a tutti di cadere nello sconforto prima di un esame e pensare che la rinuncia agli studi sia l’unica soluzione per evitare di impazzire

Ecco che, in tutto questo stress, i tutor possono arrivare in nostro soccorso. Sono neolaureati o dottorandi che si mettono a disposizione degli studenti per aiutar loro nella preparazione degli esami più complessi, risolvendo dubbi o perplessità, dando informazioni o consigli. Essi vengono in aiuto a tutti coloro che hanno problemi organizzativi del proprio piano di studi. L’obiettivo alla base del tutorato è creare una giusta sinergia tra l’operato dello studente e l’Università in generale, ma non solo, accrescere i risultati accademici dell’alunno in un clima di studio sereno ed efficiente. 

State tranquilli, il tutor non è un professore pronto a giudicare le vostre lacune o difficoltà: essendo solo uno studente, con qualche esperienza in più, potrà essere considerato come una spalla che può fornire una consulenza sugli esami da affrontare. Dunque, ora che abbiamo compreso cosa sia il tutor universitario è altrettanto importante capire come poterlo diventare. Solitamente il tutor è stato uno studente dalla carriera accademica brillante che ha partecipato ad appositi bandi che l’Università istituisce annualmente. Spesso, dopo la vittoria del concorso è necessario sostenere un corso di preparazione per svolgere il proprio compito al meglio. 

Presso l’Università di Firenze diventare tutor significa impegnarsi a svolgere questo ruolo in 300 ore, con un pagamento di 10 euro l’ora. La mansione, quindi, è retribuita, ma più che un lavoro risulta essere una missione: l’impegno non basta, è necessario pazienza e tolleranza nei confronti degli alunni che hanno bisogno spesso di un supporto morale, qualcuno di cui fidarsi, piuttosto che un aiuto vero e proprio nello studio. Inoltre, la poca differenza di età, consente di instaurare un rapporto empatico e meno statistico, rispetto ai formalismi tipici delle relazioni con i docenti. Dunque, sia nel caso in cui tu sia uno studente distrutto dalla sessione, stressato e nel panico, sia che tu voglia diventare un tutor per aiutare gli altri studenti e fornire loro consigli, l’Università ha la risposta alle tue domande. Rivolgersi ai tutor o diventarlo è sempre utile e l’Università di Firenze istituisce annualmente bandi, seminari e concorsi per offrire un servizio fondamentale per lo studente. Oltre ad essere necessario è un diritto. 

Martina Marradi

MASTER IN PSICOLOGIA SCOLASTICA E PSICOLOPATOLOGIA DELL’APPRENDIMENTO

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Avete mai sentito parlare di termini come dislessia, disortografia, discalculia? Sapete cosa sono i Disturbi dell’attenzione o dell’apprendimento? Il Master dell’Università di Firenze risponde a tutte queste domande, attraverso un corso intensivo di nove mesi. Prima, però, facciamo un po’ di chiarezza e cerchiamo di entrare nel cuore dei temi che vengono affrontati in tale Master. 

Disturbi dell’apprendimento 

Tutti noi, almeno una volta nella vita, soprattutto in ambito scolastico, abbiamo sentito parlare di disturbi specifici dell’apprendimento (DSA); pochi, però, sanno veramente cosa siano. I DSA sono disabilità  in cui si presentano significative difficoltà nella lettura, scrittura e calcolo. I DSA si caratterizzano per essere estremamente specifici: il disturbo può riguardare solo il calcolo, ma non la scrittura, oppure può essere circoscritto solo alla lettura. Un altro elemento caratteristico di questi disturbi è quello di essere osservabili quando il bambino inizia a leggere e scrivere, dunque non possono essere scoperti prima. Mentre i bambini che non presentano questo disturbo, trasformano la lettura delle parole e la scrittura in un automatismo, che dopo qualche tempo risulta non occupare così tanto energie e sforzi, i bambini con DSA fanno fatica a sviluppare capacità che per tutti risultano essere semplici e assodate. 

Non dobbiamo pensare che tali disturbi siano frutto di traumi infantili o problemi psicologici: essi hanno un’origine neurobiologica. Il bambino ha la stessa capacità cognitiva e la stessa intelligenza dei coetanei, ma disperde più energie del normale nell’apprendere come calcolare somme o sottrazioni, piuttosto che non fare errori ortografici durante la scrittura di un testo. Spesso, le difficoltà scolastiche, il senso di inadeguatezza e l’insufficiente attenzione degli insegnanti nell’analizzare il problema possono spingere l’individuo a lasciare la scuola.  In Italia, la diagnosi di questi disturbi è spesso insufficiente e le stime dicono che almeno due studenti con dislessia su tre non ricevono una diagnosi durante il percorso scolastico: è fondamentale, dunque, diagnosticare in tempo il disturbo e modellare il percorso di studio secondo le necessità dell’alunno. Questo non solo permetterà di coprire con successo tutti gli argomenti e materie che vengono trattate durante l’intero percorso scolastico, ma permetterà di aumentare l’autostima personale, nonché il senso di gratificazione dell’individuo. 

La legge italiana 170/2010 riconosce quattro disturbi dell’apprendimento, dislessia, disortografia, discalculia e disgrafia, e sancisce la necessità di diagnosi rapide per creare un percorso educativo personalizzato sulle richieste dell’alunno: nelle scuole come nelle università i soggetti con DSA devono essere in grado di raggiungere il massimo risultato e lo Stato italiano deve impegnarsi per portare a termine questo importante obiettivo. 

La dislessia 

La dislessia si contraddistingue per la difficoltà nella lettura da parte del soggetto che presenta tale disturbo. La lettura di un testo è lenta, faticosa e poco scorrevole; nell’analisi della parola si osservano omissioni o aggiunte di lettere e le parole vengono spesso scambiate con altre. La conseguenza immediata di tutto ciò è che l’analisi e la decodifica del brano è molto difficile e ricca di ostacoli: ciò rallenta l’apprendimento dell’alunno rispetto ai coetanei. 

La disortografia 

La disortografia è un disturbo che  coinvolge la correttezza ortografica della scrittura attraverso errori fonologici e non fonologici: nel primo caso non c’è una corrispondenza tra il suono e il segno, come la difficoltà nel distinguere la t dalla d, mentre nel secondo caso ci riferiamo a separazioni o unioni di parole in maniera incorretta, per esempio scrivere la voro invece che lavoro. 

La discalculia 

La discalculia corrisponde alla difficoltà di apprendere la matematica come saper scrivere e riconoscere i numeri, calcolare operazioni, memorizzare formule, saper comparare numeri maggiori da quelli minori. Queste difficoltà niente hanno a che vedere con il fatto che l’alunno “non si applica” e sicuramente aumentare il numero e la frequenza degli esercizi è una strategia che non funziona, anzi, può affaticare ancora di più lo studente, nonché frustrarlo

La disgrafia

La disgrafia è un disturbo specifico della scrittura che coinvolge la grafia e, compromettendo la qualità grafica del testo, può rendere ciò che è stato scritto completamente illeggibile. I segni alfabetici e numerici non vengono scritti correttamente a causa della difficile coordinazione tra il cervello e la mano. Possiamo osservare assenza di spazi fra le lettere, parole di grandezza differenti, troppa pressione sul foglio o la totale assenza del rispetto di margini e righe tra una frase e l’altra. 

Disturbi dell’attenzione (ADHD) 

Il disturbo da deficit dell’attenzione ed iperattività si manifesta durante l’infanzia attraverso tre sintomi principali: disattenzione, iperattività e impulsività. Gli studenti con questo disturbo faticano a rimanere concentrati su uno stesso compito e si fanno distrarre facilmente dai compagni o da rumori occasionali: raramente, infatti, riescono a completare una consegna. I bambini con ADHD giocano in modo rumoroso, parlano ad alta voce, interrompono persone che conversano o che stanno svolgendo delle attività in modo brusco e sono molto disorganizzati. 

Gli studi dimostrano che il 3-7% dei bambini in età scolare e il 4-5% degli adolescenti e dei giovani adulti, rientra nei criteri del disturbo da deficit di attenzione e che tra essi i maschi sono il doppio della femmine. Non esiste un’unica causa, ma diverse potenziali fattori che portano al suo sviluppo: peso ridotto alla nascita, traumi cranici, deficit di ferro, assunzione di minime quantità di piombo od esposizione prenatale ad alcol, tabacco e cocaina. 

Come accennato la sintomatologia di questo disturbo si contraddistingue per:

Disattenzione

La disattenzione si contraddistingue per la mancanza di coinvolgimento e concentrazione nel portare a termine uno specifico compito, nonché un’alta capacità nel distrarsi per rumori o elementi che si trovano nell’ambiente intorno al soggetto in questione. Un bambino con tale problematica perde spesso quaderni, penne, libri e fatica a comprendere le consegne che gli vengono chieste. Per esempio, una semplice domanda come: “Potresti portarmi il libro di scienza che si trova nella mia camera, nel secondo cassetto vicino all’armadio” creerebbe un senso di frustrazione nel bambino, che alla fine abbandonerebbe la ricerca, perché troppo complessa. 

Impulsività 

L’impulsività si riferisce alla tendenza ad agire in modo precipitoso ed affrettato con possibili conseguenze negative per il bambino, come attraversare una strada trafficata senza guardare, apparire maleducati nell’interrompere senza motivo una persona o compiendo atti pericolosi senza pensare alle conseguenze. 

Iperattività 

I bambini con iperattività sembrano avere un’energia incontenibile e basta solo osservarli per rimanere senza fiato. Sono bambini con “l’argento vivo addosso”, che non sopportano tempi di silenzio o di stasi: sembrano irrequieti, proprio perché non riescono a stare seduti, ma si dondolano sulla sedia, corrono per la stanza e vogliono fare più giochi contemporaneamente. 

Questi sono alcuni degli elementi che il Master dall’Università di Firenze offre a chiunque abbia conseguito una laurea magistrale o specialistica e che sia interessato a questo settore. Il mondo dell’apprendimento è estremamente vasto: vi sono scoperte e studi continui e la ricerca non si ferma mai, perché l’istruzione, non solo deve essere garantita a tutti, ma deve essere modellata in base alle esigenze di chi ne ha più bisogno. 

Martina Marradi 

L’EX MANIFATTURA TABACCHI

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Era il lontano marzo 2001 quando la manifattura Tabacchi chiudeva i battenti dopo settant’anni di attività nel territorio fiorentino. Grazie però al progetto ambizioso di riqualificazione degli spazi darà nuova linfa al territorio e al comparto economico della città.

L’8 aprile scorso sono partiti i lavori di riqualificazione dell’intero complesso dopo 2 anni dall’approvazione del progetto da parte del Comune di Firenze e che vedrà la sua definitiva realizzazione entro il 2026. Il progetto prevede il rinnovo e la ristrutturazione dei 16 edifici che costituiscono la storica area industriale per una superficie totale di 110 mila m². 

Fonte il giornale dell’architettura.com

I fondi stanziati per la realizzazione dell’opera sono 250 milioni di euro che provengono dalla joint venture, ovvero da un gruppo societario, costituita nel 2016 dalla società immobiliare del Gruppo Cassa depositi e prestiti e da Pw Real Estate Fund III LP, un fondo gestito da Aermont Capital. MTDM Manifattura Tabacchi Development Management Srl è la società di sviluppo e project management che gestisce l’intero processo.

Lo sviluppo dell’area prevede inizialmente un investimento di 30 milioni di euro e interessa una superficie totale di 21.000 m², e in particolare gli edifici 4, 5 e 11. Gli edifici 4 e 5 ospiteranno al primo piano nuovi spazi direzionali e di co-working; il piano terra sarà dedicato alle attività commerciali composte da negozi, atelier, ristoranti, configurandosi come un nuovo centro di scambio commerciale e creativo simile alle botteghe fiorentine del Rinascimento. Questi edifici inoltre saranno la casa dei maker di Manifattura Tabacchi, una comunità di creativi che valorizzano l’arte della sartoria e della ceramica con un occhio attento alla sostenibilità e ai restauri. L’edificio 11 ospiterà “NAM – Not a Museum”, luogo dedicato alla produzione, ricerca e sperimentazione per le arti contemporanee. Sul tetto ospiterà un giardino pensile aperto al pubblico che vedrà la piantumazione di oltre 100 alberi e 1300 tra arbusti, pianti perenni e erbe. Questo progetto verde porterà alla riduzione delle emissioni di CO₂ e al miglioramento della qualità dell’aria nell’area circostante, e soprattutto sarà d’esempio per le prossime realizzazioni architettoniche in città. 

L’intera area sarà costeggiata da due strade pedonali, e da un nuovo passaggio ciclopedonale che attraverserà la Manifattura, collegando il quartiere universitario di Novoli col Parco delle Cascine in corrispondenza della fermata T4 della tramvia.

Dal 2018 la Manifattura Tabacchi promuove un programma di attività temporanee. In particolare, è stato allestito uno spazio al piano terra dell’edificio 7 che ha visto la realizzazione di 5 aule laboratorio per lezione di grafica, fotografia, scenografia per le attività didattiche dell’Accademia di Belle Arti di Firenze. Invece, dal dicembre 2019, negli spazi dell’edificio 8 si è trasferito il team di DogHead Animation, una start-up di animazione 2D all’avanguardia. Inoltre nella Manifattura Tabacchi di domani ci sarà una piazza chiamata piazza dell’Orologio, uno spazio pubblico per eventi e installazioni contemporanee, dove si affaccia l’edificio 6 di Polimoda che dal 7 gennaio ha aperto la terza sede in quell’area oltre a Villa Favard e al Design Lab.

Fonte La Repubblica

Firenze grazie a quest’opera innovativa mette un altro mattoncino per migliorare gli aspetti paesaggistici e ambientali della città con l’aiuto di investimenti privati che non solo portano risalto alla città ma immettono nel mercato fiorentino nuove idee di sviluppo sostenibile che guardano all’ambiente e al tessuto economico del capoluogo toscano.

Federico Brini

UNIFI E AGENDA 2030

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Quanti di voi negli ultimi anni hanno sentito parlare di Agenda 2030? Sapevate che il nostro ateneo fiorentino si trova al 3º posto in Italia relativamente a “industria, innovazione e infrastruttura”? Inoltre, eravate a conoscenza dell’esistenza di una classifica mondiale dove vengono raccolti i dati di impatto dei vari atenei mondiali? “Times Higher Education Impact è la classifica che valuta le università in base all’impegno in relazione all’applicazione degli obiettivi stilati dall’ONU.

Facciamo un passo indietro. L’Agenda 2030 è stata istituita dall’Organizzazione delle Nazioni Unite nel 2015, con l’obiettivo di far fronte alle attuali emergenze che si sono rese protagoniste negli ultimi anni. Il documento è composto da 17 SDGs (Sustainable Development Goals) e 169 sotto obiettivi, che spaziano fra le varie tematiche ambientali, sociali ed economiche. Il principio cardine dell’Agenda è l’universalità: ogni Paese deve impegnarsi, in proporzione alle proprie capacità, nel raggiungere le mete fornite dell’ONU. 

Prima dei 17 obiettivi di sviluppo sostenibile del 2015, era presente un altro programma universale basato su princìpi simili: obiettivi per lo sviluppo del Millennio adottati nel 2000. 

I risultati degli obiettivi fissati nel 2000 sono stati tangibili. Nonostante la crescita della povertà, molte più persone hanno accesso a fonti di acqua sicura e controllata, il tasso di educazione è aumentato in linea generale e anche a livello sanitario alcune realtà, che mostravano gravi carenze nel campo, sono riuscite a diminuire la presenza di malattie quali malaria, tubercolosi e Aids. 

Tornando alla nostra realtà fiorentina. Secondo “THE University Impact Rankings l’Unifi si trova al 63esimo posto nella classifica mondiale (terza in Italia) per “industria, innovazione e infrastrutture”. Per quanto riguarda “consumo e produzione responsabile” si trova nella fascia mondiale 101-200, assieme all’università dell’Aquila. Gli altri indicatori presi in considerazione dimostrano essere ad un buon livello, essi sono: 

  • Azione per il clima;
  • Buona salute e benessere;
  • Riduzione della disuguaglianza; 
  • Città e comunità sostenibili; 

A livello generale la classifica mondiale ha subito dei grandi cambiamenti fra gli anni 2020 – 2021. I riposizionamenti sono causati da un aumento del 45% di atenei che si sono dedicati all’implementazione degli obiettivi ONU; difatti, nel 2020 essi erano 768, nel 2021 sono diventati 1.115. In riferimento a ciò, anche il numero di atenei italiani è mutato dalle sole 10 posizioni del 2020, alle 16 dell’anno in corso. L’Unifi dopo il ricalcolo si è posizionata nella fascia 200-300. 

Il delegato per le politiche sulla sostenibilità del nostro ateneo, Franco Bagnoli, ha commentato: “Questi dati, al di là di una progressiva presa di coscienza della strategicità di questi temi da parte del mondo accademico mondiale, testimoniano un rinnovato impegno del nostro Ateneo. I risultati premiano da una parte l’innovazione della ricerca e il trasferimento sul territorio, dall’altro le buone pratiche messe in campo in questi anni, ad esempio, nel campo del riciclo dei rifiuti, nella riduzione del consumo della plastica, dell’efficienza energetica e della mobilità sostenibile”.

Anche la Toscana si sta impegnando per la realizzazione di un programma volto all’inserimento dei 17 obiettivi nelle politiche regionali. Ciò dimostra la necessità di agire non solamente a livello nazionale, ma anche a livello regionale, e addirittura locale. L’azione delle diverse piccole realtà presenti può comportare un’accelerazione generale verso una realizzazione degli obiettivi Onu più equa a livello territoriale.

Questi dati dimostrano come le politiche sostenibili siano entrate anche nel mondo accademico, e ciò deve essere ritenuto un grande passo per la sensibilizzazione dei vari temi affrontati. Proprio l’istruzione dovrebbe essere il baluardo da dove partirà la prerogativa per un mondo più sostenibile, equo sia dal punto di vista economico sia sociale, proprio come auspica l’Agenda 2030.

Lisa Pieroni