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Il 25 novembre ricorre la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Ogni giorno, alla televisione, sui giornali, alla radio, sentiamo risuonare la stessa terribile parola. Femminicidio. E come se non bastasse, spesso assistiamo a persone che addirittura sminuiscono il problema e parlano solo di esagerazioni. No, purtroppo non ci sono esagerazioni. Il femminicidio è reale ed è necessario parlarne. Introdurre questo tema è molto difficile, in quanto internamente complesso e articolato, ma è giusto cercare di delinearne le caratteristiche essenziali dato che l’Università degli Studi di Firenze ha proposto un Master per tutti coloro che vorranno occuparsi di assistenza di orfani vittime di femminicidio. Come si legge sul sito dell’Ateneo fiorentino il “Master è rivolto ai professionisti del settore socio-educativo, dell’assistenza sociale e socio-sanitaria e a tutti i gestori di processo e di sistema, di qualsiasi formazione accademica, allo scopo di implementare conoscenze e competenze per gestire il complesso intervento nelle situazioni post-femminicidio. Il percorso di formazione di Master è finalizzato a creare le conoscenze e le competenze psico-socio-educative per un intervento globale sul soggetto e per la creazione di un sistema professionale che ha il compito di coordinare, gestire e partecipare alla presa in carico dei minori orfani di crimini domestici”. Il Master inizierà a marzo 2022 e avrà una durata di 12 mesi.
Che cos’è il femminicidio?
Il primo utilizzo della parola “femminicidio” inteso come uccisioni di una donna da parte di un uomo, per motivi misogini, appartiene al 1990 per opera della docente femminista di Studi Culturali Americani Jane Caputi e dalla criminologa Diana E. H. Russell. Quest’ultima vide nella pratica del femminicidio una vera e propria categoria criminologica, cioè quella di un uomo che uccide una donna in quanto convinto della esistenza di una struttura patriarcale entro la quale quest’ultima deve essere sottomessa in ogni modo e con ogni mezzo. Per molte studiose femministe il femminicidio non è soltanto l’atto in sé, ma anche il contesto: ciò significa che non dobbiamo considerare solo il gesto commesso, ma anche lo spazio entro il quale il gesto è stato compiuto. Un ambiente dove la violenza sulle donne è una costante, dove si sminuisce il problema della misoginia, dove si impedisce alle donne di esprimere la propria voce e dove c’è omertà, è un luogo dove il femminicidio si radica maggiormente.
Secondo altri studiosi il femminicidio sarebbe l’azione scaturita al culmine della violenza perpetrata ad una donna, ovvero il momento nel quale lo stupro, la schiavitù sessuale, le mutilazioni genitali causano la morte della stessa. È necessario ricordare, però, che non tutti gli omicidi di donne sono considerati dei femminicidi: se una donna viene colpita e uccisa durante un furto nella sua abitazione non parliamo di femminicidio, in quanto questo concetto è connesso ad una visione patricentrica della società dove l’uomo deve sottomettere la donna tanto a livello privato quanto pubblico.
Le tipologie di femminicidio
La categoria più nota e conosciuta di femminicidio è il femminicidio intimo, tanto che quando parliamo di femminicidio implichiamo generalmente proprio questo genere di omicidio. Il femminicidio intimo consiste nell’uccisione di una donna da parte del suo partner. Le cause sono varie, ma generalmente l’atto accade al culmine di una lite per gelosia o dopo la rottura della coppia, quando il compagno non riesce a sopportare che la donna lo abbia lasciato. Si parla invece di femminicidio indiretto quando il compagno decide di uccidere i figli, affinché la moglie provi un dolo
re più forte della sua stessa morte. Il delitto d’onore, invece, consiste nell’uccisione di una donna da parte del compagno o dei familiari di lui o di lei: la donna, avendo compiuto gesti che hanno macchiato l’onore della famiglia, viene “condannata a morte” dalla stessa. Questi gesti possono essere: aver rifiutato un matrimonio combinato, aver tradito il marito, non arrivare casta al matrimonio, volere il divorzio. In Italia il delitto d’onore era contemplato: esso comportava un importante sconto di pena, ma era valido esclusivamente per l’uomo. Venne abrogato nel 1981. La morte per dote consiste nell’uccidere o indurre al suicidio una donna a causa della sua dote. Questa pratica è estremamente presente in Paesi come il Pakistan e l’India. Proprio in quest’ultimo Paese, tra il 1999 e il 2016 quasi il 50% dei femminicidi erano legati all’omicidio per dote. Nel subcontinente indiano per tradizione ogni ragazza deve portare alla famiglia dello sposo una dote, la quale può consistere in oro o elettrodomestici, arrivando anche ad indebitare le famiglie delle spose. Ma qualora le ragazze non fossero in grado di portare una dote effettivamente consistente, o non riuscissero a pagare i loro debiti vengono uccise, spesso dalle suocere. L’ultima categoria è l’aborto selettivo: in molti Paesi come la Cina, l’India, il Pakistan, il Bangladesh la nascita di una bambina è considerata come un segno di sfortuna, in quanto l’arrivo di un maschio significa che questo sarà forza lavoro per la famiglia, ma soprattutto potrà mandare avanti il cognome e la stirpe della stessa. Dunque, spesso assistiamo alla pratica dell’aborto o addirittura dell’infanticidio delle bambine.
Quali sono le caratteristiche del femminicida?
Dare una risposta netta a questa domanda è quasi impossibile dato che vi sono diverse variabili che possono rendere un uomo un possibile femminicida e queste variano sotto il profilo spaziale, temporale, ma anche culturale e psicologico. Vi sono stati psicologi che hanno tentato di delineare le caratteristiche del femminicida le cui caratteristiche spaziano dall’essere: controllatore (teme che la propria autorità e autorevolezza siano messi in discussione e deve controllare i familiari per evitare che ciò accada); difensore (non accetta l’autonomia della partner e si lega solo a donne che può sottomettere); incorporatore (non accetta di stare senza la partner e qualora ella si allontani vi è una esplosione di odio e violenza).
Inoltre, l’uomo abusante può: essere narcisista (necessita di continua ammirazione, sfrutta la partner ed è indifferente ai suoi bisogni); soffrire di “disturbo antisociale di personalità” (è un soggetto aggressivo e impulsivo, spesso violento che non prova rimorso per le proprie azioni); soffrire di “disturbo borderline di personalità” (presenta cambiamenti di umore repentini, impulsività e irrequietezza, idealizza la propria partner, ma può svalutarla completamente l’attimo seguente, con importanti scatti d’ira); essere un perverso narcisista (vive di menzogne e bugie volte alla rappresentazione di un mondo perfetto che, nella realtà, non esiste); essere una personalità paranoica (è un soggetto convinto della inferiorità della donna e della sua necessaria sottomissione all’uomo. La donna non può lavorare, avere hobby, stare con gli amici, perché per queste personalità tali caratteristiche appartengono ai comportamenti degli uomini).
Gli orfani vittime di femminicidio
Agli orfani vittime di femminicidio spetta il compito più arduo: rielaborare il lutto e cioè la perdita della madre, ma anche accettare che il padre risulti essere l’omicida e che passerà gran parte del futuro prossimo in carcere. Come ci si sente vivendo in una condizione dove la madre è defunta e il padre in carcere? Questi bambini provano un dolore ineffabile, che spesso non riescono a liberare in alcun modo. Nell’infanzia si pensa che i propri genitori non solo stiano insieme per sempre ma anche che costruiscano giorno dopo giorno una famiglia robusta, solida, basata sull’amore e sull’aiuto reciproco. Quando questo non accade già si crea un turbamento interiore nel bambino, la cui tenera età viene stroncata nel momento in cui scopre di aver perso la madre in un modo atroce.
Il percorso che gli orfani dovranno intraprendere è lungo e tortuoso. Un appoggio e un valido sostegno passa anche dalla figura del professionista nel settore dell’assistenza agli orfani vittime di femminicidio. Ciò potrà aiutare loro nella fase di rielaborazione del lutto e della forzata recisione del legame naturale e biologico con la mamma materna, attraverso un percorso che cerchi di ridurre il trauma. Dunque, è chiaro che tale figura debba essere dotata di una grande carica empatica e della capacità di aiutare l’altro, di assisterlo soprattutto quando è difficile aprire un dialogo con lui.
Martina Marradi