Il calcio fiorentino: perché parlarne a febbraio?

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Una delle motivazioni per le quali è particolarmente stimolante affrontare il percorso universitario a Firenze è legata al fatto che spesso ci si ritrova a tu per tu con ciò che si studia, si possono percepire al 100% tanti aspetti spiegati durante le lezioni; student* di lettere possono passare per le stesse vie percorse da Dante, così come student* di storia dell’arte possono godersi ogni giorno le meraviglie studiate in aula. Questo accade anche per coloro che affrontano un corso di antropologia culturale, disciplina quanto mai vasta, che nell’anno accademico 2020/2021 è stato condotto dal professor Nardini, specializzato in antropologia dello sport.

Vista sul lato più vicino alla chiesa con gli spalti per i numerosi tifosi
Fonte: florence on the line

Branca dell’antropologia culturale relativamente giovane (rispetto alle altre), dagli ultimi decenni del secolo scorso inizia a farsi spazio in un panorama che come sappiamo bene ha visto lo sport prendere sempre più importanza a livello collettivo, senza essere dunque considerata un’attività elitaria come un tempo, ma che crea e subisce fenomeni non trascurabili su diversi livelli, basti pensare all’ampio seguito che ha oggi il calcio, ma anche il tennis, o il basket. Queste attività, con le loro numerose sorelle, possono essere buone per pensare in quanto offrono una lente su loro stesse e su tutto l’ambiente che intorno vi si crea, ambiente che diventa così portatore e veicolo di significato, di cultura: questi sono solo alcuni dei prerequisiti che devono sussistere per far sì che certe attività possano entrare a far parte di quelle tutelate dall’UNESCO, che dal 2003 tutela i beni culturali intangibili, ossia tutte quelle attività (danze, giochi, aspetti linguistici, tradizioni artigianali…) che hanno un significato rilevante e che concorre a creare senso di identità per le comunità in cui queste attività si realizzano.

I calcianti che si sfidano: rossi contro verdi
Fonte: Cultura comune

Questa definizione, seppur superficiale, porta con sé dei potenziali problemi che non possono essere affrontati in questa sede, ciononostante è importante rilevarne almeno uno, per provare a meglio comprendere la complessità stante dietro questo tipo di dinamiche: si parla quanto mai spesso di concetti quali la “collettività”, la “società”, ma davvero esiste una sola società? Una sola collettività? In un panorama eterogeneo come quello fiorentino (e sfido a trovare un panorama non eterogeneo, oggi) non è così semplice e “matematico” avere una società che si trovi d’accordo su un dato tema, aspetto che però è fondante ai fini della candidatura di un determinato bene (sia esso intangibile o tangibile) nella lista dei beni UNESCO. La storia del riconoscimento del calcio storico fiorentino è dunque una storia che si lega alle disposizioni date dall’UNESCO e dalla Convenzione di Faro, aspetti che comunque viaggiano sui binari “nuovi” dell’intangibilità, ancora privi di una prassi consolidata dal tempo, con tutte le difficoltà del caso, storia che si lega inoltre sul senso di appartenenza a un dato quartiere storico, alla città fiorentina e al senso di profonda capacità ironica stante dietro all’immaginario del “fiorentino”. Ma perché?

Il calcio fiorentino è una realtà poliedrica che è stata in grado di rimanere cifra caratteristica di una società che, da sempre, è molto attenta a rivendicare il senso di appartenenza alla città: quella fiorentina. Per lungo tempo gli abitanti dei quartieri storici di Firenze -Santa Croce, San Lorenzo, Santo Spirito, Santa Maria Novella- si sono ritrovati, in diversi momenti dell’anno, a rincorrere la vittoria del calcio fiorentino attraverso le cacce in Piazza Santa Croce, al cospetto della chiesa. 

Si deve notare che il calcio fiorentino appartiene a quella sfera di pratiche tradizionali che nell’immaginario collettivo ha assunto una dignità anche in ragione del tempo e della risalenza nei secoli: ma è davvero una pratica così antica?

Si trovano notizie della pratica del calcio fiorentino già nel XVI secolo, come attività svolta inizialmente dalle parti subalterne; durante il XVI secolo si assiste a una sorta di elevazione del gioco, che arriva a essere praticata dai figli dei signorotti fiorentini che potevano così fare pratica per le attività militari, e mettevano in scena le partite in momenti importanti come per le visite di alleati, per i matrimoni dell’alta società, dunque per festeggiare momenti di coesione sociale e per celebrare il potere. Perché parlarne a febbraio? 

Ne parliamo a febbraio perché è proprio una partita giocata in questo mese, nel lontano 1530, che costituisce il modello per le partite poste in essere ancora oggi: nel 1530 fu giocata infatti una partita, passata alla storia come la partita dell’assedio, nel febbraio che vedeva le mura fiorentine assediate da Carlo V. Questo contesto diventò per gli abitanti un’occasione per dimostrare che lo spirito fiorentino, quello sarcastico, divertente e giocoso, non poteva soccombere; nonostante la sconfitta militare, i fiorentini avevano ancora qualcosa da dimostrare. Così, il 17 febbraio, sotto lo sguardo incredulo delle truppe di Carlo V (che vedevano la piazza di Santa Croce dalle colline circostanti dove si trovavano ormai prossimi a concludere l’assedio) si svolse la partita dell’assedio, che si sarebbe svolta come d’uso all’epoca, in occasione del carnevale. 

L’evento che oggi si rievoca è dunque un evento di scherno verso un nemico che sì, sta per vincere, ma che non vincerà in tutto, perché lo spirito ironico e sbeffeggiatore fiorentino non si piega. Questo è il vero soggetto della rievocazione che, grazie all’apporto dato dal celebre Corteo Storico fiorentino, trova espressione ogni anno. 

Il campo di sabbia visto dal lato della Chiesa di Santa Croce
Fonte: visit-italy

Dopo questa partita del 1530 si continuò a giocare ma, curiosamente, ci sono sempre meno fonti che testimoniano il proseguimento della pratica; in questo senso assume valore la riscoperta del gioco da parte di Pietro Gori, che nel 1898 inizia una ricerca a tratti filologica atta a ritrovare questo gioco che, dall’arrivo dei Lorena in città, scomparve gradualmente dalla memoria cittadina. I frutti della ricerca da lui effettuata portano, nel 1902, a una prima rievocazione storica del gioco e dei costumi tradizionali: di grande impatto a livello sociale e collettivo, questo evento (ripetutosi nello stesso anno), non venne istituzionalizzato come pratica annuale. Alla sua istituzionalizzazione pensò Pavolini una ventina di anni dopo (sounds familiar?), che con un gruppo nutrito di persone, creò un comitato per la ricostruzione del gioco fiorentino: il fascismo, come ben sappiamo, era solito andare a recuperare aspetti rimasti impolverati nel passato storico di una città per riesumarli, modificarli e piegarli per ottenere aderenza e forza per la propaganda, nella “prassi della dittatura”. Questo è avvenuto: per volere di questo comitato iniziarono ricerche ancora più profonde di quelle portate avanti da Gianluca Gori, che portarono anche a un’analisi capillare degli affreschi del Salone dei ‘500 a Palazzo della Signoria atti a ricostruire nel modo più verosimile l’evento, i costumi, l’atmosfera. Il fascismo fu dunque un momento in cui il calcio fiorentino vide una strumentalizzazione che lo portò ad assumere anche il nome “storico”, proprio per evidenziare la sua natura rievocativa: la prima partita si tenne nel 1930, a 400 anni dalla morte di Francesco Ferrucci. Non a caso, nel 1926 nasceva l’AC Fiorentina, perciò si stava creando una dimensione sportiva peculiare della città, cui gli abitanti potevano fare riferimento per costruire e tessere il senso di appartenenza. Il calcio storico subì un’interruzione per la guerra, ma venne reintrodotto nel ‘47 in un contesto politico stravolto, ma se ne mantenne la stessa narrazione. In una Firenze distrutta, il calcio storico venne reintrodotto dall’amministrazione locale che possedeva segno politico inverso, ma che decise comunque di re introdurlo grazie alla presa che aveva avuto sulla cittadinanza. C’erano motivazioni radicate nelle logiche sociali del periodo: la riscoperta delle tradizioni, il turismo che si avviava ad assumere il suo ruolo fondamentale… l’amministrazione del dopoguerra spinse per reintrodurla anche per le possibilità che portava di rinascita e spinta economica per la città. Si fece pressione facendo leva sulla stessa narrazione della partita dell’assedio, ma assumendo un’accezione radicalmente diversa: questo è importante perché pone in luce come sia possibile dare allo stesso racconto significati diversi, anche opposti.

Oggi il calcio fiorentino si celebra con  il Torneo di San Giovanni, a giugno, con la finale il 24, giorno in cui si rende omaggio al santo patrono di Firenze. I 4 quartieri storici si sfidano in un gioco di palla in cui lo scopo è piazzare la palla in una rete per fare punteggio: per perseguire tale obiettivo sono usate tecniche di lotta e pugilato. Ogni partita è introdotta da una sfilata del corteo storico che termina in piazza Santa Croce, composto da ben 530 partecipanti i cui costumi sono stati riconosciuti per la loro raffinatezza artigianale. Attualmente, se il corteo è rimasto lo stesso sia nel percorso che nei personaggi, il gioco si è evoluto in funzione del contesto sportivo. Inizialmente c’erano atleti di diversa estrazione sociale a partecipare, e venivano estremizzati gli aspetti più violenti di ogni pratica sportiva praticata all’esterno. Oggi, i facenti parte sono atleti professionisti, e oltre al loro sport di riferimento praticano anche il calcio fiorentino: questo ha scremato la possibilità di accedere al gioco, perché il livello atletico si è alzato di molto. Si è alzata anche la violenza del gioco, considerando che si tratta di atleti tecnicamente a livelli altissimi che si interfacciano inoltre a livelli di mediatizzazione molto grandi, essendo stati oggetto di documentari per canali internazionali; Netflix ha prodotto un documentario. 

Questa scenografia si crea nel centro storico di Firenze, che è l’essenza della storia gloriosa che il calcio storico si incarica di rievocare. Questo perché il centro storico di Firenze è la rappresentazione emblematica del Rinascimento italiano (periodo storico che rimane comunque fuori dalla rievocazione del calcio); è diventato patrimonio UNESCO nel 1982, e oggi torna a essere centro d’interesse per le nuove declinazioni del patrimonio, ossia quelle intangibili. 

I costumi sono stati riconosciuti come portatori di valore artigianale e artistico, e la Soprintendenza aveva avviato il procedimento per la salvaguardia dei beni secondo il concetto classico di patrimonio, legato al valore artistico e materiale degli oggetti. A tal punto è intervenuto il Ministero per avviare un progetto che riguarda aspetti più immateriali circa il corteo e la manifestazione del calcio storico. Il progetto di salvaguardia verte sulle linee guida dell’UNESCO e della Convenzione quadro di Faro, e si pone come obiettivo la salvaguardia e il riconoscimento del valore del palio di Siena e del calcio storico, con il loro grande impatto sulla/sulle collettività dei luoghi in cui si svolgono.

Daria Passaponti

 

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Qualità della vita a Firenze nel 2021

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Come di consueto a fine di ogni anno viene redatta la classifica che aggiorna la popolazione sulla qualità della vita nella propria provincia e nelle altre 110 province d’Italia.

La classifica viene stilata grazie ad un’indagine condotta dal Sole 24 Ore che ha individuato ben 12 indicatori (ricchezza e consumi, affari e lavoro, giustizia e sicurezza, demografia e società, ambiente e servizi, cultura e tempo libero) per rendere il più omogeneo possibile il calcolo tra le province. La città di Firenze si attesta all’11º posto migliorando la posizione dello scorso anno di ben 16 posizioni e questa la porta come la prima provincia toscana superando Siena che si attesta al 15º posto e Pisa che si attesta al 22º posto.

Il capoluogo toscano si attesta al 39º posto per quanto riguarda la categoria ricchezza e consumo perdendo ben 25 posizioni rispetto all’anno passato. Le voci che hanno pesato su questa categoria sono i canoni medi di locazione che hanno raggiunto dei prezzi molto alti in città e il ridotto spazio abitativo che si attesta a 61 mq per famiglia, uno dei più bassi tra le province d’Italia.

Per quanto riguarda la categoria affari e lavoro la città si attesta al 19º posto perdendo ben 13 posizioni rispetto al 2020, rimane in prima posizione per quanto riguarda l’utilizzo di applicazioni che migliorano sia gli enti pubblici sia gli enti privati, ma perde per la realizzazione di impianti elettrici fotovoltaici che ci vede tra gli ultimi posti della classifica.

Nella categoria giustizia e sicurezza la città si attesta al 95º posto, una posizione poco ambita ma che caratterizza tutte le grandi città d’Italia: l’indice di criminalità rimane molto alto (totale delitti denunciati ogni 100mila abitanti) e crescono soprattutto i furti in abitazione nella città. Nella categoria demografia e società Firenze si attesta al 12º posto grazie alla qualità della vita (sport, lavoro, divario retributivo) e al tasso di occupazione della popolazione.

Nelle ultime 4 categorie ambiente, servizi, cultura e tempo libero, la città di Firenze si attesta al 5º posto, grazie all’offerta culturale e al patrimonio museale che fanno del capoluogo toscano un’attrazione internazionale e che vede ogni anno aumentare il flusso di turisti (da non considerare gli anni 2020–2021 caratterizzati dalla pandemia).

Una città come Firenze dovrebbe sempre ambire alle posizioni più alte in classifica; la categoria decisamente da migliorare è la sicurezza che fa perdere molte posizione alla città, per il resto con qualche piccola miglioria la città potrebbe ambire alla prima posizione senza alcun togliere alle altre provincie.

Federico Brini

Daniel Day-Lewis e Firenze

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Un nome che nel panorama hollywoodiano sa di leggenda, Daniel Day-Lewis, l’attore celebre per pellicole come “L’ultimo dei Mohicani”, “Gangs of New York” e “Il petroliere”; per citarne solo alcune. Un 3 volte premio Oscar, che nel 1997 decise di prendersi volontariamente una pausa dalle scene, per abbandonare la lussuosa, quanto estenuante, vita da star. 

Non tutti però ricordano che, il grande Daniel, durante i suoi anni di “esilio” scelse proprio la nostra Firenze, nel 1999, per staccarsi dalla mondanità e ritrovare se stesso. Un anticonformista da sempre, che anche in questo caso, dimostrò all’industria cinematografica la sua libertà.

Qui fu allievo presso la rinomata bottega, in borgo San Frediano, del compianto Stefano Bemer, uno dei più autentici maestri artigiani fiorentini, il quale insegnò lui l’arte del calzolaio. 

Stefano Bemer             
Fonte: firenze.repubblica.it

Un mestiere fatto di amore, cura e pazienza; che lo colpì fin da subito. “Il primo ad arrivare e l’ultimo ad andare via, senza nessuna retribuzione” racconterà qualche anno dopo la moglie di Stefano. 

Se però dobbiamo dire la verità, questo fu più un ritorno nella città gigliata, la quale lo aveva già ospitato durante le riprese della pluripremiata “Camera con vista” del 1985. Anno in cui vi trascorse molto tempo a stretto legame con la sua gente; fino ad innamorarsene. 

 Fonte: sartoriajournal.com

A riportarlo sulle scene sarà poi Martin Scorsese, anche se non senza fatica, inseguito a vari confronti avvenuti di nascosto nel laboratorio fiorentino fra il regista e l’attore. Siamo nel luglio del 2000 quando lascerà Firenze per far ritorno nel mondo del cinema.

Matteo Bonfanti

Master “Museo Italia: allestimento e museografia”

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L’Università degli Studi di Firenze ha istituito per il secondo anno il Master di secondo livello in allestimento e museografia per gli studenti di architettura, ingegneria civile, ingegneria edile e design. Il master si pone l’obiettivo di formare figure professionali in grado di operare nell’ambito della valorizzazione del patrimonio culturale del nostro Paese. Le domande di ammissione devono essere presentate entro e non oltre il 18 gennaio 2022, mentre il corso inizierà l’11 marzo 2022 e avrà una durata di dodici mesi. Il corso si suddivide in moduli didattici che affrontano differenti aspetti della disciplina, dalle strategie comunicative e di marketing, allo studio della progettazione dei musei e dei relativi allestimenti, dalla storia della museografia, a studi di design. 

Parlare di un Master in museografia può alimentare in noi la curiosità sui musei, in quanto  sono luoghi nobili, ricchi, preziosi e densi di significato. Perciò apriamo una breve parentesi sulla loro storia. 

Breve accenno alla storia dei musei 

Il termine museo deriva dal greco antico e significa “luogo sacro alle Muse” (per la mitologia classica esse erano figlie di Zeus e protettrici delle arti e delle scienze). Il museo è un luogo di conservazione dei reperti storici, scientifici, tecnologici, artistici, archeologici (e potremmo andare avanti un bel po’ nella nostra lista), a servizio della società. Lo scopo primario non è solo quello di conservare, ma anche promuovere la conoscenza e la cultura e ovviamente stimolare il progresso scientifico. 

Fino al XVIII le opere d’arte venivano riprodotte dagli artisti su commissione di grandi casate nobiliari che collezionavano tali opere nelle proprie abitazioni. Lo scopo era celebrare le virtù, le qualità e le doti della famiglia mostrandole ad altri nobili, che si sarebbero recati presso la loro abitazione. Come possiamo comprendere, l’accesso a queste opere d’arte era estremamente selettivo; inoltre si tendeva a privilegiare la presenza di un’innumerevole quantità di quadri presso i muri delle stanze principali, piuttosto che avere un singolo quadro attaccato alla parete: si preferiva che gli ospiti rimanessero colpiti dalla quantità dei quadri presenti, piuttosto che dalla loro qualità, peculiarità e originalità. Ecco perché si parla di esposizione dei quadri ad “incrostazione“. Con l’avvento dell’Illuminismo alcuni nobili aprirono le loro collezioni d’arte a un gruppo ristretto di persone che, però, doveva presentare uno specifico status socio-economico e una determinata provenienza. L’avvento di uno spazio espositivo aperto al grande pubblico, senza distinzione alcuna, è avvenuto il 19 settembre 1792 quando il ministro francese Roland sancì il trasferimento di tutte le collezioni appartenenti al sovrano di Francia alla nazione francese: da questo momento le opere iniziarono ad appartenere al pubblico in quanto proprietà dello Stato.

Con L’ascesa al potere di Napoleone Bonaparte si iniziarono a raccogliere le opere d’arte più significative non soltanto della storia di Francia, ma di tutti i Paesi che sarebbero stati gradualmente conquistati dal condottiero francese. L’obiettivo era quello di costituire un museo in grado di raccogliere e documentare lo sviluppo della storia dell’arte, disciplina che di lì a poco sarebbe nata ufficialmente, sul continente europeo. Anche l’Italia ne venne colpita profondamente, perché moltissime sue opere d’arte vennero confiscate e portate in Francia come pegno di guerra (il Bel Paese, infatti, fu conquistato nel 1796 da Napoleone). Non dobbiamo pensare, però, che tutti i pensatori e gli intellettuali francesi fossero concordi con questo atto: molti di loro ritenevano che ciascuna opera d’arte dovesse rimanere ancorata con il territorio che l’aveva vista nascere e per questo non poteva affatto essere sradicata dal suo luogo di origine. Con la caduta di Napoleone Bonaparte, nel 1815, e il Congresso di Vienna, molte opere ritornarono ai rispettivi Paesi di origine e l’Italia, ancora non ufficialmente unificata, si rese conto della ricchezza e vastità delle proprie opere d’arte, le quali necessitarono di essere protette e tutelate. Ciò risultò essere molto complesso dal momento in cui, come abbiamo detto poc’anzi, non esisteva una Italia unita, ma successivamente alla sua nascita venne varato un decreto regio che permise al Governo di sancire che tutti i beni preziosi e le opere d’arte sul territorio italiano dovessero essere riunite in musei provinciali. Inizialmente questa decisione comportò scontento da parte di tutti quei comuni che si sentirono privati delle loro opere e ciò spinse alla creazione di musei civici: si mostrò ancora una volta la necessaria preservazione del rapporto tra l’opera d’arte e il suo territorio a prescindere dalla qualità o dal valore artistico del manufatto. 

Qualche pillole di informazione 

Dopo questa breve premessa storica è interessante analizzare alcuni musei che sono conosciuti a livello mondiale proprio per le loro caratteristiche peculiari. Partiamo dal primo! 

Secondo alcuni studiosi il primo museo della storia risale addirittura al 530 a.C. Siamo in Mesopotamia, per essere più precisi presso l’antico Stato di Ur. La principessa Ennigaldi, figlia dell’ultimo re dell’impero neo-babilonese decise di costituire quello che poi sarà definito come il museo di Ennigaldi-Nanna. Gli scavi archeologici che furono condotti nel tempio/museo riportarono alla luce decine di manufatti ordinati ed etichettati in tre lingue diverse.  Il Museo di Alessandria, in Egitto, è considerato, a livello mondiale, come il primo vero museo della storia.  Era un edificio dedicato alle Muse che venne eretto da re Tolomeo I, a cavallo tra la fine del 300 a.C. e gli inizi del 200 a.C. Tale luogo non era solo dedicato al culto, ma ospitava anche una comunità scientifica e letteraria. Il primo museo che può definirsi come tale secondo la nostra attuale definizione sono i Musei Capitolini a Roma. Nel 1734 Papa Clemente XII fece costituire il primo museo aperto al pubblico come lo si intende attualmente: in questo museo le opere erano fruibili a tutti e non solo ai legittimi proprietari. Il museo più visitato al mondo è invece il museo del Louvre a Parigi con 8.5 milioni di visitatori all’anno, non considerando ovviamente i due anni di pandemia da COVID-19, che ha abbattuto enormemente la quantità di visitatori ed i musei aperti. Il museo più piccolo al mondo si trova a Monza e si chiama Mimumo. È un Museo da Guinnes dei primati: 2,29 metri quadrati di superficie. Uno dei musei più strani al mondo è il Museo del carro funebre a Barcellona dove sono esposti diciannove collezioni di carri funebri in base al periodo storico. Ad Anzola dell’Emilia, si trova il Museo del gelato: 1000 metri quadrati dedicati a uno dei dolci più buoni e golosi al mondo. 

Come possiamo ben comprendere la lista è particolarmente lunga e sicuramente ci sono musei per qualsiasi tipo di visitatore. Una cosa è certa: è importante raggiungere le competenze necessarie ad operare consapevolmente in un ambito complesso e mutevole come quello dei musei. Un buon museo, organizzato in maniera consona al suo scopo, saprà valorizzare il patrimonio culturale materiale, immateriale e paesaggistico di qualsiasi territorio.

Martina Marradi 

Uno scrigno di artigianato

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L’Opificio delle pietre dure è noto per il centro di restauro che sorge nella città di Firenze. La sua fama l’ha conquistata grazie ai numerosi restauri che ha svolto in tutta Italia, con l’intento di riportare le opere al loro originale splendore nell’ottica del progetto originale dell’artista. Un esempio recente è il Nano Morgante di Agnolo Bronzino, la cui particolarità ce la tramanda lo stesso Giorgio Vasari, nell’essere dipinta sia sul fronte sia sul retro: «Ritrasse poi Bronzino, al duca Cosimo, Morgante nano, ignudo, tutto intero, et in due modi, cioè da un lato del quadro il dinanzi e dall’altro il didietro, con quella stravaganza di membra mostruose che ha quel nano: la qual pittura in quel genere è bella e meravigliosa» (Vasari, Vita del Bronzino). 

La tela è datata 1553 in base al numero di inventario Mediceo, che in quell’anno la collocava presso il Guardaroba dei Granduchi a Palazzo Pitti. Nell’Ottocento fu soggetta a pesanti ridipinture volte a dare l’aspetto del Dio Bacco al Nano Morgante. Ecco dunque che furono coperte le nudità con grappoli di vite; nelle mani vennero poste un’anfora e una coppa e oscurata la ghiandaia sullo sfondo. Queste aggiunte furono rimosse solo nel 2010 grazie ad un lavoro di restauro delicatissimo condotto dall’Opificio, che ha permesso di ripristinare l’originale intento di Agnolo Bronzino nei confronti di Cosimo I de’ Medici, e al Nano Morgante per la sua dignità di abile cacciatore di uccelli, celebrata dalle fonti storiche.

La storia dell’Opificio la possiamo ripercorrere passo dopo passo nel suo Museo in Via degli Alfani, dove si colloca anche una delle tre sedi di laboratorio di restauro (le altre due rispettivamente a Palazzo Vecchio e alla Fortezza da Basso), oltre alla storica Biblioteca e l’archivio dei restauri compiuti. L’attuale percorso museale è frutto della ristrutturazione architettonica avviata nel 1995 su progetto di Adolfo Natalini, e del riordino della raccolta a cura di Anna Maria Giusti. Il progetto finale diviene un riflesso della vita e delle vicende della secolare attività produttiva di questo luogo.

CENNI STORICI

L’Opificio sorge nel 1588 per il decreto del Granduca Ferdinando I de’ Medici, con la volontà di portare a termine il sogno della Basilica di San Lorenzo, di ricoprirla di marmi pregiati. Dunque, coloro che si formavano presso l’Opificio dovevano diventare abili artigiani nella lavorazione delle pietre.

L’interesse verso queste tecniche di lavorazione vi era già al tempo di Lorenzo de’ Medici e continua spassionata con Cosimo I de’ Medici, interessato soprattutto al porfido in quanto materiale nobile e duraturo, legato alla tradizione della Roma Imperiale. 

È proprio nel periodo di Cosimo che si posero le basi per la fioritura del “commesso” fiorentino, tecnica di lavorazione di marmi e vetri colorati che si sviluppa sin da subito nell’Opificio, destinata a diventare tecnica identificativa di Firenze e dei suoi manufatti artigianali. Infatti, l’attività e il successo internazionale della manifattura fiorentina proseguirono ininterrottamente per oltre tre secoli.

IL COMMESSO 

Il commesso è una tecnica raffinatissima e abilissima che si può definire pittura di pietra, si avvale delle cromie naturali di pietre e vetri colorati, tagliate sapientemente e accostate a formare l’immagine di insieme. L’acutezza tecnica e il pregio dei materiali contribuirono all’immediata e durevole fortuna di questo genere di mosaico, che in sé fa trionfare la meraviglia della natura e dell’arte tecnica.

Un esempio eccelso di questa tecnica lo possiamo ammirare presso la Cappella dei Prìncipi nella Basilica di San Lorenzo. La costruzione si avvia nel 1604 per volontà del granduca Ferdinando I. L’intento era di costruire una grandiosa cappella funebre destinata a perpetuare la memoria della dinastia dei Medici. Tutt’oggi continua a lasciare senza parole e forse anche senza fiato ogni visitatore, che diviene spettatore del bagliore e della ricercatezza di pietre e metalli pregiatissimi. 

Tanto era ambizioso il progetto che i Medici non ebbero la fortuna di vederla finita: si concluse solo nel secolo successivo sotto la dinastia degli Asburgo Lorena. 

In una sezione del Museo dell’Opificio delle Pietre dure sono raccolte parte dei progetti e delle opere di questa plurisecolare impresa della Cappella, tra i quali la serie di dieci pannelli destinati all’altare. 

O ancora il busto monumentale di Cosimo I de’ Medici, concepito da Bernardo Buontalenti e Lorenzo Latini. Dovete sapere che, secondo l’iniziale progetto, le attuali statue funerarie dei Granduchi nella Cappella dei Prìncipi dovevano essere scolpite in marmi policromi; solo successivamente furono eseguite in bronzo. 

Nel Seicento si affermarono nei mosaici fiorentini soggetti naturalistici di fiori, frutta e uccelli che predominano nella decorazione dei manufatti fino al tardo Settecento. Questo motivo si ritrova anche nell’acceso dialogo tra pittori, scultori, orafi, ebanisti e maestri di pietre dure nella creazione di opere. Questa peculiarità senza tempo permette alle loro finezze tecniche ed inventive di combinarsi nella creazione di oggetti unici, anche grazie alla meditata scelta del materiale prezioso.

Molte volte utilizzavano il commesso e il rilievo di pietre dure in abbinamento con altri pregiati materiali, quali il bronzo dorato, l’ebano, l’argento nel concepimento di tavoli, stipiti, cornici, reliquiari, orologi e cassette, insomma negli oggetti d’uso più svariati e ricercati al tempo.

Un nome da non dimenticare è Giovan Battista Foggini eccelso scultore e architetto del periodo barocco che lascia la sua firma nella città di Firenze. Il Foggini a fine Seicento diresse la manifattura con un nuovo impulso, volto a utilizzare le tecniche di maggiore pregio fino ad allora sviluppatosi, nella creazione di opere nuove, inimitabili e sbalorditive.

Nel piano sopraelevato del Museo è esposta la vastissima gamma di pietre preziose in cui la Casata Medicea investì enormi ricchezze e sconfinata passione nella ricerca delle pietre più pregiate che confluirono a Firenze da tutto il mondo allora conosciuto. Per coloro che amano i materiali poter vedere le venature e le tonalità di queste pietre è un vero divertimento, e vi do la certezza che vi lasceranno senza parole.

Sempre in questa sezione, dedicata alle tecniche di lavorazione, sono presenti i banchi da lavoro ottocenteschi. Ebbene sì, perché l’elevatezza e la ricercatezza di questa lavorazione non poteva essere ottenuta con banchi da lavoro qualsiasi. Ecco dunque i banchi studiati e creati appositamente per operare questa tecnica: sono dotati di raschietto e seghetto con cui si tagliavano le pietre con la precisione analitica che solo l’artigiano poteva determinare.

Dal 1737, con il sorgere del governo Lorenese del Granducato di Toscana, si abbandonarono gradualmente i tradizionali temi naturalistici su sfondo nero a favore di vedute paesaggistiche, spesso su ispirazione di pitture su tele. Infatti, molti pittori collaborarono con la manifattura, e le loro opere furono un punto di ispirazione nuovo per creare le opere a commesso.

Presso il museo possiamo ammirare l’accuratezza del commesso che riesce a reinterpretare con le pietre le pennellate pittoriche sulle tele, quasi da non credere.

Nel periodo post-unitario la Manifattura iniziò a conoscere una crisi irreversibile, l’Opificio dovette autofinanziarsi vendendo le sue produzioni recenti e antiche. 

Inoltre, i riconoscimenti internazionali conquistati dalle Esposizioni Universali non determinarono una conquista dal punto di vista economico per l’Opificio a causa della concorrenza agguerrita degli artigiani Fiorentini, che vendevano mosaici più scadenti ma meno costosi. Fu proprio allora che al direttore del tempo Edoardo Marchionni, nell’intento di cercare nuovi sbocchi per il patrimonio di risorse tecniche e manuali ormai secolari dell’Opificio, venne il colpo di genio: dare il via ad un’attività di restauro delle opere artistiche!

Allora il restauro era una pratica nascente, e fu grazie a quella brillante idea, che possiamo affermare che il restauro, ancora prima di salvare le opere d’arte, ha saputo mantenere viva e funzionale fino ai giorni nostri l’antica istituzione medicea.  Iniziò dunque quell’evoluzione dell’Opificio da manifattura artistica a laboratorio di restauro che oggi tanto abbiamo a cuore. 

Beatrice Carrara

Don Milani, il priore di Barbiana

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Lorenzo Carlo Domenico Milani Comparetti, meglio noto come Don Milani-Il priore di Barbiana. Nasce a Firenze il 27 maggio del 1923 in una famiglia borghese (dichiaratamente anticlericale); da cui ben presto apprenderà l’amore per l’arte, la cultura e l’importanza dell’educazione scolastica. Appena diplomatosi scelse però la via di una carriera da pittore, rifiutando così il desiderio dei suoi genitori, che avrebbero preferito il proseguimento con gli studi universitari.

 La pittura fu il mezzo attraverso il quale, il giovane Lorenzo, si appassionò al cattolicesimo. E’ in questo periodo che avvenne la sua completa conversione e la presa decisione di diventare prete. Uno spirito libero che, fin dai primi giorni in seminario, faticherà a comprendere le ragioni di determinate regole e manierismi; visti ai suoi occhi come molto lontani dal puro vangelo. 

Siamo nel dicembre del 1954, quando ormai priore, a causa di screzi con la curia fiorentina, dovuti ai suoi toni sempre diretti e la sua troppa vicinanza agli emarginati; viene mandato per “punizione” a Barbiana. Una sperduta frazione del comune di Vicchio(FI), immersa in una povertà e arretratezza, che fin dal principio colpì il giovane parroco. 

          

Don Milani e i suoi ragazzi. Fonte: la Repubblica

E’ da qui che ha inizio la storia di Don Milani e la sua scuola. Si, perché sarà lui che ne fonderà una, proprio il quella cittadina abbandonata dal mondo. Scuola che fin dagli inizi sarà bersaglio di critiche sia dal mondo laico che da quello della Chiesa. L’educazione faceva paura a chi non voleva la presa di coscienza da parte degli ultimi, quanto quella scritta “I CARE”, fissata all’ingresso della “struttura”.

                                                                                

Fonte: Radio Mugello

 All’interno di essa Don Milani portò una vera e propria innovazione pedagogica, fondata sul dialogo e sulla parola, come strumenti per il riscatto sociale da un destino ormai segnato. 

                                                                                                    

Fonte: culthera.it

Qui però mi fermo perché voglio che siate voi, se vostro interesse, a far luce sui punti non approfonditi; in modo da analizzarli attraverso il vostro punto di vista. Il tutto attraverso le miriadi opere a nostra disposizione.

Matteo Bonfanti

Monopattini elettrici a Firenze

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Dal 10 novembre 2021 è entrato in vigore il nuovo Codice della Strada, che ha introdotto molte novità per quanto riguarda un mezzo di trasporto che viene utilizzato molto dai cittadini di Firenze ma non solo, ovvero il monopattino elettrico.

La novità principale riguarda l’obbligo di frecce e stop, a partire dal 1° luglio 2022, con i monopattini che verranno commercializzati nel nostro Paese dovranno essere tassativamente dotati di indicatori luminosi di svolta e di freno su entrambe le ruote. I monopattini già in uso e quindi già acquistati prima del 1° luglio 2022 dovranno adeguarsi prima del 1°gennaio 2024 previa sanzione da parte delle forze dell’ordine. Il limite di velocità che precedentemente era di 25 km/h scende a 20 km/h fuori dalle aree pedonali, dentro le aree pedonali il limite è di 6 km/h. 

Il nuovo Codice inoltre introduce anche il divieto di sosta e di circolazione nei marciapiedi, salvo nelle aree dedicate individuate dal Comune. La violazione di questa norma prevede una multa di 84 euro. I monopattini dovranno essere parcheggiati correttamente negli stalli riservati a velocipedi, ciclomotori e motoveicoli. Per quanto riguarda lo sharing arriva l’obbligo di fotografia del mezzo a fine noleggio, in modo da chiarire la posizione del veicolo depositato al momento del non utilizzo del monopattino. Inoltre c’è l’obbligo di circolare con giubbotto catarifrangente o bretelle retroriflettenti mezz’ora dopo il tramonto e durante tutta la notte.

A Firenze le norme si fanno sempre più stringenti rispetto al nuovo codice della strada grazie all’ordinanza del sindaco che prevede l’utilizzo del casco a qualsiasi età senza distinzioni. L’ordinanza è entrata in vigore il 1° dicembre, ed ha già visto molti trasgressori sin dal primo giorno dell’entrata in vigore dell’ordinanza. La sanzione per chi non rispetta l’obbligo dell’utilizzo del casco dentro i centri abitati prevede una multa dai 42 ai 173 euro, al di fuori dei centri abitati dagli  87 ai 345 euro.

Nel motivare questa decisione la Giunta guidata dal sindaco di Firenze ha ricordato che ogni Comune può stabilire “Obblighi, divieti e limitazioni di carattere temporaneo o permanente per ciascuna strada o tratto di essa, o per determinate categorie di utenti”. Inoltre la legge attribuisce al Sindaco  il potere di adottare, con atto motivato “provvedimenti contingibili e urgenti al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica, diretti a tutelare l’integrità fisica della popolazione”.

La città di Firenze è la prima che ha adottato l’utilizzo del casco per tutti coloro che utilizzano il monopattino elettrico e molte città potrebbero prendere in considerazione la norma per tutelare i propri cittadini, anche se nella stessa norma pende un ricorso al Tar presentato da una società di noleggio. L’udienza c’è stata ma il Tar ha rinviato la decisione al 6 di aprile 2022, nel quale si deciderà il futuro della stessa norma.

Federico Brini

Master Unifi per assistere gli orfani vittime di femminicidio

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Il 25 novembre ricorre la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Ogni giorno, alla televisione, sui giornali, alla radio, sentiamo risuonare la stessa terribile parola. Femminicidio. E come se non bastasse, spesso assistiamo a persone che addirittura sminuiscono il problema e parlano solo di esagerazioni. No, purtroppo non ci sono esagerazioni. Il femminicidio è reale ed è necessario parlarne. Introdurre questo tema è molto difficile, in quanto internamente complesso e articolato, ma è giusto cercare di delinearne le caratteristiche essenziali dato che l’Università degli Studi di Firenze ha proposto un Master per tutti coloro che vorranno occuparsi di assistenza di orfani vittime di femminicidio. Come si legge sul sito dell’Ateneo fiorentino il “Master è rivolto ai professionisti del settore socio-educativo, dell’assistenza sociale e socio-sanitaria e a tutti i gestori di processo e di sistema, di qualsiasi formazione accademica, allo scopo di implementare conoscenze e competenze per gestire il complesso intervento nelle situazioni post-femminicidio. Il percorso di formazione di Master è finalizzato a creare le conoscenze e le competenze psico-socio-educative per un intervento globale sul soggetto e per la creazione di un sistema professionale che ha il compito di coordinare, gestire e partecipare alla presa in carico dei minori orfani di crimini domestici”. Il Master inizierà a marzo 2022 e avrà una durata di 12 mesi. 

Che cos’è il femminicidio? 

Il primo utilizzo della parola “femminicidio” inteso come uccisioni di una donna da parte di un uomo, per motivi misogini, appartiene al 1990 per opera della docente femminista di Studi Culturali Americani Jane Caputi e dalla criminologa Diana E. H. Russell. Quest’ultima vide nella pratica del femminicidio una vera e propria categoria criminologica, cioè quella di un uomo che uccide una donna in quanto convinto della esistenza di una struttura patriarcale entro la quale quest’ultima deve essere sottomessa in ogni modo e con ogni mezzo. Per molte studiose femministe il femminicidio non è soltanto l’atto in sé, ma anche il contesto: ciò significa che non dobbiamo considerare solo il gesto commesso, ma anche lo spazio entro il quale il gesto è stato compiuto. Un ambiente dove la violenza sulle donne è una costante, dove si sminuisce il problema della misoginia, dove si impedisce alle donne di esprimere la propria voce e dove c’è omertà, è un luogo dove il femminicidio si radica maggiormente. 

Secondo altri studiosi il femminicidio sarebbe l’azione scaturita al culmine della violenza perpetrata ad una donna, ovvero il momento nel quale lo stupro, la schiavitù sessuale, le mutilazioni genitali  causano la morte della stessa. È necessario ricordare, però, che non tutti gli omicidi di donne sono considerati dei femminicidi: se una donna viene colpita e uccisa durante un furto nella sua abitazione non parliamo di femminicidio, in quanto questo concetto è connesso ad una visione patricentrica della società dove l’uomo deve sottomettere la donna tanto a livello privato quanto pubblico. 

 Le tipologie di femminicidio 

La categoria più nota e conosciuta di femminicidio è il femminicidio intimo, tanto che quando parliamo di femminicidio implichiamo generalmente proprio questo genere di omicidio. Il femminicidio intimo consiste nell’uccisione di una donna da parte del suo partner. Le cause sono varie, ma generalmente l’atto accade al culmine di una lite per gelosia o dopo la rottura della coppia, quando il compagno non riesce a sopportare che la donna lo abbia lasciato. Si parla invece di femminicidio indiretto quando il compagno decide di uccidere i figli, affinché la moglie provi un dolo

re più forte della sua stessa morte. Il delitto d’onore, invece, consiste nell’uccisione di una donna da parte del compagno o dei familiari di lui o di lei: la donna, avendo compiuto gesti che hanno macchiato l’onore della famiglia, viene “condannata a morte” dalla stessa. Questi gesti possono essere: aver rifiutato un matrimonio combinato, aver tradito il marito, non arrivare casta al matrimonio, volere il divorzio. In Italia il delitto d’onore era contemplato: esso comportava un importante sconto di pena, ma era valido esclusivamente per l’uomo. Venne abrogato nel 1981. La morte per dote consiste nell’uccidere o indurre al suicidio una donna a causa della sua dote. Questa pratica è estremamente presente in Paesi come il Pakistan e l’India. Proprio in quest’ultimo Paese, tra il 1999 e il 2016 quasi il 50% dei femminicidi erano legati all’omicidio per dote. Nel subcontinente indiano per tradizione ogni ragazza deve portare alla famiglia dello sposo una dote, la quale può consistere in oro o elettrodomestici, arrivando anche ad indebitare le famiglie delle spose. Ma qualora le ragazze non fossero in grado di portare una dote effettivamente consistente, o non riuscissero a pagare i loro debiti vengono uccise, spesso dalle suocere. L’ultima categoria è l’aborto selettivo: in molti Paesi come la Cina, l’India, il Pakistan, il Bangladesh la nascita di una bambina è considerata come un segno di sfortuna, in quanto l’arrivo di un maschio significa che questo sarà forza lavoro per la famiglia, ma soprattutto potrà mandare avanti il cognome e la stirpe della stessa. Dunque, spesso assistiamo alla pratica dell’aborto o addirittura dell’infanticidio delle bambine. 

Quali sono le caratteristiche del femminicida? 

Dare una risposta netta a questa domanda è quasi impossibile dato che vi sono diverse variabili che possono rendere un uomo un possibile femminicida e queste variano sotto il profilo spaziale, temporale, ma anche culturale e psicologico. Vi sono stati psicologi che hanno tentato di delineare le caratteristiche del femminicida le cui caratteristiche spaziano dall’essere: controllatore (teme che la propria autorità e autorevolezza siano messi in discussione e deve controllare i familiari per evitare che ciò accada); difensore (non accetta l’autonomia della partner e si lega solo a donne che può sottomettere); incorporatore (non accetta di stare senza la partner e qualora ella si allontani vi è una esplosione di odio e violenza).

Inoltre, l’uomo abusante può: essere narcisista (necessita di continua ammirazione, sfrutta la partner ed è indifferente ai suoi bisogni); soffrire di “disturbo antisociale di personalità” (è un soggetto aggressivo e impulsivo, spesso violento che non prova rimorso per le proprie azioni); soffrire di “disturbo borderline di personalità (presenta cambiamenti di umore repentini, impulsività e irrequietezza, idealizza la propria partner, ma può svalutarla completamente l’attimo seguente, con importanti scatti d’ira); essere un perverso narcisista (vive di menzogne e bugie volte alla rappresentazione di un mondo perfetto che, nella realtà, non esiste); essere una personalità paranoica (è un soggetto convinto della inferiorità della donna e della sua necessaria sottomissione all’uomo. La donna non può lavorare, avere hobby, stare con gli amici, perché per queste personalità tali caratteristiche appartengono ai comportamenti degli uomini). 

Gli orfani vittime di femminicidio 

Agli orfani vittime di femminicidio spetta il compito più arduo: rielaborare il lutto e cioè la perdita della madre, ma anche accettare che il padre risulti essere l’omicida e che passerà gran parte del futuro prossimo in carcere. Come ci si sente vivendo in una condizione dove la madre è defunta e il padre in carcere? Questi bambini provano un dolore ineffabile, che spesso non riescono a liberare in alcun modo. Nell’infanzia si pensa che i propri genitori non solo stiano insieme per sempre ma anche che costruiscano giorno dopo giorno una famiglia robusta, solida, basata sull’amore e sull’aiuto reciproco. Quando questo non accade già si crea un turbamento interiore nel bambino, la cui tenera età viene stroncata nel momento in cui scopre di aver perso la madre in un modo atroce. 

Il percorso che gli orfani dovranno intraprendere è lungo e tortuoso. Un appoggio e un valido sostegno passa anche dalla figura del professionista nel settore dell’assistenza agli orfani vittime di femminicidio. Ciò potrà aiutare loro nella fase di rielaborazione del lutto e della forzata recisione del legame naturale e biologico con la mamma materna, attraverso un percorso che cerchi di ridurre il trauma. Dunque, è chiaro che tale figura debba essere dotata di una grande carica empatica e della capacità di aiutare l’altro, di assisterlo soprattutto quando è difficile aprire un dialogo con lui. 

Martina Marradi 

L’inferno a Roma

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Le Scuderie del Quirinale: una certezza ormai, in fatto di mostre.

Dopo la ricca esposizione su Raffaello, in occasione dei 500 anni trascorsi dalla scomparsa dell’Urbinate, che aveva visto un’affluenza notevole nonostante le difficoltà legate allo scoppio della pandemia, questo luogo si offre ancora una volta come dimora temporanea per un’altra importante mostra: Inferno.

Certo è, che in fatto di centenari e ricorrenze, le Scuderie del Quirinale possono considerarsi ormai leader: in questo 2021 si celebra infatti il 700enario dalla morte di Dante Alighieri. Un’altra commemorazione a Dante, dunque. Un’altra lode lunga 10/11 sale, piena di storia e nozioni sulla situazione politica fiorentina, ravennate, italiana dunque, con excursus sulle sue doti poetiche.

E invece no.

Qui entra in gioco Jean Clair, pseudonimo di Gerard Régnier: l’accademico francese, storico e critico d’arte di fama internazionale, può vantare l’aver ricoperto ruoli importanti quali direttore del Musée Picasso, Direttore della sezione arti visive della Biennale di Venezia dal 1994 (l’anno successivo diresse l’edizione in toto), membro dell’Académie française dal 2008.

Jean Clair è riuscito a realizzare un’esposizione che non è su Dante, ma tratta ovviamente anche Dante. Questo è fondamentale perché in una mostra a tema Inferno è chiaro che Dante sia un perno del discorso; la difficoltà, affrontata in modo eccezionale dal curatore, è insita nel tentativo di non rendere Dante una presenza troppo importante, soffocante. Si può dire che Jean Clair sia riuscito in questo, e abbia reso Dante il nostro Virgilio nell’Inferno creato nelle Scuderie del Quirinale.

La mostra trova le sue ragioni d’essere non solo nel 700enario dantesco, ma anche in un profondo desiderio del curatore: come dichiarato nel 2020 in un’intervista al “Giornale dell’Arte” con Luana de Micco, Jean Clair aveva già proposto nel 2006 a diversi musei francesi e al Prado di Madrid questo tipo di progetto, sentendosi poi rispondere negativamente, “come se fosse incongruo all’epoca interessarsi all’Inferno”.

È stato certamente anche alla luce di ciò che lo studioso ha accettato volentieri la proposta delle Scuderie del Quirinale: l’organizzazione di questa esposizione, inserita nel più ampio programma di celebrazioni dantesche a livello nazionale gestito da Carlo Ossola, è stata per lui l’occasione di concludere (a suo dire) il lavoro di curatore su un tema spettacolare e che gli sta molto a cuore.

Immagine del curatore
fonte: wikipedia, Jean Clair nel 2003

Nella prima sala della mostra l’occhio del visitatore si trova già a dover compiere una scelta molto difficile riguardante la prima opera cui porre attenzione. La Porta dell’Inferno di Rodin (nel suo modello del 1989 in fusione a gesso in scala 1:1) gentilmente concesso in prestito dal Musée Rodin di Parigi oppure, a destra, la scultura La caduta degli angeli ribelli (1725-1735) attribuita a Francesco Bertos?

Porta dell’Inferno, Rodin, fusione a gesso 1:1, 1989
Caduta degli angeli ribelli, marmo di Carrara, 1725-1735, attr. Francesco Bertos

L’aver posto La caduta degli angeli ribelli nella prima sala della mostra mette in luce quanto sia importante ricordare “l’antefatto”, e per questo tema addirittura si è scelto anche di esporre La Caduta di Andrea Commodi, prestata dagli Uffizi. Le due opere (una scultorea, l’altra pittorica) dialogano dunque per restituire al visitatore una sorta di prequel, una dimostrazione di quanto è avvenuto prima. Prima di cosa? Prima della creazione di questo concetto immenso e caratterizzante per la nostra cultura, ma non solo: come viene brillantemente spiegato, in toni chiari ma mai banali dalle didascalie presenti a muro e in prossimità delle opere, la questione legata alla morte e all’Aldilà trova la sua centralità in qualsiasi realtà religiosa, sin dal principio. Effettivamente, è da sottolineare la puntualità di ogni descrizione presente in mostra, che accompagna il visitatore nel suo viaggio infernale rimanendo fondamentale punto di riferimento.

Nella prima sala, oltre a Rodin, Commodi e Bertos (?) , trovano spazio anche Gil de Ronza, con la sua Morte (1522 ca.) che strizza certamente l’occhio alla Maddalena donatelliana, e il Giudizio universale (1425) di Beato Angelico, direttamente dal Museo di San Marco fiorentino.

La Porta dell’Inferno di Rodin sbarra la strada verso i successivi gironi, quasi intimando al visitatore di non proseguire attraverso le terrificanti immagini con cui è decorata: la decorazione non reca però un’illustrazione letterale della Commedia (da cui certo prende le mosse soprattutto nelle sue sezioni più antiche), ma vede collaborare ai fini di realizzare un’immaginario quanto più tremendo e totalizzante anche un altro poeta: Baudelaire e i suoi Fleurs du mal. Accanto alla porta in gesso è presente anche una sezione che mostra al visitatore alcuni studi, bozzetti vari, realizzati dall’artista che si accingeva a compiere questo incredibile lavoro.

Foto: all’apice della porta troviamo il celebre pensatore. Accanto all’opera, il celeberrimo verso dantesco.

 Dettaglio della Porta dell’Inferno, scattata da Daria Passaponti
 Versi danteschi, scattata da Daria Passaponti

Proseguendo la nostra discesa nell’Inferno, le sezioni che seguono sono un’ottima dimostrazione di quanto questa mostra voglia mettere insieme, oltre che diversi messaggi, anche diversi medium attraverso i quali trasportarli: troviamo infatti quadri, fotografie (con la foto della Bocca della Verità nel suggestivo Parco di Bomarzo), codici medievali e rinascimentali, sculture… Il tutto atto a mostrare quanto, effettivamente si sia cercato di descrivere questo inferno, di trovarlo, di renderlo in qualche modo “comprensibile”. Ma come afferma Laura Bossi, che ha avuto ruolo fondamentale nell’organizzazione della mostra insieme a Jean Clair, “l’Inferno è impensabile, indicibile, infigurabile”.

La seconda sala, di forma ellittica con apertura sulla terza, accompagna (o forza?) lo sguardo del visitatore al centro, verso l’uscita da questa ellisse: qui troviamo Satana che convoca le sue legioni, una tela di Sir Thomas Lawrence del 1796-1797, prestata dalla Royal Academy of Arts di Londra.

Foto della sala, scattata  da Daria Passaponti

Compiendo lo sforzo di non avvicinarsi immediatamente a quest’ultima, ma dandosi il tempo per osservare come il curatore ha voluto accompagnarci da Satana, si possono ammirare le fotografie scattate da Herbert List nel Parco di Bomarzo, codici come “Il cavaliere errante” o La città di Dio di Sant’Agostino, e la Medusa di Ivan Theimer. L’opera di Theimer è accompagnata da un focus sulla bocca dell’inferno: il tema è legato alla figura metaforica che trova le sue radici agli inizi dell’anno Mille in zona anglosassone, diffusasi poi nell’Europa occidentale attraverso miniatura e scultura e arrivando a rappresentare autonomamente l’inferno e le sue sofferenze. Questo aspetto risponde alla necessità umana di dare un volto a ciò che spaventa, in quanto siamo sempre più inquieti rispetto a ciò che non comprendiamo, che non possiamo vedere nitidamente.

Foto Medusa di Ivan Theimer scattata da Daria Passaponti

Proseguendo verso Satana che convoca le sue legioni, ci si accorge concretamente dell’ottimo effetto che le luci di allestimento compiono esaltando il petto di questo Satana che sembra convocare noi visitatori, ormai parti integranti delle sue legioni. L’opera, che anche grazie alle dimensioni resta impressa nel ricordo della visita come se ne fosse la “copertina”, è stata realizzata fra 1796 e 1797 da Sir Thomas Lawrence sotto il segno di Fuseli.

Satana che convoca le sue legioni, Sir Thomas Lawrence, 1796-1797, scattata da Daria Passaponti

La mostra continua trattando i temi del viaggio nell’inferno, trattando naturalmente la figura di Caronte, presentata al visitatore attraverso l’opera di José Benlliure realizzata nei primi decenni del ‘900 e attraverso i versi 82-87 del III canto dell’Inferno.

Altra opera di spicco presente in mostra è la tela di Bouguereau, Dante e Virgilio del 1850, in prestito dal Musée d’Orsay: l’opera, di 280,5×225 cm, si staglia con una potenza impressionante legata al candore di queste superfici umane così finemente descritte dall’artista, con una luce che mette in evidenza la violenza dell’atto, della punizione che spetta a coloro che si fingono qualcun altro per ingannare il prossimo. Un passo indietro rispetto alle figure che lottano, notiamo Dante e Virgilio che osservano la scena in penombra, sotto lo sguardo (di chi è ormai abituato a tali scene) del demone alato alla loro sinistra.

Foto di Dante e Virgilio, Bouguereau, 1850 scattata da Daria Passaponti

Avventurandosi ancora oltre in questa serie di rappresentazioni infernali, ci si perde in alcuni degli episodi più celebri: l’incontro di Dante con il Conte Ugolino e le varie interpretazioni dell’amore di Paolo e Francesca.

Qual è, giunti a questo punto, il valore davvero aggiunto a questa mostra? Il quid che non la rende assimilabile a tutte le altre celebrazioni dantesche? La “seconda” sezione.

Questo perché la seconda sezione, volendo creare una distinzione che a chi ha visitato la mostra verrà naturale forse fare, non parla di Dante, ma parla di noi.

Partendo, o arrivando, dalla celebre frase di Camus, secondo cui l’inferno siamo noi, l’esposizione prosegue trattando i temi più infernali del mondo moderno, passando anche per un’analisi in senso etnografico e folkloristico del tema con le sue attestazioni nella cultura popolare. In questo modo trova senso l’installazione con i pupi, direttamente dal Museo Antonio Pasqualino che testimoniano un sistema di pensiero magico creato dagli esseri umani per potere credere (o illudersi) di poter sconfiggere questo male. In questa parte ad accompagnare il visitatore non è un verso di Dante, bensì una citazione presa da Des fleurs du mal di Baudelaire:

È il diavolo a tirare i nostri fili!

Dai più schifosi oggetti siamo attratti;

e ogni giorno nell’Inferno ci addentriamo d’un passo,

tranquilli attraversando miasmi e buio.

Analizzando la figura del diavolo nelle sue declinazioni più terrene, viene naturale pensare ai concetti di peccato e di tentazione: proprio questo è il titolo della sala successiva, che vuole mostrare al visitatore la volontà di unire, sia a livello cronologico che stilistico, una miriade di artisti che bene o male hanno rappresentato l’inferno o una sua caratteristica.

E questi sono, nella maggior parte dei casi, facenti parte della contemporaneità.

Perché?

Perché l’inferno ha avuto un ruolo fondamentale nell’immaginario comune e nell’arte del passato, è sempre stato (o quasi) un protagonista importante nella sua concezione dantesca e cristiana; ma nella contemporaneità invece? Nel XXI secolo?

Nel XXI secolo, come affermato dallo stesso Clair Jean, è stato il secolo stesso a diventare inferno.

Il secolo breve ha visto infatti un susseguirsi impressionante di inferni in terra (analizzati puntualmente nella mostra), come quello della fabbrica (che vede ovviamente le sue radici nel secolo precedente), in cui troviamo dei veri e propri dannati, le megalopoli, le miniere, le prigioni e i manicomi costruiti sul modello delle architetture panoptiche: non sono stati forse anche questi, quanto quelli di Dante, dei gironi infernali?

Ecco che la mostra, avvicinandosi alla conclusione, si fa sempre più cruda, con una violenza espressionista nei modi e per niente simbolista nei termini: questa parte fa più impressione della prima, perché la prima parte è tratta dopotutto da un libro. Un capolavoro, certo, ma comunque un libro, che si può pur sempre chiudere e smettere di leggere per tornare alla nostra vita, nelle nostre tiepide case.

L’inferno del XXI secolo invece non è un racconto, è verità, è passato che non deve essere dimenticato.

Clair Jean si pone dunque un altro obiettivo, quanto mai gravoso: ricordare al visitatore che l’essere umano può crearlo questo inferno, e lo ha fatto. Ce lo dimostra attraverso opere come quella di Previati, Gli orrori della guerra: L’esodo(1917) che racconta attraverso le tecniche divisioniste uno dei tanti aspetti tremendi dei conflitti mondiali, ovvero la fuga dal luogo che, fino a poco tempo prima, si era percepito come casa, come nido sicuro. La guerra ha spazzato via, insieme a molte altre cose, anche questa certezza, anche la sensazione di possedere un luogo dove potersi fermare senza rischiare nulla; rischiano molto invece, le folle straziate rappresentate con le pennellate filamentose che descrivono l’urgenza, la fretta di allontanarsi, quasi volendo uscire dallo spazio della tela.

Previati, Gli orrori della guerra: l’esodo, 1917, scattata da Daria Passaponti

Altro ospite fondamentale è Giacomo Balla, con La pazza (1905), in prestito dalla GNAM di Roma: la follia è presa in esame in quanto le malattie mentali siano state spesso descritte dai medici ottocenteschi con termini presi in prestito dal campo della demonologia: così le convulsioni diventano ossessioni diaboliche, i disturbi isterici attacchi demoniaci etc.

Una sezione è appositamente dedicata alla guerra.

 L’inferno in terra: la guerra

La guerra è stata la dimostrazione assoluta di quanto l’essere umano sia in grado di non essere umano.

Questo concetto è letteralmente lanciato in faccia al visitatore, che non può sottrarsi alla vista dei volti deformati dalle armi, alla vista delle immagini tremende che rappresentano, con un senso della verità spaventoso, quello che è accaduto praticamente l’altro ieri. La forza di questa sezione si trova nel fatto che accende nel visitatore qualcosa, ci si rende conto della concretezza di questo inferno in terra.

In dialogo con lo scritto di Primo Levi troviamo l’opera di Boris Taslitzky, Piccolo campo a Buchenwald, (1945): il colore è qui piegato sotto il peso del dolore che vuole rappresentare, in un affollamento di persone che non sembrano più nemmeno tali, sotto un cielo che si tinge dello stesso dolore che ricopre. Le opere in questa sezione ci parlano di morte, di sterminio, di quanto l’uomo, “quando tenta di immaginare il Paradiso in terra, il risultato immediato è un molto rispettabile inferno”

Paul Claudel, Conversazioni nel Loir-et-Cher

Il colpo di scena, all’avviso di chi scrive, si trova nell’ultima sezione: una volta arrivati allo sterminio, all’inferno per eccellenza creato dall’uomo in terra, cos’altro si potrebbe mai trovare dopo? Il nulla, giusto?

Sbagliato.

Jean Clair permette al visitatore, in una sorta di ultimatum etico, di uscire a riveder le stelle, nonostante le atrocità commesse in passato. Jean Clair, come un demiurgo gentile, ci permette di godere dopotutto ancora di qualche stella, di qualche piccolo sputo, come le chiamò Majakovskij.

Le opere che troviamo in questa sezione sono rappresentazioni di costellazioni: una in particolare, è una “ripresa effettuata dal Telescopio HUBBLE Ultra Deep Field della NASA”, che dà al visitatore l’occasione di osservare migliaia di galassie situate a molti miliardi di anni luce di distanza.

Una volta usciti dall’ultima sala si percorrono le scale per arrivare all’uscita di questo Inferno, con la consapevolezza di non essere gli stessi di prima e anzi, di essere notevolmente arricchiti.

E con la necessità concreta di uscire a riveder le stelle.

Daria Passaponti

Giovanni Spadolini: un fiorentino

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Il giornalismo vieta a Spadolini di perder di vista la storia, la cronaca, e di fornicare soltanto coi morti. A Roma è popolarissimo specialmente fra i portieri e i bidelli dei ministeri che frequenta. Essi non sanno chi sia quel signore giovane, ma già imponente e autorevole, con cui De Gasperi suole intrattenersi in lunghi e cordiali colloqui; ma fiutano in lui, nella sua borsa di cuoio gonfia di misteriosi documenti, nel suo grave portamento, nella sua composta discrezione, nella stessa foggia dei suoi abiti ispirata più a decoro che a eleganza, l’erede naturale, anche se tutt’ora acerbo d’anni, di quei Servitori della Cosa Pubblica di cui, con Giolitti, s’è perso il seme”  così uno dei più grandi giornalisti italiani del Novecento, I. Montanelli nel 1952 diceva dell’amico Giovanni Spadolini.   Amicizia e stima che i due avranno reciprocamente per tutta la vita.

Spadolini nacque a Firenze il 21 giugno del 1925. Frequenta la scuola elementare degli Scolopi in via Cavour nella quale subito si distinse per la scrittura in quarta elementare del suo primo libro che raccontava la storia d’Italia da Barbarossa a Mussolini.

Di quell’anno scolastico grazie alla Fondazione Spadolini Nuova Antologia abbiamo anche la sua pagella tuttavia non molto brillante. 

Frequenta il liceo Galileo sempre in via Cavour, odonomastica che segnala una interessante coincidenza col Risorgimento, passione che lo accompagnerà per tutta la vita rendendolo uno dei suoi massimi esperti.  

Nel periodo liceale scrive e diffonde tra i suoi amici un suo giornale scritto a macchina intitolato Il mio pensiero .

A soli 24 anni diventa collaboratore per Il Mondo di Mario Pannunzio, una delle riviste più anticonformiste del tempo. Nel 1950 cura gli affari interni presso l’appena fondato settimanale Epoca .

Successivamente scrive anche sulla terza pagina, pagina culturale tipica dei giornali italiani novecenteschi, del noto quotidiano romano Il Messaggero diretto da Mario Missiroli.

Come riporta il libro Giovanni Spadolini. Quasi una biografia scritto dal già professore Unifi Cosimo Ceccuti, allievo considerato quasi come un figlio da Spadolini e curato dal docente universitario della Cesare Alfieri Gabriele Paolini Spadolini diventa direttore del Resto del Carlino nel 1955 e lo rimane per ben 13 anni raddoppiandone la tiratura ed estendendone le redazioni locali. Successivamente alla luce degli eccellenti traguardi raggiunti sarà anche direttore del più grande giornale italiano Il Corriere della Sera , incarico che mantiene dal 1968 al 1972. Incarico che lascia su decisione unilaterale della proprietà di via Solferino.

Spadolini tuttavia non era solo un giornalista ma aveva tre anime: quella del giornalista, dello storico e del politico.

Nel 1950 infatti insieme all’attvità giornalistica viene incaricato alla docenza della facoltà di Scienze poltiche di Firenze di Storia contemporanea,materia che contribuisce a creare. 

Spadolini politico

Dopo anni da docente universitario e giornalista molto attento alla politica estera e interna, molto note le sue posizioni di elogio a De Gasperi ritenuto il responsabile del compimento definitivo del risorgimento con l’accettazone definitiva dei cattolici  dello stato laico unitario, i suo editoriali favorevoli all’europeismo, anticomunisti e intuitivi già negli anni sessanta di una crisi sistemica della Prima repubblica, decide anche lui di lanciarsi nell’agone.

Nel 1972 viene eletto senatore come indipendente nelle fila del Partito Repubblicano Italiano  di Ugo La Malfa , dal Professore (così usavano chiamarlo i suoi allievi più cari) da tempo stimato. Rimase senatore fino al 1994  anno della sua morte, eletto sempre però in Lombardia e non nella sua amata Toscana.

Fonda due anni dopo il Ministero dei Beni culturali e ambientali,ancora esistente. Diverrà il primo presidente del Consiglio non democristiano sia per la sua capacità che per un’esigenza nel paese di cambiamento verso l’egemonia della Democrazia Cristiana.  Bisogno popolare che Spadolini intuì già negli anni sessanta al quale seppe dare ottima risposta facendo arrivare il suo PRI a risultati elettorali record nel 1983 con il 5 % dei suffragi. Stessa intuizione che ebbe successivamente B. Craxi e il suo PSI.

Amico di Giovanni Paolo II col quale era accomunato dalla passione per il Risorgimento. Molto legato anche al regista F. Fellini, al quale a lungo propose invano di candidarsi col Partito Repubblicano e liberale per le elezioni europee.

Presidente del Senato e senatore a vita dal 1991 nominato dall’allora Presidente della Repubblica F. Cossiga.

Muore a Roma il 4 agosto  1994.

Andrea Manetti