L’arte che nasconde il dolore

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Piangere: un’azione necessaria quanto spesso inappropriata, oggi. 

Ma non è sempre stato così. 

Scrive Matteo Nucci, nel suo Le lacrime degli eroi, che la storia dell’uomo ha conosciuto le lacrime di coloro che ai nostri occhi sono invincibili. Come è possibile questo? È possibile perché in un tempo lontanissimo le lacrime, il pianto, la manifestazione dell’emozione, non avrebbero inciso negativamente su nessuno. O meglio, su nessun eroe. Platone stesso sapeva benissimo che gli eroi piangevano, e non degli eroi qualunque, ma quelli omerici, gli Eroi. Odisseo, che pianse al cospetto di Alcinoo, o di Circe, Achille per l’amato Patroclo; il sacerdote Laocoonte, che più di ogni altro rappresenta nella storia dell’arte il dolore


Dettaglio del gruppo scultoreo Laocoonte, da una copia di Agesandro, Atenodoro di Rodi e Polidoro, eseguita fra I secolo a.C. e I d.C., oggi nel Cortile del Belvedere, Musei Vaticani

L’Antico e nel Nuovo Testamento, altri incrollabili pilastri che sorreggono la nostra cultura, vedono diversi esempi di pianti di dolore, di gioia, di liberazione: il pianto di Pietro dopo il rinnegamento, il pianto di Davide per i suoi figli, per il neonato gravemente malato; nella Genesi piange Giuseppe, alla vista del fratello Beniamino in Egitto quando da schiavo diventa governatore e riaccoglie i fratelli che lo avevano venduto.

Perché oggi gli eroi non piangono? Perché nella storia dell’arte piano piano si sono creati escamotage atti a nascondere il pianto, il dolore? Platone sapeva bene, quando scrisse la sua Repubblica che le lacrime degli eroi appartenevano ormai a un’epoca passata, lontana perfino per egli stesso. 

Si iniziò a prendere distanza dal pianto, dal dolore, e questa distanza si declinò in diverse forme: nell’arte, la distanza dal dolore ha il nome di aposiopesi. Essa non consiste in una presa di posizione avversa all’atto del piangere (come si era posto Platone, amando e allo stesso tempo uccidendo gli Eroi che per ultimi, a suo avviso, si erano potuti permettere di piangere per saziarsi del pianto), ma ha una funzione diversa, di “aiuto” verso il fruitore dell’opera. Perché spesso si dice che il ‘900 ha portato l’attenzione verso il pubblico dell’arte, ma questa è una visione estremamente superficiale che non prende in considerazione le grandi (grandissime, alla luce della lontananza cronologica) attenzioni poste in essere dai cosiddetti “antichi”.

Aposiopesi

Si definisce così la figura retorica che prevede che il discorso venga sospeso, lasciando all’immaginazione del lettore la percezione del senso: fra gli autori antichi, Cicerone, Valerio e Quintiliano si soffermarono spesso sul parallelismo tra questa figura retorica e lo stratagemma utilizzato nell’arte per mantenere il decorum anche nei momenti più struggenti.

Si narra che il celebre artista Timante, detto di Cipro, avesse realizzato un’opera raffigurante il Sacrificio di Ifigenia e rendendosi conto che la mano umana non era in grado di rappresentare un dolore disumano come quello provato dal padre Agamennone, avrebbe messo “al sicuro” quel dolore, nascondendolo dietro ad un velo, e lasciando così all’osservatore l’arduo compito di immaginare la profondità di quello sguardo, di quella passione.

Solo 𝐌𝐚𝐬𝐚𝐜𝐜𝐢𝐨, molto tempo dopo, si permise di mostrare il dolore senza coprirlo con apparati esterni: allora il volto di quella Eva diventava così pesante, materico, devastato e devastante.


Masaccio, Cacciata dei progenitori dall’Eden, dettaglio della Cappella Brancacci, Firenze, 1424/1427

𝐋𝐨𝐭𝐭𝐨 invece si pone nel solco inizialmente tracciato quando il limite tra leggenda e storia era una sottile linea beige, ovvero fra V e IV secolo a.C. 

Lotto realizza la tavola con il Compianto come cimasa per il Polittico di San Domenico; grazie al contratto sappiamo che la commissione risale al 20 giugno 1506.

 L’effetto di grande drammaticità è acuito da una luce fredda e da una composizione serrata che lascia però spazio alla ricchezza di gesti e tensioni, resi ancora più espressivi da una leggera sproporzione delle mani. 


L’atmosfera è così dolorosa ma non completamente cupa, proprio grazie a questa luce che è sì fredda, ma al tempo stesso si espande morbida lungo tutta la composizione, probabilmente come conseguenza della frequentazione giorgionesca.

Dettaglio della Vergine nel Compianto di Lotto, 1506/1508

Giuseppe d’Arimatea, rappresentato come un vecchio calvo dai lunghi baffi spioventi, sostiene il Cristo sotto l’ascella sinistra e dietro la nuca, quasi accarezzandolo, affinché il capo senza vita non caschi all’indietro.


Dettaglio di Giuseppe d’Arimatea che sorregge il capo del Cristo, Compianto di Lotto. L’opera è firmata e datata “Laurent[ius] Lotus MDVIII”

Smembrato a un’altezza cronologica che non conosciamo, è documentato nel 1861 grazie all’opera di censimento sistematico degli oggetti d’arte di proprietà ecclesiastica (voluta dal Ministro dell’Istruzione Francesco de Sanctis) effettuata sul territorio umbro-marchigiano dal neo deputato Giovanni Morelli e dallo storico e critico d’arte Giovan Battista Cavalcaselle.

Daria Passaponti

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