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Da poco si è conclusa la XIII edizione della Florence Biennale, con un focus incentrato sulle donne e parallelamente con una sezione dedicata al Design, con la mostra Eccellenze di serie dove MuDeTo (Museo del Design Toscano) ha lasciato la sua firma. MuDeTo è il primo museo di design online al mondo, concepito da Luigi Trenti e fondato con Umberto Rovelli e Gianfranco Gualtierotti nel 2013. Beatrice Carrara intervista Luigi Trenti, architetto, designer, professore in Design del Sistema Prodotto presso l’ISIA di Firenze, oltre che presidente di MuDeTo.
1. L’idea di fondare MuDeTo da cosa nasce?
«Tutto nasce quindici anni fa quando in Toscana non c’era quasi niente dal punto di vista associativo relativo al mondo del Design. Io ero socio dell’ADI, Associazione per il Disegno Industriale, e assieme ad altri associati, professionisti e imprenditori del territorio eravamo tutti un po’ insoddisfatti di come la nostra qualità veniva proposta.
Nel bilancio generale di questo paese ha un peso evidente il nord, Milano, perché parliamo di Milano come capitale del Design con quello che gravita attorno a questa città, per esempio il Compasso D’oro che ora ha aperto un museo, o la Triennale.
E l’immaginario generale, anche a livello internazionale, è verso questa città, e in generale il nord d’Italia accentra un po’ tutto ciò che riguarda la cultura del Design. Noi invece, eravamo fortemente consapevoli di quanto è stato fatto, detto e quanto si continua a dire sul nostro territorio riguardo al Design. Quindi, decidemmo all’epoca, di fondare la Delegazione Toscana dell’ADI, riportando in Toscana premi e Compassi D’oro che non si vincevano più da tanti anni. L’ultimo che si era vinto era nel ’98 quando io ero responsabile Design della Targetti. Quindi, da allora per circa un decennio non erano più tornati premi importanti. Dopo aver riportato questi risultati sul territorio, mi sono domandato insieme agli altri colleghi se era sufficiente fare questo. Perché non è sufficiente vincere qualche premio e far conoscere qualcosa, quando hai la consapevolezza che in realtà c’è tutto un mondo che è sconosciuto. Io porto sempre l’esempio del Design Toscano come un grande iceberg, che come tale ha solo una piccola parte che emerge ed è conosciuta. Però c’è una parte enorme sottostante che è ugualmente “di ghiaccio”, di rilievo, ed importante, e di cui nessuno parla.
Rendendoci conto di questo fatto, ho lanciato l’idea di fondare un museo (che ADI non aveva accolto) autonomamente assieme a due colleghi, Umberto Rovelli e Gianfranco Gualtierotti, con la volontà di raccontare meglio i prodotti, le esperienze, i protagonisti di cui normalmente non si parla e che vengono dimenticati ma che non è detto siano trascurabili, anzi hanno un’importanza notevole. Quindi nasce per rivendicare e far conoscere al mondo una realtà sconosciuta di cui non si parla. Molti dei nostri prodotti non li trovi nella collezione permanente della Biennale o nella collezione del Compasso D’oro, sono stati dimenticati in buona o cattiva fede. Ma se vai a leggere le loro storie ti rendi conto di quanta importanza abbiano avuto per il mercato e la storia del Design in generale.»
2. MuDeTo ai giovani cosa può offrire?
«Dato che a livello associativo abbiamo dovuto cambiare lo statuto per la nuova legge sul terzo settore, (per cui l’associazione da culturale è diventata un APS, Associazione di promozione sociale) abbiamo inserito anche membri onorari. Come primo membro onorario abbiamo deciso di nominare l’ISIA, Istituto Superiore per le Industrie Artistiche, come primo istituto formativo per il design. In seguito al Design Campus che è la scuola dalla quale provengo, perché sono laureato in disegno industriale. Ai tempi non c’era lo spin-off di Calenzano, c’era la facoltà di Architettura a Firenze, mi sono laureato a San Niccolò. Quindi, con questo tipo di sinergie che stiamo creando vogliamo coinvolgere i giovani, nella ricerca, fargli sviluppare tesi di ricerca, fargli capire soprattutto la ricchezza che c’è nel territorio. Per chi viene in Toscana a studiare Prodotto, Comunicazione, Fashion Design, deve avere la consapevolezza che una volta ottenuto il titolo di studio c’è già qui un patrimonio a livello produttivo dove poter trovare sbocco professionale. Questo è molto importante perché non si deve avere la convinzione che una volta preso il titolo di studio in una bella città, dove c’è un’ottima qualità della vita, puoi scappare via. C’è un mondo da scoprire e noi possiamo essere i Virgilio che accompagnano gli studenti in questo viaggio.»
3 A tutti coloro che ambiscono a creare un oggetto di Design, cosa si sente di consigliare?
«È importante calarsi nel mondo della produzione, ma non è assolutamente facile. Io insegno anche all’ISIA, sono docente da 12 anni, agli studenti chiedo innanzitutto di immaginare che tipo di attività professionale possono andare a svolgere quando avranno il loro titolo di studi. Perché oggi giorno non è così scontato prendere un titolo di studi da designer e poi andare a svolgere la professione. Spesso la professione va progettata, inventata, e capire cos’è che potrà funzionare fra qualche anno. Come il lavoro che c’è oggi sui social di questi influencer, dieci anni fa non si poteva immaginare che potesse accadere questo. Quindi bisogna ipotizzare un panorama in cui esisteranno delle professioni che ad oggi non si possono immaginare. Il ruolo del Progettista di prodotto probabilmente esisterà ancora ma si sta ampliando fortemente quel panorama. Ad esempio le attività produttive oggi tendono a portare dentro i creativi e ad avere uno staff interno, anziché appoggiarsi a professionisti esterni o freelance. Questa è una tendenza consolidata, su cui metto in guardia i miei studenti, perché per esempio tutto il polo del lusso che gravita intorno a Firenze, alla Toscana, è un polo estremamente promettente a livello professionale. Però chiede che il lavoro sia svolto all’interno, come dipendenti, che non è assolutamente negativo, perché se uno riesce a inserirsi e ha talento può fare una carriera eccellente. Ed è una realtà aperta ed estremamente promettente.»
4 MuDeTo ha preso parte alla XIII edizione della Biennale di Firenze arte + design con la mostra Eccellenza di serie. Tra queste, quale si sarebbe portato a casa?
«La più ambita dai visitatori era la supercar prodotta dalla Mazzanti Automobili, un’eccellenza che abbiamo scoperto lavorando e confrontandoci tra colleghi. Questo produttore è indipendente e ha fondato la sua attività nei primi anni del decennio scorso. Colui che ha creato questa supercar era un allestitore e restauratore di automobili che sognava di produrre la sua auto; è un oggetto incredibile da collezione con mille cavalli di potenza. Ha presentato alla Florence Biennale due modelli : il primo già in commercio, che è stato esposto all’Expo di Dubai; e la versione nuova in anteprima mondiale che si chiama EVANTRA PURA. Quest’ultima decorata con un “wrapping”, (pellicole applicate sulla carrozzeria) realizzata in fibra di carbonio, sostanzialmente la rappresentazione grafica del nome dell’automobile. Si chiama Evantra, nome di una divinità etrusca, dunque, si ancora alla cultura storica del territorio, e Eventra ha come significato eternità. Gli abbiamo proposto di partecipare alla Florence Biennale, perché era l’occasione perfetta per presentare questa esperienza, di decorare l’automobile il cui effetto finale è simile ad un vaso etrusco. È una risoluzione grafica che parte dal frontale e arriva al posteriore perfettamente centrata. Tutti la sognavano ad un prezzo esorbitante di un milione e mezzo di euro. È la rappresentazione della velocità sartoriale, di qualcosa che viene prodotto per pochi fortunati in cinque esemplari l’anno.
Parallelamente c’era un oggetto piuttosto odiato, che si può definire il controllo della velocità, l’autovelox. Oggetto odiato dagli automobilisti ma che ha permesso di ridurre gli incidenti mortali del 30%. L’autovelox nasce in toscana come misuratore di velocità, ed è diventato una parola che nell’immaginario comune ha un’accezione non del tutto positiva.
Parola che trovi nei vocabolari, ed è stato inventato dal Signor Fiorello Sodi, della Sodi Scientifica, trenta, quaranta, anni fa ed è diventato di uso comune. Quindi si usa la parola autovelox anche per altri apparati tecnologici che servono a rilevare la velocità. E anche questa è una realtà che nessuno conosceva e che è stato divertente raccontare agli spettatori.
5. Alla Biennale un oggetto che personalmente mi ha lasciato senza parole è Anakonda Kan200, sono sicura che possa affascinare anche i nostri lettori, ce ne vuole parlare?
«Si tratta di un’eccellenza produttiva del territorio. In Toscana esistono vari produttori abbastanza nascosti, non si mettono mai in mostra, forse per l’indole tipica, l’atteggiamento territoriale. Tramite lo scambio di informazioni tra colleghi abbiamo scoperto questo produttore a San Piero a Sieve, specializzato nella produzione di sistemi audio. Loro nascono come installatori di impianti, per manifestazioni, concerti ecc., dopodiché i fondatori hanno deciso di mettere in pratica la loro esperienza tecnica per produrre degli oggetti nuovi. Dunque, nasce questa produzione con l’intento di creare oggetti performanti come casse o speaker, con la caratteristica di avere una riduzione del volume, per ciò sono estremamente piccoli.
Sono sorprendenti perché hanno un’efficienza notevole pur avendo un ingombro molto ridotto. Uno dei due fondatori con una forte anima creativa, Alessandro Tatini, ha creato questa tipologia di diffusore lineare. Si chiama “anakonda” perché come una sorta di grande serpentone composto da moduli di due metri ciascuno che hanno giunzioni veloci, se ne possono congiungere trentadue così da creare un diffusore lineare lungo fino a sessantaquattro metri.
Con la caratteristica anche di svanire perché dematerializzato, se lo poni su un prato per una festa o un concerto non ti accorgi dove sono gli altoparlanti. Senti la musica di alta qualità, puoi calpestarlo, e se c’è un temporale nessun problema perché è impermeabile.
Quando lo abbiamo scoperto lo abbiamo subito acquisito virtualmente per il Museo perché è un’invenzione eccezionale, e in effetti tutti rimangono a bocca aperta quando lo vedono.
6. La XIII edizione della Florence Biennale ha riflettuto sul binomio arte e design, secondo lei qual è il punto di forza nell’unire l’arte e il Design? Glielo chiedo alla luce di ciò che dice Bruno Munari nel suo libro Artista e Designer, ovvero che sono l’opposto
«Io questa differenza non la vedo: molti produttori attingono dall’arte. Di sicuro c’è un flusso creativo dall’arte verso il design piuttosto che dal design verso l’arte. Ma anche l’attuale mostra di Jeff Koons in centro a Firenze ti fa capire che l’artista può diventare un po’ designer. Perché è presente un’idea di industrializzazione dell’oggetto molto vicina al modo di agire dell’industrial design, quindi i due punti si compenetrano in modo molto intimo. È importante soprattutto per il territorio toscano, perché con le realtà che abbiamo come la Sodi Scientifica e tutto il mondo della pelletteria e del lusso, siamo sicuramente vincenti nell’ottica della produzione di serie limitate e di alto artigianato. Se iniziamo una competizione dal punto di vista quantitativo, in cui sono forti i produttori dell’estremo oriente, siamo perdenti perché il nostro lavoro costa molto all’industria con un costo del lavoro elevato.
Quindi spingersi verso una produzione di alto artigianato, alla fine non è arte? Secondo me sì! si va verso l’unicità. Molti di questi marchi si rivolgono ad un’utenza alto spendente proponendogli versioni uniche degli oggetti. Come Evantra della Mazzanti Automobili, è un’automobile con una forma abbastanza consolidata, ma se qualcuno vuole qualcosa di unico allora fa al caso suo. E in questo caso, è design che diventa forma d’arte. Evantra è decorata con un wrapping che ricorda la Dea etrusca, è una forma d’arte ed anche per questo è stata esposta alla Florence Biennale. Era una tela appoggiata su quattro ruote.»
Beatrice Carrera