Saragat, l’unità nazionale

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In tempi di elezioni del Quirinale non potevo far altro che approfondire un episodio del passato emblematico su ciò che rappresenta e dovrebbe rappresentare il Presidente della Repubblica.

Come recita la prima parte del primo comma dell’articolo 87 della costituzione italiana: “ Il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale”.

Da ciò evinciamo chiaramente qual è lo scopo principale della prima carica dello stato: promuovere coesione e l’unità nazionale.

Elemento, quest’ultimo, tutt’altro che scontato in uno stato di recente creazione e scarsa coscienza nazionale come l’Italia.

Un paese, quello dello stivale, così poco patriottico necessita chiaramente di un ruolo che, per assurdo, sia volto a garantire la sopravvivenza stessa della nazione.

Colui o colei (anche se per adesso il glass ceiling di una donna presidente non si è ancora “rotto”) preposto a questo incarico “unionista” è appunto il Presidente della Repubblica.

Effettivamente può sembrare, messa così, mera retorica. Quindi per dare un’immagine maggiormente calzante vorrei citarvi un evento drammatico in cui veramente il PdR ha rappresentato l’Italia tutta nella sua interezza.  L’occhio cade inevitabilmente sulla nostra Firenze, in particolare a quei giorni dal 3 al 6 novembre del 1966, l’alluvione magistralmente raccontata da Luciano Bausi nel libro Il giorno della piena  .

L’evento fu traumatico non solo per la città toscana e i suoi dintorni ma per tutta Italia. L’esondazione dell’Arno provocò infatti ben 35 morti e danni ingenti al patrimonio artistico cittadino (i magazzini della Biblioteca Nazionale allagati, il Crocifisso di Cimabue,…) .

Firenze, disastrata, vide l’arrivo dell’allora Presidente Giuseppe Saragat, già segretario del partito socialdemocratico (PSDI), ministro degli affari esteri e Presidente dell’Assemblea Costituente fino al febbraio 1947.

In carica dal 1964, Saragat arrivò ,come riporta la stessa Biblioteca Nazionale, addirittura prima dei soccorsi a bordo di un fuoristrada. Non mancarono certo le contestazioni ma il suo arrivo rese l’idea a milioni di italiani di ciò che stava accadendo a Firenze e dell’enorme e disperato bisogno di aiuto che necessitava. Aiuto poi ampiamente ottenuto e chissà, forse anche per merito di un Presidente molto propenso anche in altri disastri a muoversi in prima persona (Belice, Vajont).

In momenti così difficili della storia nazionale la figura del capo dello Stato esce dalla sua immagine ovattata e lontana dal Paese reale. Il PdR scende direttamente sul campo e in quell’istante cessa di essere soltanto il Presidente della Repubblica italiana, diventando la Repubblica italiana stessa. Attorno a lui si ripongono speranze, frustrazioni, gioie e dolori di tutto un popolo. 

La prima carica dello stato formalmente è dunque solo simbolica (non mancano però le eccezioni di presidenti con purtroppo derive presidenzialiste) . Ma quel simbolo per un’Italia quanto mai dimentica di un passato comune, pessimista totale e inconsolabile verso il futuro, è oggi come ieri e domani quanto mai necessario.

Andrea Manetti

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Chi opera in politica estera?

Chi opera in politica estera?

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La domanda potrebbe apparire futile e dalla rapida soluzione, nel sistema istituzionale italiano la politica estera è affidata all’esecutivo ed in particolare al ministero degli Esteri in sede alla Farnesina.

La Farnesina attraverso il suo personale amministrativo altamente qualificato e la ramificazione di ambasciate e sedi consolari in altri stati esercita la linea politica del governo, incarnata nella figura del Ministro degli Affari Esteri. Tale carica nel corso dell’esperienza Repubblicana in Italia è quasi sempre apparsa come uno degli scranni più ambiti e molto spesso come la consacrazione di un esponente di un determinato partito politico o in casi particolari di un eminente figura tecnica. 

La politica estera italiana persegue anche due principali direttive dall’istituzione della repubblica in poi, ed in particolare dal dopoguerra come risultato della stagione delle grandi scelte: 

  • Atlantismo;
  • Europeismo.

Ma nel corso dell’esperienza democratica del Belpaese vi sono state altre figure all’infuori del ministero degli esteri che hanno svolto o tentato di svolgere istanze di politica estera in nome di un nuovo interesse nazionale?

Il neoatlantismo

Termine coniato dal democristiano Giuseppe Pella nel 1957, tende ad identificare la corrente di politica estera italiana tra il 1957 ed il 1958; all’indomani della crisi del Canale di Suez e della prima distensione tra Stati Uniti ed Unione Sovietica la politica italiana sembrò imporsi con nuovo slancio con istanze volte a recuperare un ruolo di media potenza tra il mediterraneo ed il Medio Oriente. 

La nuova direzione non si discostava dalle due direttive cardini dell’atlantismo e dell’europeismo ma cercava spazi di manovra nei vuoti lasciati da esse, la vocazione anticoloniale italiana permetteva quindi al paese di allacciare contatti con la corrente terzomondista emersa dalla Conferenza di Bandung.

Non pochi saranno gli screzi interni ed internazionali in questo periodo, anche a livello istituzionale con il sopravvento di quattro figure estremamente dinamiche: 

  • Amintore Fanfani, segretario della DC, quattro volte Presidente del Consiglio ed altrettante Ministro degli Affari Esteri;
  • Giovanni Gronchi, Presidente della Repubblica dal 1955 al 1962;
  • Giorgio La Pira, sindaco di Firenze;
  • Enrico Mattei, presidente dell’ENI ed esponente dell’ala sinistra della DC.

Il De Gaulle Italiano

Amintore Fanfani nel corso della sua carriera politica sarà una delle figure cardine della lenta transizione verso il progetto di un governo di centro sinistra organico, costituito da Democrazia Cristiana e Socialisti, ma anche uno dei fautori del Neoatlantismo. Sempre nell’ottica di ribadire l’allineamento italiano in favore del principale alleato Americano Fanfani si mostrerà accondiscendente alla presenza dei missili balistici nucleari su territorio italiano in funzione antisovietica; missili che con la loro rimozione a seguito della crisi di Cuba porteranno ad un netto declassamento del ruolo strategico italiano. Fautore tra i primi di un non definito progetto di Piano Marshall nel Medio Oriente favorirà una politica filoaraba italiana, discostata da quella marcatamente coloniale e clientelare di Francia e Gran Bretagna.

Il così detto monarca della DC assumerà su di sé sia la carica di presidente del consiglio che di ministro degli esteri, portando ad un rivoluzione dell’organino del ministero ai tempi (e fino al 1959) in sede a Palazzo Chigi. La sua figura sarà rapidamente soppiantata nella legislatura successiva da un giovane e rampante Aldo Moro. L’abitudine di assumere su di sé entrambe le cariche istituzionali forse faceva eco ad uno dei padri fondatori e fautore del centrismo, Alcide De Gasperi.

Il presidente pacifista

La figura di Gronchi ebbe un grande impatto sia interno che estero nello scacchiere italiano, il presidente prima di essere eletto non aveva mai nascosto la sua disapprovazione per la scelta atlantica operata da De Gasperi e Sforza di entrare a far parte della NATO.

Obiettivo di Gronchi, infatti era un utopico riallineamento dell’Italia in una posizione equidistante tra le potenze, sfruttando in modo eccessivamente esteso lo spirito di collaborazione economica e politica espresso nel Trattato Nord Atlantico all’art 2 (interpretazione mai gradita dagli americani) in un’ottica di smilitarizzazione dell’Europa.

Gronchi si mosse attivamente in politica estera in due principali istanze:

  • Nel marzo del 1957 a seguito di un incontro al Quirinale con l’allora vicepresidente USA Nixon, Gronchi si mobilita nello scrivere una lettera diretta al presidente Eisenhower in cui propone consultazioni speciali tra i due paesi su tematiche di Medio Oriente e mediterraneo. Tale lettera non giungerà mai dato che verrà prontamente bloccata dal ministro degli affari esteri Martino in accordo con il presidente del consiglio Segni, vi seguirà un braccio di ferro istituzionale vinto dall’esecutivo che ribadirà l’impossibilità per il presidente della repubblica di operare una propria politica estera scissa da quella del governo.
  • Nel 1960 con una missione diplomatica Mosca che pur nell’ottica della prima distensione sarà da molti percepita come una possibile pericolosa svolta dell’Italia, il viaggio si concretizzerà in un fallimento con la reazione eccessiva di Kruscev che ridicolizzerà il peso italiano nello scacchiere internazionale, l’eco di questo viaggio porterà ad una crisi dell’allora governo Segni.

Il sindaco terzomondista

Giorgio La Pira, eminente figura della DC, fervente cattolico e legato agli altri quattro individui da uno stretto rapporto di amicizia e stima reciproca. Il sindaco di Firenze più volte si adopererà in progetti ad ampio respiro in ambito di politica estera, molto spesso così ambiziosi da avere effetti sullo scacchiere internazionale. Tra i vari possiamo qui ricordare una conferenza internazionale per i sindaci di vari paesi a quali figuravano il sindaco di Mosca, esponenti del movimento di Liberazione Algerino e altri esponenti della corrente terzomondista presenti alla precedente Conferenza di Bandung.

Sicuramente però l’istanza che ebbe il maggiore eco mediatico fu quella relativa alla mediazione instaurata con il leader nordvietnamita Ho Chi Min, operata nel solco lasciato dalle speranze di riconciliazione mosse da papa Paolo VI. La mediazione volta a porre una fine al sanguinoso conflitto in Vietnam se pur partita su ottime basi (molti dei punti concordati da La Pira saranno poi parte dell’effettivo tratta di Pace con gli USA) naufragherà a causa di un’intervista rilasciata dallo stesso La Pira al giornale “Il Borghese” nelle quali egli esternava un sentimento marcatamente antiamericano coinvolgendo anche Fanfani, allora ministro degli esteri e segretario dell’assemblea generale dell’ONU.

Il petroliere senza petrolio

La figura di Mattei ha certamente bisogno di poche presentazioni rappresentando uno dei migliori esempi imprenditoriali della storia primorepubblicana, con il suo cane a sei zampe si mosse molto alla ricerca di nuovi approvvigionamenti energetici per l’Italia intrattenendo spesso accordi con paesi non squisitamente allineati sullo scacchiere bipolare.

Nonostante i vari aloni manichei attorno alla sua figura appare come innegabile l’operato dell’ENI in quegli anni fosse in linea con una nuova intesa della linea neoatlantica in aree mediterranee e medio-orientali.

Memorandum ad ampio spettro

Sarebbe però un errore considerare come valide spinte solo quelle derivanti da queste eccezioni istituzionali, molto spesso nella storia Italiana le scelte cardine della politica estera sono state intraprese da eminenti figure dell’apparato diplomatico, possiamo qui citare ad esempio l’ambasciatore Tarchiani a Washington vero fautore dell’adesione al Patto Atlantico, dalla cui stesura l’Italia era stata esclusa. Sarà Alberto Tarchiani operando nell’ampia libertà concessagli da Sforza ad intercedere con la presidenza Truman per far accedere l’Italia al patto. Oppure pensiamo a Manlio Brosio, ambasciatore a Londra capace di concludere un annoso memorandum che siglava la conclusione della ferita aperta concernente lo status di Trieste (contesta tra Italia e Jugoslavia). 

Conclusione

Per concludere la travagliata trattazione possiamo riferirci a come nonostante i diversi interpreti la politica estera italiana vive sviluppi episodici molto spesso condizionati dall’ambito internazionale e troppo spesso legati a ragionamenti di rango e non di ruolo dovuti a quella che appare come un’atavica difficoltà nel definire un chiaro interesse geografico o nazionale.

Angelo Doria

La monumentomania

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La politica da sempre tenta di essere onnipresente nella vita di ciascuno di noi, che sia per il consenso,l’obbedienza o anche la mera notorietà di un singolo.

Dall’educazione ai media, ogni contesto e strumento è buono per propaganda favorevole o contraria ad un politico, autoritario o democratico che sia.

Detto questo proviamo ad immaginarci i luoghi in cui trascorriamo gran parte del nostro tempo.  Posti apparentemente anonimi,come vie,piazze o generalmente edifici. Dove passiamo casualmente senza pensare che lì si è consumata, affinché quella via o parco abbia quel preciso nome, una vera e propria battaglia politica.

Insomma, tutto ciò che anima l’identità di una città o di un paese viene o può essere plasmato dai politici. 

Toponomastica e odonomastica,ovvero il dare nomi agli spazi urbani, non sono quindi solo pratiche onorifiche ma veri e propri messaggi propagandistici alla cittadinanza da parte della giunta comunale  comunale del momento verso una precisa ideologia o un preciso precetto.

Una città quindi può dirci mediante i luoghi che esprime quale maggioranza politica vi sia al momento.

Pensiamo per esempio a Firenze , quando passiamo per Via Vittorio Emanuele II o per il liceo Antonio Gramsci.. 

Ogni città è dunque intrisa nella politica fin dalle sue fondamenta.. e chissà forse leggendo queste poche righe potreste iniziare a vedere le vostre città con altri occhi!

Andrea Manetti

Giovanni Spadolini: un fiorentino

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Il giornalismo vieta a Spadolini di perder di vista la storia, la cronaca, e di fornicare soltanto coi morti. A Roma è popolarissimo specialmente fra i portieri e i bidelli dei ministeri che frequenta. Essi non sanno chi sia quel signore giovane, ma già imponente e autorevole, con cui De Gasperi suole intrattenersi in lunghi e cordiali colloqui; ma fiutano in lui, nella sua borsa di cuoio gonfia di misteriosi documenti, nel suo grave portamento, nella sua composta discrezione, nella stessa foggia dei suoi abiti ispirata più a decoro che a eleganza, l’erede naturale, anche se tutt’ora acerbo d’anni, di quei Servitori della Cosa Pubblica di cui, con Giolitti, s’è perso il seme”  così uno dei più grandi giornalisti italiani del Novecento, I. Montanelli nel 1952 diceva dell’amico Giovanni Spadolini.   Amicizia e stima che i due avranno reciprocamente per tutta la vita.

Spadolini nacque a Firenze il 21 giugno del 1925. Frequenta la scuola elementare degli Scolopi in via Cavour nella quale subito si distinse per la scrittura in quarta elementare del suo primo libro che raccontava la storia d’Italia da Barbarossa a Mussolini.

Di quell’anno scolastico grazie alla Fondazione Spadolini Nuova Antologia abbiamo anche la sua pagella tuttavia non molto brillante. 

Frequenta il liceo Galileo sempre in via Cavour, odonomastica che segnala una interessante coincidenza col Risorgimento, passione che lo accompagnerà per tutta la vita rendendolo uno dei suoi massimi esperti.  

Nel periodo liceale scrive e diffonde tra i suoi amici un suo giornale scritto a macchina intitolato Il mio pensiero .

A soli 24 anni diventa collaboratore per Il Mondo di Mario Pannunzio, una delle riviste più anticonformiste del tempo. Nel 1950 cura gli affari interni presso l’appena fondato settimanale Epoca .

Successivamente scrive anche sulla terza pagina, pagina culturale tipica dei giornali italiani novecenteschi, del noto quotidiano romano Il Messaggero diretto da Mario Missiroli.

Come riporta il libro Giovanni Spadolini. Quasi una biografia scritto dal già professore Unifi Cosimo Ceccuti, allievo considerato quasi come un figlio da Spadolini e curato dal docente universitario della Cesare Alfieri Gabriele Paolini Spadolini diventa direttore del Resto del Carlino nel 1955 e lo rimane per ben 13 anni raddoppiandone la tiratura ed estendendone le redazioni locali. Successivamente alla luce degli eccellenti traguardi raggiunti sarà anche direttore del più grande giornale italiano Il Corriere della Sera , incarico che mantiene dal 1968 al 1972. Incarico che lascia su decisione unilaterale della proprietà di via Solferino.

Spadolini tuttavia non era solo un giornalista ma aveva tre anime: quella del giornalista, dello storico e del politico.

Nel 1950 infatti insieme all’attvità giornalistica viene incaricato alla docenza della facoltà di Scienze poltiche di Firenze di Storia contemporanea,materia che contribuisce a creare. 

Spadolini politico

Dopo anni da docente universitario e giornalista molto attento alla politica estera e interna, molto note le sue posizioni di elogio a De Gasperi ritenuto il responsabile del compimento definitivo del risorgimento con l’accettazone definitiva dei cattolici  dello stato laico unitario, i suo editoriali favorevoli all’europeismo, anticomunisti e intuitivi già negli anni sessanta di una crisi sistemica della Prima repubblica, decide anche lui di lanciarsi nell’agone.

Nel 1972 viene eletto senatore come indipendente nelle fila del Partito Repubblicano Italiano  di Ugo La Malfa , dal Professore (così usavano chiamarlo i suoi allievi più cari) da tempo stimato. Rimase senatore fino al 1994  anno della sua morte, eletto sempre però in Lombardia e non nella sua amata Toscana.

Fonda due anni dopo il Ministero dei Beni culturali e ambientali,ancora esistente. Diverrà il primo presidente del Consiglio non democristiano sia per la sua capacità che per un’esigenza nel paese di cambiamento verso l’egemonia della Democrazia Cristiana.  Bisogno popolare che Spadolini intuì già negli anni sessanta al quale seppe dare ottima risposta facendo arrivare il suo PRI a risultati elettorali record nel 1983 con il 5 % dei suffragi. Stessa intuizione che ebbe successivamente B. Craxi e il suo PSI.

Amico di Giovanni Paolo II col quale era accomunato dalla passione per il Risorgimento. Molto legato anche al regista F. Fellini, al quale a lungo propose invano di candidarsi col Partito Repubblicano e liberale per le elezioni europee.

Presidente del Senato e senatore a vita dal 1991 nominato dall’allora Presidente della Repubblica F. Cossiga.

Muore a Roma il 4 agosto  1994.

Andrea Manetti

L’Antologia, primo esempio fiorentino e italiano di giornalismo moderno

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Le riviste e i giornali iniziarono a fare la loro comparsa nell’Italia preunitaria già ad inizio Ottocento, per non parlare ovviamente delle Gazzette che erano meri bollettini di notizie già in uso nel Cinquecento. Un esempio su tutti fu quello del Conciliatore nato a Milano nel 1818 e subito censurato nel 1819 dall’occupante austriaco per le proprie idee risorgimentali e patriottiche.

Quindi questi periodici si scontravano quotidianamente col rischio di censura. Infatti in un clima repressivo vigente in tutta la penisola gli unici giornali che avevano spazio erano proprio quelli governativi, i quali si occupavano di temi esteri e irrilevanti per la cronaca italiana, fungendo così da arma di distrazione di massa.

In un periodo pertanto non facile per la libera espressione si affermò comunque con molto coraggio l’idea di un commerciante svizzero trasferitosi a Firenze nel 1819: G. P. Viesseux .

L’obiettivo iniziale di Viesseux era quello di portare testate estere a Firenze così da renderle consultabili sia agli stranieri residenti che a chiunque previo pagamento avesse voluto leggerle. Per questo fondò il famoso e ancora oggi attivo Gabinetto Viesseux.

Nel 1821 poi decise di creare una rivista mensile chiamata L’Antologia con sottotitolo “Lettere, scienze e arti” al prezzo di 9 lire toscane.

L’Antologia si ispira a modelli esteri come la britannica Edimburgh Review e inizialmente riporta solo articoli dall’estero traducendoli. Il successo fu immediato, arrivando a vendere anche più di mille copie ad edizione, numero altissimo per l’epoca (le copie però non corrispondono ai reali lettori, infatti una copia acquistata girava tra le mani di molti).

Dopo questi ottimi traguardi il periodico fiorentino passò anche a scrivere articoli originali di proprio pugno. Questi venivano pagati dal direttore, cosa inusuale per i tempi (il giornalismo era una missione più che un lavoro), addirittura venivano retribuiti anche i pezzi che non venivano pubblicati (fatto raro anche oggi), ricevevano dei soldi persino coloro che esplicitamente non volevano alcuna remunerazione perché nobili o benestanti. Il pagamento dei giornalisti rappresenta una innovazione assoluta nel panorama italiano e dell’Europa continentale. Tale beneficio permise a molti intellettuali di formarsi e crescere tra le fila della rivista, su tutti Carlo Cattaneo e Raffaello Lambruschini poi figure di spicco nell’Italia risorgimentale.

Come dovrebbe suggerire il sottotitolo dell’avventura editoriale di Viesseux, gli argomenti trattati erano generalmente attinenti a letteratura, arte e scienza. Tuttavia spesso la rivista celava messaggi politici nascosti (per aggirare la censura) soprattutto a tema risorgimentale. Per esempio moltissimi articoli recensivano opere letterarie o artistiche ma in realtà erano il pretesto per parlare del popolo italiano elogiandolo e incoraggiandolo a rivoltarsi contro gli occupanti stranieri.

Nel 1832 però il progetto avviato 11 anni prima da Viesseux, vera e propria avanguardia politica e giornalistica, venne fatto chiudere dal Granducato di Toscana in seguito a delle pressioni dell’ambasciatore austriaco sul granduca Leopoldo II dovute ad un attacco dell’Antologia contro l’occupazione austriaca del lombardo-veneto.

Viesseux dopo la chiusura si dedicò sempre all’editoria ma fondando e dirigendo giornali meno politici come il Giornale agrario toscano e il tuttora esistente Archivio storico italiano.

Nel 1866, a cinque anni dall’Unità d’Italia rinacque, per volontà di Francesco Protonotari La nuova antologia ancora esistente che ha come modello quella di Viesseux.

Andrea Manetti

PARTITO GIOVANILE LIBERALE

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I liberali dell’Italia prima del fascismo erano notabili che non si interessavano molto delle elezioni e di come prendere voti. Per questo infatti con le progressive estensioni del suffragio elettorale (leggi importanti sono quelle del 1882,del 1891 e del 1912) e quindi con la necessità di fare propaganda attiva e “sporcarsi le mani” nel tentativo di prendere più voti possibile tra le classi popolari, i liberali progressivamente perdono centralità nello scacchiere politico. Ritrovandosi nel 1946 da “partito” di maggioranza prima del regime di Mussolini a un risultato di poco superiore al 6 %.

La necessità di strutturarsi e farsi partito di massa era stata trascurata da quasi tutti i liberali in quegli anni, anche dai più lungimiranti come G. Giolitti.

Qualcuno però già aveva colto questa tendenza di sostituzione della classe politica: Giovanni Borelli.

Borelli nasce nel 1867 nel modenese, nel 1896 dopo varie esperienze giornalistiche approda al Corriere della Sera.  Si interessa subito di politica fondando una rivista teorico-culturale chiamata L’Idea Liberale .

Nel 1898 si assiste alla “crisi di fine secolo” ovvero moti di insurrezione in tutta la penisola contro l’incapacità dei liberali di rispondere alle esigenze di classi sociali svantaggiate. Borelli vedendo quanto accade e la risposta  solo repressiva adottata dal governo liberale allora in carica (gov. Pelloux) si allontana dal mondo liberal-moderato perdendo il posto anche al Corriere in quel tempo filogovernativo. 

Alla radice di questo allontanamento vi è un’esigenza che il giovane giornalista sente impellente: rinnovare il mondo liberale,dotandolo di strutture simili a quelle dei partiti di massa che stavano minacciando l’ordine costituito (all’epoca principalmente il Partito Socialista, nato a livello nazionale nel 1892 e quello Repubblicano nato nel 1895).

 Borelli inizia la sua attività politica proprio così,da outsider sia del mondo liberale classico che del mondo socialista. L’obiettivo che si prefigura è creare un partito liberale al passo coi tempi,mantenendo i valori di fondo liberali per proiettarli nel futuro dinamicamente, ma per farlo ha bisogno di militanti e di associazioni che incidano sul territorio.

Avvia così accordi con varie associazioni giovanili liberali come p. es. l’Associazione Liberale Monarchica fra i Giovani di Firenze .

Grazie alla propria rivista L’Idea liberale che diventa organo politico di propaganda e alle idee innovatrici molto condivise dai giovani, nel 1899 si costituisce il primo comitato esecutivo di tutte le Associazioni liberali aderenti con lo scopo di redigere un manifesto politico.

Manifesto che prevedeva la necessità di conservare le istituzioni liberali (Monarchia,Statuto Albertino,ecc) ma di rinnovarsi da un punto di vista partitico e sociale (riforme sociali per i meno abbienti).

Creare un partito coerente e disciplinato che aggreghi la borghesia in opposizione a papisti che minacciavano le libertà politiche e a socialisti contro le libertà economiche.

Questa svolta dei giovani fu subito osteggiata dal vecchio mondo liberale. Il giornale dei liberali toscani La Nazione definì questi giovani liberali “ambizioselli precoci” che porteranno solo “scissure in seno al partito”.

Nel 1901 nonostante le critiche e gli attacchi il Partito Giovanile Liberale tiene il suo primo congresso a Firenze

Il programma del partito si esprimeva su vari punti di attualità: 

    -intransigenza programmatica contrapposta all’individualità liberale (partito vs notabilato)

    -attivismo dal basso (creare una “democrazia d’azione”)

    -superare il sistema elettorale maggioritario (collegi uninominali) adottando il proporzionale

    -partecipare a comizi,educare le masse lavoratrici e fondare periodici e giornali di partito

Al primo congresso aderiscono circa 110 associazioni principalmente del centro-nord:  48 al centro di cui ben 14 a Firenze,numero più alto di aderenti che la renderanno la roccaforte del Partito. Solo 5 associazioni al Sud.

Fallimento del progetto

Il progetto di Borelli tuttavia non decolla non solo per la sua inconsistenza al Sud. I principali giornali liberali infatti ignorano in un  primo momento questo partito,tranne come già detto quelli toscani che lo attaccano,dato il maggior peso politico del partito su Firenze. Poi lo attaccheranno anche gli altri giornali nazionali quando alle suppletive di Milano del 1902 Borelli candidandosi in un collegio molto conteso tra liberali e socialisti spacca l’elettorato facendo vincere Turati,leader socialista che entra così in Parlamento.

Emarginato dal mondo liberale e dalla stampa che lo accusa di favorire “i rossi”,anche la massoneria si schiererà contro il nuovo progetto ritenendosi attaccata da Borelli che più di una volta l’aveva definita clientelare e pericolosa. 

Anche l’ipotesi di alleanza con i radicali salta dopo che Borelli li aveva definiti notabilari.

Nelle varie tornate elettorali il Partito Giovanile Liberale non elegge mai nessun deputato .

Neanche a Firenze Borelli riesce a farsi eleggere alle suppletive del 1901, Tuttavia in quest’occasione si distingue per enorme qualità dialettica all’interno del partito Aldemiro Campodonico,poi esponenete storico del nazionalismo toscano, che lo stesso d’Annunzio nota con piacere. Il Vate definirà i “i borelliani” come Vagellanti ,crasi tra flagellanti (ritenuti così dal poeta perché visti come fustigatori del vecchio mondo liberale) e Via dei Vagellai nel centro storico fiorentino (tra via De’Benci e Piazza Mentana) in cui era ubicata la sede del partito. 

Col passare del tempo il Partito perde gradualmente forza e vigore,frammentandosi e gradualmente tornando nelle fila del vecchio mondo liberale. 

Dopo la disfatta alle politiche del 1913,nel 1914 il partito si scioglie definitivamente.

Così nonostante fosse anticipatore dei tempi,innovatore e pieno di giovani ambiziosi e intellettuali non decolla e fallisce miseramente il progetto di rinnovamento anche storico che si era prefissato. La notorietà data  loro da d’Annunzio non è che una magra consolazione.

Andrea Manetti