Abbiamo un’altra arma per evitare la catastrofe climatica. Ma funzionerà davvero?

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Siamo sull’orlo della catastrofe, non c’è più tempo. Secondo il sesto e ultimo rapporto dell’IPCC (Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico) la maggior parte dei cambiamenti già in atto è irreversibile, ed è improbabile che riusciremo a restare entro i parametri dei recenti accordi sul clima se non ci saranno ingenti spese di denaro pubblico (si parla di migliaia di miliardi di dollari di investimenti). Poche decine di gradi in più rispetto alla media globale fanno la differenza per milioni di specie, anche se l’incremento ci sembra insignificante. E fanno la differenza anche per noi.

Gli oceani stanno già morendo, gli animali soffocando, le tempeste e i fenomeni atmosferici rari diventano sempre più estremi e violenti (è stato stimato che solo durante i devastanti incendi in Australia tra la fine 2019 e l’inizio del 2020 siano morti 3 miliardi di animali). Fenomeni che prima accadevano solo una volta ogni 1000 anni, come le ondate di caldo estreme, ora accadono in media ogni 100, ed entro il 2040 potrebbero diventare comuni. Un recente rapporto della NOAA statunitense ha rilevato che il 2021 è stato il quarto anno più caldo per gli Stati Uniti dal 1895, da quando è iniziata la raccolta dati, e sei degli anni più caldi sono stati registrati negli ultimi dieci.

I recenti accordi climatici, da quello di Parigi del 2015 a quello dell’anno scorso a Glasgow impongono che, per mantenere la temperatura globale media ben al di sotto di 2 ℃ sopra i livelli pre-industriali, sia necessario non solo completamente fermare le emissioni di CO2 (il diossido di carbonio, comunemente noto come anidride carbonica) ma addirittura cercare di ottenere «emissioni negative». Secondo studî sempre più numerosi questo bisogno di «emissioni di carbonio negative» è sempre più impellente. Sempre l’IPCC stima che dovremmo rimuovere dall’atmosfera tra 100 e 1 000 Gt («gigatonnellate» = miliardi di tonnellate) di CO2 entro il 2100 per evitare effetti catastrofici (al momento ne emettiamo 51 miliardi ogni anno). Il problema è che nessuno ha una buona idea di come riuscirci esattamente.

Un canguro davanti a una casa in fiamme nel lago Conjola, nel Nuovo Galles del Sud, in Australia, 31 dicembre 2019. Crediti: © Matthew Abbott, The New York Times

La soluzione ovvia sarebbe piantare un sacco di alberi, per convertire la CO2 in legno (è ciò che fanno tutte le piante grazie alla fotosintesi, restituendo come prodotto di scarto il tanto gradito ossigeno). Ma questo significherebbe rimboschire un’area con una dimensione intermedia tra quella dell’India e del Canada (circa 5 milioni di km2), secondo le più recenti stime. Ciò non è chiaramente fattibile.

Si potrebbe anche provare a fertilizzare l’oceano, il più grande «polmone» terrestre (il 50–80% di tutto l’ossigeno che respiriamo sulla Terra proviene dagli oceani!) stimolando la crescita del fitoplancton, che restituisce ossigeno come scarto attraverso la fotosintesi, come le piante. Ma anche in questo caso, la vastità del progetto e i costi da sostenere fermerebbero un tale progetto prima che abbia modo di partire. 

E fino a oggi altre soluzioni alternative sono sempre state prese poco in considerazione a causa dei costi stratosferici, o perché poco efficaci, o per entrambi i motivi. La tecnologia della cattura del carbonio (carbon capture and storage, CCS) promette di rivoluzionare questo paradigma.

Come i vaccini a mRNA contro la COVID-19 e gran parte delle tecnologie avanzate che hanno del fantascientifico, la tecnologia CCS non è saltata fuori dal nulla. È da decenni che gli scienziati parlano di bilanciare le emissioni di gas serra catturando CO2 e immagazzinarla da qualche parte, e di conseguenza sperimentano questo tipo di tecnologia nelle più remote aree del pianeta terra e nei più avanzati progetti di ingegneria.

Un impianto della ClimeWorks per la cattura diretta dall’aria. Crediti: © ClimeWorks

Il primo problema è la cattura del CO2 stesso. Una soluzione, e la più intelligente quando disponibile, è la «cattura diretta dall’aria» (direct air capture, DAC): si installano attrezzature per il filtraggio per la cattura delle emissioni direttamente alla fonte, sulle ciminiere di centrali elettriche o fabbriche. Il vantaggio è che non solo possono lavorare giorno e notte, ma soprattutto non richiedono la conversione dell’intera centrale o fabbrica a un tipo di energia più pulita, abbattendo sensibilmente i costi di transizione energetica per la relativa filiera.

Lo svantaggio è legato principalmente al costo di una tale operazione, sia in termini di denaro, sia in termini di energia spesa per tenere in funzione suddette macchine. Ipotizzando però di riuscire ad alimentarle con energia pulita e a basso costo (sempre più fattibile considerando che il fotovoltaico e l’eolico sono ormai di gran lunga le forme di energia a più basso costo per kWh prodotto, con prezzi intorno a 0,04–0,12€/kWh), i costi potrebbero scendere intorno ai 100–200 dollari a tonnellata. È comunque più del costo schemi di negoziazione delle emissioni, ma non troppo distante dal prezzo di 100$ che la maggior parte degli economisti climatici ritiene sia necessaria per richiedere la transizione a un’economia mondiale più verde (a oggi i prezzi nell’UE sono intorno agli 80€ per tonnellata).

Sono già attivi alcuni impianti di sperimentazione dell’azienda canadese Carbon Engineering e da quest’anno dovrebbe avviare la costruzione del più grande impianto per la DAC in Texas, che prevede di completare nel 2025, e con una capacità di cattura stimata di 1 milione di tonnellate l’anno; l’azienda è confidente di riuscire a catturare carbonio a un costo medio stimato di 300 dollari per tonnellata. ClimeWorks, un’impresa svizzera, ha già aperto un impianto DAC in Islanda nel 2021 chiamato Orca, che seppellisce CO2 catturato in forma minerale a un tasso di 4 000 tonnellate l’anno.

Una volta catturato, il diossido di carbonio dev’essere immagazzinato da qualche parte, e definitivamente: non possiamo permetterci che esso abbia modo di scappare e ritornare nell’atmosfera. Per questo ci viene in aiuto la geologia.

Conoscenza solida

Una delle osservazioni più straordinarie e fondamentali del secolo scorso proviene da alcuni piccoli laboratori universitari di geologia sparsi per il globo e da una valle sperduta tra i monti Al Hajar, in una nazione non molto conosciuta, a est dell’Arabia Saudita: l’Oman. La valle è un deserto brullo, marrone, con solo qualche cespuglio qua e là, formato prevalentemente da una roccia chiamata peridotite, segnata dagli agenti atmosferici. Eppure questo luogo desolato potrebbe custodire un processo chiave per la nostra sopravvivenza.

Jabal Shams, «la montagna del Sole», è la cima più elevata dell’Oman. Crediti: © Wikimedia Commons

Quando piove, l’acqua piovana percola dalle crepe nella roccia, e porta con sé ossigeno e diossido di carbonio disciolti nell’aria. Acqua e gas reagiscono con la roccia formando vene solide di nuovi minerali (carbonati) che, come radici di alberi, scavano sempre più in profondità nella pietra. E come per magia, l’anidride carbonica si trasforma in roccia. Questo processo di carbonatazione è probabilmente il miglior modo di immagazzinare CO2: è un processo che la natura già attua, non occupa spazio in superficie, non c’è bisogno di gestire bombole con CO2 sotto pressione e a temperature criogeniche che rischierebbero di esplodere, e i sottoprodotti sono rocce stabili che possono essere usate anche per altre applicazioni industriali. Ma il punto fondamentale è che non c’è modo per la CO2 di «sfuggire»: il carbonio è chimicamente incastrato nella roccia tra atomi di ossigeno e altri minerali. E l’acqua carbonata iniettata è più densa dell’acqua circostante nella formazione geologica e quindi ha la tendenza ad affondare dopo che è stata iniettata, contribuendo alla permanente fissazione del carbonio senza necessitare ulteriori “tappi”.

Peter Kelemen, geologo della Columbia University, e suoi colleghi, stimano che le rocce in Oman assorbano e pietrifichino ogni anno fino a 100 000 tonnellate di CO2, circa un grammo di gas serra per metro cubo di roccia. Questo avviene in modo del tutto naturale già da milioni di anni! Un piano proposto da Kelemen prevede di accelerare le reazioni naturali trivellando il terreno per alcuni chilometri (fino a 3000 metri di profondità), dove le rocce sono più calde, e pompare acqua di mare satura di CO2 estratta dall’aria con la DAC. A quelle profondità le rocce hanno una temperatura media di 100 ℃, che accelera le reazioni di carbonatazione (anche di migliaia di volte, secondo le simulazioni) e vaporizza l’acqua aiutandola a tornare in superficie senza l’ausilio di pompe artificiali.

Kelemen e un collega studiano i minerali di peridotite sulle montagne di Al Hajar, in Oman. Si notino le vene bianche di carbonati formati in milioni di anni grazi al processo naturale di carbonatazione. Crediti: © Columbia University

Ma è possibile costruire l’infrastruttura necessaria per attuare un simile piano, in tempi brevi e con costi quanto più possibile ridotti?

Una corsa contro il tempo

Il basalto è una roccia grigio-nera e densa, derivata dal mantello, punteggiata di piccole bolle. Contiene meno minerali della roccia dell’Oman, ma comunque più rispetto ad altre rocce della superficie terrestre. Il vantaggio però è che il basalto è uno dei principali componenti della crosta terrestre, coprendo circa il 5% dei continenti e la maggior parte del pavimento oceanico. Per cercare di sfruttarlo, la società islandese Reykjavík Energy ha dato il via a un esperimento di iniezione di CO2, chiamato Carbfix, presso l’impianto geotermico di Hellisheiði. Dal 2012 alcuni macchinari hanno separato CO2 dagli scarichi della centrale e li hanno iniettati nel basalto sottostante attraverso pozzi a una profondità di 400 e 800 metri. Nel corso di due anni, il 95% era stato correttamente immagazzinato nei carbonati. Da allora, il progetto ha permesso di immagazzinare circa 10 000 tonnellate di CO2 all’anno. L’obiettivo della società è riuscire ad accumulare un miliardo di tonnellate entro il 2030. E è stato stimato grazie al solo basalto presente in Islanda, potrebbero essere immagazzinate 400 Gt di CO2.

Un’altra azienda con sede in Oman, la 44.01 (che prende il nome dal peso molecolare medio del CO2) dovrebbe iniziare le operazioni commerciali già da quest’anno. Useranno acqua dolce, o anche acque di scarico trattate, per portare ogni anno 10 000 tonnellate di gas in un singolo pozzo, con l’obiettivo di arrivare fino a 100 000 tonnellate l’anno e 1 Gt complessiva entro il 2030.

Per immagazzinare 1 Gt di CO2 l’anno in Oman, Kelemen e i suoi colleghi hanno calcolato che, sotto opportune condizioni di concentrazione del gas dell’acqua di mare facilmente ottenibili con i macchinari odierni, sarebbero necessari 5 000 pozzi di iniezione. Insieme pomperebbero un totale di 23 km3 d’acqua ogni anno, circa l’1,5% della portata media del Po, o il 21% di quella dell’Arno. Sembra un’operazione di un’entità sconvolgente, ma l’emergenza climatica richiede interventi drastici, e non possiamo permetterci di scartarne nemmeno uno. E il costo dell’inazione potrebbe essere decine di volte più elevato, senza contare quello inestimabile della perdita di vite umane, specie viventi e distruzione ambientale. Solo negli Stati Uniti gli eventi estremi del 2021 (gelo e siccità estremi, incendi boschivi, uragani e cicloni) hanno causato perdite stimate per 145 miliardi di dollari. È stato il terzo anno più costoso nella storia del paese, e il numero di eventi catastrofici da più di 1 miliardo di dollari è cresciuto in maniera sostenuta nell’ultimo decennio.

Un deserto dell’Oman. Crediti: © 44.01

Con i suoi 15 000 metri cubi di roccia il deserto dell’Oman potrebbe diventare uno dei più grandi bacini naturali di immagazzinamento del diossido di carbonio. E dalla superficie terrestre emergono affioramenti simili in Alaska, Canada, California, Islanda, Nuova Zelanda, Giappone. Kelemen stima che in tutto il mondo queste rocce possano immagazzinare da 60 000 a 600 000 Gt di CO2: da 25 a 250 volte la quantità emessa in atmosfera dall’umanità a partire dal 1850.

Il costo del disastro

Come spesso accade nella storia delle azioni umane, i ricchi fanno i disastri e i poveri ne pagano le conseguenze. II paesi con meno risorse hanno meno capacità di quelli più sviluppati di adattarsi al cambiamento dei movimenti meteorologici, e tendono inoltre a essere più vicini all’equatore, dove il clima sta diventando più instabile che da altre parti. Mentre il mondo si scalda, saranno loro a soffrire di più, e ad avere meno risorse per difendersi. Il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) stima che entro il 2030 i paesi poveri dovranno spendere 140–300 miliardi di dollari all’anno per misure di adattamento, come le difese costiere e i progetti di riforestazione, se vogliono evitare i danni causati dai cambiamenti climatici.

Attualmente, la Carbfix mineralizza CO2 a un costo di circa 25 dollari per tonnellata, in linea con la fascia di prezzo per la riforestazione. Uno studio dell’Università della Pennsylvania ha stimato che i costi complessivi di cattura e immagazzinamento di CO2, inclusi gli stipendi degli operatori e le spese di costruzione e manutenzione delle attrezzature per vent’anni variano tra 120–220 dollari per tonnellata eliminata. Questa però è una stima che non considera l’innovazione: attualmente gli impianti sono di modeste dimensioni, e se questa tecnologia verrà adottata su larga scala, i costi potrebbero abbattersi drasticamente.

Non è necessario però arrivare a mineralizzare gigatonnellate di CO2 entro i prossimi cinque anni però: come per ogni tecnologia all’inizio della sua evoluzione, servono una serie di strutture gradualmente più grandi da cui imparare, per migliorare l’efficienza e i costi. È solo così che riusciremo ad abbattere gradualmente il prezzo e scalare la tecnologia a livello mondiale.

Una proprietà eccezionale della peridotite è la sua potente spinta chimica a reagire con l’anidride carbonica, non disponibile nel suo normale habitat nelle profondità della terra, ma abbondante nell’aria o nelle acque sotterranee vicino alla superficie. La reazione forma carbonato, un minerale che blocca il carbonio in forma solida. Crediti: © Columbia University

Operazione fumo negli occhi

Non dobbiamo però lasciarci abbindolare da una tecnologia al limite del fantascientifico come questa e usarla come scusa per non aumentare i nostri sforzi di riduzione delle emissioni e transizione a un’economia verde e circolare.

ENI ha di recente proposto lo «sviluppo del primo hub [sic] di decarbonizzazione nell’Europa meridionale costruendo a Ravenna un sistema di cattura, trasporto e iniezione del carbonio, prodotto dal distretto industriale di Ravenna-Ferrara-Porto Marghera, nonché dalla produzione di idrogeno decarbonizzato e di energia elettrica, negli esistenti giacimenti esauriti nel mare Adriatico», con un finanziamento da 1,35 miliardi di euro dal PNRR e altri milioni dalla Commissione Europea. 

In Italia, decine di personalità del mondo accademico si oppongono fermamente a questa proposta. In una lettera aperta denunciano la non accettabilità socio-economica e industriale di questi progetti per come sono stati condotti fino a ora. «Proporre lo stoccaggio e l’uso della CO2 rappresenta un alibi straordinario per continuare a produrre anidride carbonica contribuendo all’attuale trend di crescita esponenziale del disastro ambientale. E perseverando scelleratamente a privatizzare utili e socializzare i costi» si legge nell’appello sottoscritto da cinquantatré accademici indirizzato al presidente della Repubblica Mattarella e al presidente del Consiglio Draghi.

In particolare, i firmatari sostengono che la tecnologia CCS si candida a essere una comoda scorciatoia e rischia di compromettere seriamente un percorso di decarbonizzazione del sistema di produzione e consumo che dovrebbe avere invece nella sua razionalizzazione il taglio selettivo dei consumi energetici.

Tra i firmatari c’è anche Ugo Bardi, docente di Chimica Fisica presso l’Università di Firenze. «I risultati sono chiari—commenta Bardi—: per ogni combinazione ragionevole dei parametri, l’energia rinnovabile vince sul “sequestro” del carbonio. Il vantaggio, non solo monetario, suggerisce che dovremmo impegnarci al massimo in questa direzione per combattere i cambiamenti climatici».

E anche Bruxelles ha dato il suo no, sostenendo che per avere un’Unione Europea a emissioni zero nel 2050 si possa e si debba fare a meno della CCS.

Luce (e roccia) in fondo al pozzo

La proposta di ENI è però sostanzialmente diversa da quella esemplificata in questo articolo. Essa prevederebbe, infatti, l’iniezione e l’immagazzinamento del CO2 nei pozzi di idrocarburi in via di esaurimento o già esauriti, e questo darebbe nuova linfa alle attività estrattive di gas e petrolio, contribuendo ulteriormente all’arricchimento di ENI e della cancerogena industria di cui fa parte. Il carbonio così immagazzinato, inoltre, non sarebbe fissato in modo permanente attraverso la carbonatazione, presentando quindi un maggior rischio di fuoriuscite nel tempo.

Per di più ENI è una compagnia petrolifera tra le principali responsabili delle emissioni di gas climalteranti, e un punto di vista morale suggerisce che gli ingenti profitti che una tecnologia come la CCS porterebbe non dovrebbero andare in mano ai soli privati, e per di più a uno dei principali fautori dell’ambiente tossico in cui il Pianeta adesso si trova. E ENI sa perfettamente che questa tecnologia costituisce un’arma formidabile per sviluppare un nuovo mercato, con potenzialità e profittabilità come pochi altri.

Sia l’IEA (Agenzia Internazionale dell’Energia) che l’IPCC sono tuttavia favorevoli in qualche misura all’adozione della tecnologia CCS. Essa non è di certo la soluzione ai problemi enormi e drastici del cambiamento climatico. Né dovremmo investire più risorse in questa tecnologia di quante ne investiamo per la vera produzione di energia pulita, di materie prime pulite (cemento e acciaio in primis), per efficientare le nostre case e per transitare verso una mobilità sostenibile su scala globale.

L’industria delle emissioni negative è appena nata: si trova al punto in cui era il settore petrolifero a metà Ottocento, quando ancora a dominare era l’industria dell’olio di balena. Via via che nuove ricerche e nuovi finanziamenti verranno effettuati, essa migliorerà, e arriverà a poter essere considerata un’arma efficace e pulita per combattere il cambiamento climatico da affiancare a quelle che già abbiamo, soprattutto durante questo primo periodo di transizione a forme di energia più verde. E i deserti dell’Oman e i fondali oceanici potrebbero rivelarsi alcuni tra i nostri migliori alleati.

Andrei Florea

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Formula E: motori e sostenibilità (prima parte)

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Secondo gli obiettivi del piano nazionale integrato per l’energia elettrica (PNIEC) di dicembre 2019, entro il 2030 è previsto un incremento sostanziale degli investimenti nel trasporto elettrico, sia pubblico e sia privato. Nei prossimi 5-7 anni il numero di veicoli ad alimentazione elettrica sarà attorno ai 6 milioni, di cui 4 milioni saranno elettrici puri. Inoltre, il piano verte sull’implementazione di politiche “volte a conseguire l’elettrificazione dei trasporti”, ponendo delle restrizioni progressive alla circolazione di mezzi inquinanti.

Attualmente la mobilità elettrica nel nostro Paese rappresenta lo 0,2%, un dato certamente inferiore se si guarda il resto dell’Europa. Al primo posto della classifica del continente europeo troviamo la Norvegia con il 14,64%. Le nazioni quali: Inghilterra, Francia, Germania e Spagna, sono caratterizzate da percentuali che vanno rispettivamente dallo 0,99% per scendere ai livelli italiani dello 0,2%. (Report ottobre 2020, “Il futuro della mobilità elettrica: l’infrastruttura di ricarica in italia 2030”.)

Sempre secondo il report precedentemente citato, nonostante i dati relativamente bassi, il trend dell’elettrico circolante sta crescendo di anno in anno, con un +118% nel biennio 2018-2020. Per quanto riguarda le altre categorie di alimentazione, nel medesimo periodo, c’è stato un incremento del 2,5%.

Analizzando a livello geografico la distribuzione dei veicoli elettrici nel 2020 in Italia, il nord detiene la fetta più importante del parco auto elettriche, con ben il 68%; il centro è rappresentato dal 24%, mentre al sud la percentuale si attesta all’8%.

Questi numeri sono strettamente correlati al grado di incentivi messi a disposizione dalle singole regioni. Per esempio, Trentino e Piemonte sono state le regioni del nord con maggiore incremento di immatricolazioni elettriche, offrendo incentivi sia per i privati e sia per le imprese. La Toscana, sempre nel 2020, ha registrato una distribuzione di auto elettriche fra il 10-14% sul totale del parco auto.

L’incremento dell’elettrico fa sorgere nuovi bisogni da soddisfare da parte della clientela, spesso riguardanti le tempistiche di ricarica e il numero di colonnine per ricaricare il veicolo.

In Europa sono stati utilizzati due modelli per risolvere quest’ultimo problema. Ad Amsterdam, per incentivare l’acquisto di motori elettrici, è stata data la possibilità al cliente di richiedere un punto ricarica nei pressi della propria abitazione qualora non ne fosse presente uno.

Spostandosi in Inghilterra, nello specifico a Londra, 1300 lampioni stradali sono stati convertiti in colonnine, permettendo la ricarica in un’ora.

Il report “Le infrastrutture di ricarica pubbliche in Italia” ha fatto emergere come nel nostro Paese la situazione punti di ricarica stia migliorando: solamente nel 2020 c’è stato un aumento del 39%, difatti attualmente ci sono 19.324 colonnine. Per incrementare questo trend sono stati fatti anche degli accordi importanti, come quello fra Be Charge ed Eni gas e luce, che hanno installato delle colonnine con corrente elettrica proveniente al 100% da fonti rinnovabili. Inoltre, da marzo 2021, tutti i possessori di auto elettriche avranno uno sconto del 50% sulla prima ricarica utilizzando l’app di ricarica Be Charge.

I vantaggi delle auto elettriche sono molteplici:

  • Diminuzione dei costi per quanto riguarda il consumo e l’assicurazione;
  • Possibilità di installare le colonnine nella propria abitazione;
  • Riconoscimento di molti bonus.

Guardando all’ambito ambientale vengono ridotte le emissioni dannose del 40-50% rispetto alle altre tipologie di alimentazione. Non solo, si registra anche una forte diminuzione dell’inquinamento acustico. 

Oltre ai molti pro, sono presenti anche dei lati negativi. Essi possono essere riassunti in alcuni punti:

  • Autonomia limitata e tempi di ricarica incompatibili con le necessità dell’utente. Per questo motivo è importante la presenza di una buona rete di ricariche elettriche sul territorio;
  • In caso di incidente una batteria elettrica ha maggiori possibilità di incendiarsi rispetto alle altre tipologie di vetture;
  • Lo smatimento delle batterie è una delle incognite che riguardano questa tematica.

In conclusione, l’utilizzo dell’elettrico risulta essere presente nella stragrande maggioranza delle agende nazionali di molti Paesi. Esso può essere una valida alternativa alle auto emettono gas inquinanti. 

Nonostante i lati positivi, ancora oggi non tutti sono pienamente convinti di passare all’elettrico. I principali fattori che scoraggiano l’acquisto, come già evidenziato, sono i tempi e le modalità di ricarica. 

Un altro elemento da tenere in considerazione è il decongestionamento delle batterie.

Questa corsa frenetica verso la mobilità elettrica non ha ancora trovato una soluzione allo smaltimento in modo sicuro ed efficace, rappresentando una probabile problematica futura. 

Lisa Pieroni

Formula E: motori e sostenibilità (seconda parte)

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È la primavera del 2011 quando, nella cornice di un ristorante parigino, l’allora imprenditore spagnolo, Alejandro Agag, e il Presidente della FIA, Jean Todt, assaporano l’idea di creare una categoria riservata a veicoli 100% elettrici. Un’idea assolutamente innovativa che prevede gare su circuiti cittadini e che si pone l’obiettivo di mostrare al mondo intero le potenzialità della mobilità sostenibile

Un anno dopo, quell’idea abbozzata su un serviette, comincia a divenire realtà: nasce il prototipo di “Formula E”, una monoposto elettrica collaudata dall’ex pilota di Formula 1 Lucas Di Grassi. 

Nel settembre 2014, a soli tre anni di distanza da quel fatidico incontro, il Campionato FIA Formula E debutta ufficialmente all’E-Prix di Pechino, primissima gara della stagione 2014-2015. Sin dagli inizi la Formula E, conosciuta oggi come ABB FIA Formula E World Championship, ha riscosso una crescente rilevanza mediatica, specialmente per i suoi risvolti ecologici nonché per il possibile impatto nello sviluppo di nuove tecnologie per il trasporto su strada. 

Consapevole del fatto che l’inquinamento atmosferico è ad oggi la maggiore fonte di rischio ambientale per la salute umana, la ABB FIA Formula E promuove attivamente la mobilità elettrica e l’uso di energia rinnovabile come alcune tra le migliori soluzioni per ridurre i livelli di inquinanti e sostiene la lotta ai cambiamenti climatici.

Il campionato, da semplice evento sportivo, diventa uno strumento di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulle problematiche ambientali che affliggono il nostro pianeta e sulle pratiche sostenibili da attuare per difenderlo, a cominciare proprio dalle emissioni di carbonio. La missione è dunque quella di ispirare le generazioni attuali e future dando così una forte spinta al passaggio alla mobilità elettrica, per costruire passo dopo passo un futuro dei trasporti che sia: elettrico, pulito, connesso, condiviso ed autonomo. 

La Formula E si approccia alla sostenibilità secondo un programma basato su tre pilastri:

  • Organizzare un evento sostenibile, come attesta la prestigiosa certificazione ISO20121, ogni evento è gestito in maniera sostenibile a partire dalla riduzione dei rifiuti a favore del riciclaggio, ad esempio delle batterie agli ioni di litio o ancora l’uso di sacche d’acqua riutilizzabili; il tasso di riciclaggio medio è pari al 52%. Al termine di ogni stagione inoltre, grazie alla partnership con Quantis, viene fatta una stima dell’impronta ecologica avuta per valutare possibili modifiche nell’organizzazione degli eventi stessi. 
  • Avere un impatto positivo sulle città dove si svolge il campionato interagendo con le comunità locali per diffondere i principi di sostenibilità, grazie alla creazione di attività educative tra cui FIA Girls on Track che promuove l’uguaglianza di genere offrendo opportunità di carriera. Un altro importante programma che coinvolge le comunità è FIA Smart Cities, dei forum in cui un team di esperti affronta i temi dello sviluppo urbano sostenibile, per città più sicure e connesse mirando ad un’economia a basse emissioni di carbonio;
  • Sensibilizzare l’opinione pubblica sui cambiamenti climatici, poiché, oltre a quanto detto in precedenza, quasi un quarto delle emissioni di CO2 è da attribuirsi al settore trasporti e sono la causa di circa 400.000 morti premature. La formula E collabora, tra i vari partner, con il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente per il quale il pilota Lucas Di Grassi è stato nominato ambasciatore globale. Sono inoltre in atto diverse iniziative ed attività volte a sensibilizzare il pubblico, disponibili sulle varie piattaforme digitali (#BeatAirPollution).

L’impegno della Formula E a favore della sostenibilità ambientale, inoltre, si allinea perfettamente con gli Obiettivi di sviluppo sostenibile imposti dalle Nazioni Unite per l’Agenda 2030 (SDG), contribuendo a ben 8 dei 17 obiettivi previsti. 

Sara Alfonso

IL POTERE DEL VENTO (parte 2)

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Facendo un quadro mondiale, sono 10 le maggiori centrali eoliche classificate per capacità di energia prodotta, 2 delle quali sono di tipo offshore mentre le restanti 8 sono onshore; i paesi che le ospitano sono la Cina, l’India, gli Stati Uniti ed il Regno Unito.

In Italia si contano all’incirca 5.645 impianti eolici, che si differenziano tra loro per classe di potenza e capacità produttiva; si tratta solo di impianti onshore, per lo più collocati nelle sei regioni meridionali (circa il 90%).

Nella regione Toscana, secondo il rapporto stilato dall’agenzia Arpat sulla presenza dell’eolico, sarebbero 10 i parchi eolici funzionanti :

●     Montemignaio;

●     Crocina – Castiglion Fibocchi e Talla;

●     Monte Carpinaccio – Firenzuola;

●     Poggi Alti – Scansano;

●     Vento di Zeri – Zeri e Pontremoli;

●     Monte Vitalba – Chianni;

●     Gello – Pontedera;

●     La Miniera – Montecatini Val di Cecina;

●     Poggio Malconsiglio – Riparbella;

●     Santa Luce – Santa Luce.

Risale a pochi mesi fa la notizia del progetto per un nuovo parco eolico che dovrebbe essere installato tra la Valdera e le Colline pisane, denominato “Vento di Luce”. Si tratta di un progetto proposto da Fera (Fabbrica Energie Rinnovabili Alternative) che prevede la realizzazione di 7 aerogeneratori che si aggiungeranno ai 13 già esistenti da tempo a Chianni e Santa Luce. L’impianto avrà un’estensione di 2.5 km ed una durata stimata tra i 20 e i 25 anni. Successivamente alla presentazione del progetto non sono mancate le perplessità da parte dei Comuni interessati, in merito all’impatto visivo, ai livelli di emissioni sonore e alla viabilità; pertanto gli stessi hanno richiesto che venga avviata la VIA (Valutazione di impatto ambientale) che la Regione però sembra non ritenere necessaria.

Il prossimo 29 Maggio, in piazza Giotto a Vicchio, si terrà un presidio di protesta contro l’eolico industriale sui crinali appenninici, promosso da Italia Nostra Firenze, Club Alpino Italiano – Regione Toscana, Comitato per la tutela del crinale mugellano, Rete della Resistenza sui Crinali ed altri.

Ma alla luce di queste discordanze, per quanto l’energia eolica sia tra le fonti più pulite, quali sono i pro e i contro della realizzazione di parchi eolici?

L’eolico presenta certamente aspetti positivi quali i bassi costi di mantenimento e smantellamento delle strutture, un recupero dei costi iniziali pari mediamente a 10 anni e zero emissioni dirette di CO2.

Non è però esente dal generare impatti negativi sull’ecosistema, sulla salute e comfort della popolazione e sulla cultura del territorio in cui viene installato.

I principali impatti negativi sono infatti:

●     Impatto visivo e paesaggistico;

●     Impatto sonoro dovuto al rumore generato dal moto delle pale;

●     Impatto sulla fauna aviaria;

●     Impatto elettromagnetico dovuto alle linee elettriche di trasporto dell’energia prodotta;

●     Impatti legati alla realizzazione vera e propria dell’impianto;

●     Impatto sul valore immobiliare del costruito in prossimità;

Bisogna inoltre tenere in considerazione la naturale instabilità fisica dei venti che non assicurano il costante funzionamento degli impianti.

L’eolico, fonte di energia grazie all’uso intelligente di un elemento naturale, nonostante i molti lati positivi, ne presenta altrettanti negativi. Per questa ragione ogni contesto deve essere attentamente studiato ed analizzato mediante le apposite procedure tecnico-amministrative, prima di procedere all’installazione di un impianto eolico in un determinato luogo.

Sara Alfonso

Clicca qui per leggere la prima parte

IL POTERE DEL VENTO (parte 1)

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Sai come si forma il vento nell’atmosfera terrestre? Sono due i fattori fondamentali per la sua formazione, la pressione atmosferica e le masse d’aria. Infatti, il vento, non è altro che lo spostamento orizzontale di masse d’aria tra zone aventi la medesima quota ma una pressione differente, maggiore o minore. Esistono diversi tipi di vento in base alla loro origine e alle loro caratteristiche e vengono generalmente classificati in: costanti, periodici, variabili ed irregolari.

 Sin dall’antichità l’uomo si è servito del vento per diversi scopi, come la navigazione a vela: unico mezzo di comunicazione e commercializzazione degli antichi, la cui propulsione dipendeva essenzialmente dalla forza generata dalle correnti d’aria. Gli Egizi, per citare un esempio, attendevano il vento favorevole per poter manovrare le proprie imbarcazioni lungo il Nilo. Anche per la progettazione di edifici, i primi architetti basavano i loro progetti sullo studio delle correnti d’aria.

La prima testimonianza dell’utilizzo del vento per generare energia meccanica risale invece al I secolo, quando l’ingegnere greco Erone di Alessandria progettò la prima ruota a vento utilizzata per alimentare un organo musicale. Facendo un balzo temporale di ottocento anni, nel IX secolo, vennero ideati i primi mulini a vento nel territorio iraniano, diffusi in seguito in Medio Oriente e in Asia. Con il passare degli anni vennero utilizzati anche in Europa per macinare la farina, o per scopi agricoli ed edilizi.

 Il vento è dunque da sempre un potenziale generatore di energia, la cosiddetta energia eolica. Il termine eolico deriva dal greco Αἴολος, comunemente noto come Eolo, dio dei venti secondo la mitologia greca. L’energia eolica viene definita dalla scienza come energia cinetica di una massa d’aria in movimento.

Ai giorni nostri, lo strumento utilizzato per la produzione di tale energia è l’aerogeneratore, o più comunemente conosciuto come turbina eolica.

Lo spostamento d’aria prodotto dal vento attiva le pale, che a loro volta mettono in moto un rotore che trasmette il suo moto ad un moltiplicatore di giri. Quest’ultimo trasferisce il proprio movimento ad un alternatore che trasforma l’energia meccanica in elettrica.

L’insieme di centinaia di singoli aerogeneratori, interconnessi mediante una rete di trasmissione, costituiscono grandi parchi eolici.

Esistono 3 tipologie di centrali eoliche, differenziate per la loro collocazione:

On-Shore, sono quelli maggiormente diffusi, posizionati su alture e zone ben esposte ai venti ad almeno 3 km dalla costa;

●     Near-Shore, posizionati a meno di 3 km dalla costa se nell’entroterra oppure sul mare entro i 10 km dalla costa;

●     Off-Shore, collocati in siti marini ad alcune miglia da zone costiere, costituite da turbine eoliche multiple flottanti poste su una piattaforma galleggiante; possono essere installate anche in mare aperto per beneficiare dei venti costieri, purché al di fuori di rotte marittime.

Lisa Pieroni

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ALEXANDER LANGER: STORIA DI UNO DEI PRIMI ECOLOGISTI ITALIANI

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Il nostro ateneo, nel corso della sua storia, ha formato molti personaggi che si sono poi distinti nel mondo; uno di questi è Alexander Langer. È stato un uomo di forte rilievo nella scena politica del nostro Paese e non solo. Per capire tutto ciò vediamo meglio il suo profilo biografico.

Langer nasce a Vipiteno (Bolzano) nel 1946. Il padre Artur era ebreo non praticante di origini viennesi, e nella vita faceva il medico,  mentre la madre, Elisabeth Kofler, era una farmacista tirolese.

Il periodo storico in cui è vissuto è stato segnato da molti avvenimenti che interessarono la storia dell’Italia e non solo, a partire dal referendum monarchia o repubblica, il boom economico, la guerra fredda, le lotte studentesche e operaie, gli anni di piombo ecc.

Nel 1963 si iscrive alla Facoltà di giurisprudenza presso l’Università di Firenze, laureandosi il 18 luglio 1968 con una tesi su “Autonomia provinciale di Bolzano nel quadro dell’autonomia regionale del Trentino Alto Adige e sue prospettive di riforma”. Durante il periodo accademico partecipa alle varie vicende che interessavano il suo territorio natio, il Sudtirolo, che stava attraversando un periodo caratterizzato da forti lotte etniche.

Nella città fiorentina, negli anni da studente, si avvicina a molte figure di rilievo in quegli anni, come Giorgio La Pira (l’allora sindaco e suo professore), padre Ernesto Balducci e inoltre, conobbe don Lorenzo Milani.

Negli anni successivi si dedicò sia alla vita politica e sociale, sia a quella di insegnante. 

Leggendo tutto ciò sorge un quesito: ma cosa c’entra Langer con l’ecologismo?

Durante la sua vita Langer si è dedicato a molte tematiche sociali fra le quali la guerra nell’ex Jugoslavia e l’ecologismo.

Il termine ecologismo si diffonde attorno agli anni Settanta. Il principio cardine di questo pensiero si fonda principalmente sull’applicazione di politiche volte alla tutela dell’ambiente. Il primo partito verde della storia nacque in Australia nel 1972 con il “Gruppo Tasmania Unita”. Solamente un anno dopo in Inghilterra venne fondato il “Green Party”.

Negli anni Ottanta, Langer inizia la propria lotta ambientale sia nel nostro Paese che nel resto d’Europa. Tutto ciò fu facilitato dalla conoscenza che aveva dell’italiano e del tedesco: riuscì infatti a farsi spazio nei vari movimenti ecologisti che si stavano formando in quel periodo nell’area europea.

Nel 1982 promosse il Convegno internazionale nel palazzo della Regione Trento, intitolato “un partito/movimento verde anche in Italia?”. Due anni dopo, nel 1984, divenne il relatore nella prima Assemblea nazionale dei verdi, svoltasi a Firenze. I giornali italiani definirono Langer come “il profeta verde”. 

Nel 1989 fu eletto al Parlamento europeo nelle liste Verdi e divenne presidente del gruppo nel ‘94. Inoltre partecipò, nel 1992, a una delle prime conferenze ambientali, quella svoltasi a Rio De Janeiro.

“A quanto risulta, sinora il desiderio di un’alternativa globale – sociale, ecologica, culturale – non è stata sufficiente, o le visioni prospettate non sufficientemente convincenti. Non si può certo dire che ci sia oggi una maggioranza di persone disposta ad impegnarsi per una concezione di benessere così sensibilmente diversa, come sarebbe necessario.”

Tramite questo concetto Langer esprime il pensiero di come la società ancora non sia incentivata a imporre cambiamenti nella propria vita, tutto ciò a favore di una rivoluzione volta al miglioramento della condizione ambientale.

Sinora si è agito all’insegna del motto olimpico «citius, altius, fortius» (più veloce, più alto, più forte), che meglio di ogni altra sintesi rappresenta la quintessenza dello spirito della nostra civiltà, dove l’agonismo e la competizione non sono la nobilitazione sportiva di occasioni di festa, bensì la norma quotidiana ed onnipervadente. Se non si radica una concezione alternativa, che potremmo forse sintetizzare, al contrario, in «lentius, profundius, suavius» (più lento, più profondo, più dolce), e se non si cerca in quella prospettiva il nuovo benessere, nessun singolo provvedimento, per quanto razionale, sarà al riparo dall’essere ostinatamente osteggiato, eluso o semplicemente disatteso.”

Langer sperava in una conversione ecologica della società, quest’ultima doveva impegnarsi a una auto-limitazione cosciente, valorizzando le comunità e la convivialità. È stato ideatore della “Fiera delle Utopie Concrete“, che si svolge ogni anno a Città di Castello (PG), dove vengono esposte idee per la conversione ecologica sia della società che dell’economia.

Si tolse la vita nei pressi di Firenze il 3 luglio del 1995

Langer fu uno dei più importanti esponenti del mondo ecologista italiano e non. Ha permesso una forte spinta primordiale nel campo ambientale, sensibilizzando la società spronandola a cambiare i propri stili di vita. Ancora oggi questo pensiero non risulta obsoleto.

Lisa Pieroni

BEE THE CHANGE

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Il prossimo 20 maggio si celebrerà la giornata mondiale delle api, istituita nell’ottobre del 2017 dall’assemblea generale delle Nazioni Unite al fine di sensibilizzare la popolazione mondiale sull’importanza degli impollinatori e del loro ruolo in ambito ambientale. Le api svolgono, infatti, un’azione di impollinazione indispensabile che consente la riproduzione di gran parte delle specie vegetali, garantendo così l’equilibrio degli ecosistemi e preservando la biodiversità. 

La loro eventuale scomparsa provocherebbe un disastro ecologico rendendo il pianeta un luogo inospitale per l’uomo. Basti pensare che la percentuale di impollinazione dei frutteti è pari al 75% per capire che quasi un terzo del cibo che portiamo sulle nostre tavole viene prodotto grazie alla loro azione. Le api sono dunque fondamentali tanto per il settore ambientale quanto per quello produttivo e la nostra sopravvivenza è strettamente dipendente da questi piccoli ma preziosissimi insetti.

Solo nella regione toscana si contano oltre 5 mila apicoltori e 93 mila alveari, un settore sofferente a causa dei cambiamenti climatici e non solo. Infatti, le api sono ormai da tempo una specie in pericolo; da metà degli anni ‘90 è stata colpita da un fenomeno denominato “Colony Collapse disorder”, un’anomalia che si verifica quando la maggior parte delle api operaie di una colonia scompaiono lasciando la regina, una grande quantità di cibo e un paio di api nutrici a prendersi cura delle api immature e della regina. Il verificarsi di tale fenomeno è dovuto a patogeni ambientali, alla mancanza o perdita dell’habitat, alla presenza di parassiti che indeboliscono il loro sistema immunitario e ad una maggiore esposizione ai pesticidi ed insetticidi utilizzati in agricoltura. 

Ma quali azioni possono intraprendere i cittadini per contribuire alla salvaguardia di questi indispensabili insetti?  

  • Piantare  “fiori amici delle api” sui propri balconi, terrazze e giardini;
  • Acquistare miele e altri prodotti (propoli, pappa reale) presso apicoltori locali;
  • Preservare la flora selvatica seminando piante nettarifere;
  • Installare delle “bee houses” nei propri balconi e giardini.

A tal proposito, il comune di Firenze ha messo in campo un pacchetto di iniziative al fine di sensibilizzare la comunità verso la difesa della biodiversità in ambiente urbano:

  • Un’installazione floreale, inaugurata lo scorso 20 Aprile in piazza Michelangelo rappresentante un Giglio, simbolo della città, composto da 4 mila fiori, un’ape gialla e nera e la scritta “bee the change”. L’installazione, ricoprente una superficie di 600 metri quadri, è stata finanziata da Aboca, una healthcare company italiana che produce prodotti 100% naturali derivanti dalle proprie coltivazioni biologiche. L’azienda inoltre, consapevole dell’importanza di questo insetto, ha avviato un centro di ricerca apistica;
  • La semina della facelia nelle rotonde cittadine, realizzata dalla direzione Ambiente dell’amministrazione fiorentina, con l’obiettivo di creare un habitat urbano favorevole alle api;
  • Il concorso “Fiori a Fiorenza” per i balconi fioriti, organizzato dalla società toscana di Orticoltura e da i Cinque Quartieri con la  collaborazione di Unicoop Firenze e delle farmacie fiorentine Afam che si occupano di distribuire ai cittadini i semi di facelia. Il concorso premierà il balcone più bello e terminerà il 21 giugno;
  • L’installazione di due apiari nei giardini di Villa Favard, a cura di Arpat (Agenzia Regionale per la protezione ambientale della Toscana)
  • La manutenzione del verde pubblico senza ricorrere all’utilizzo di erbicidi, messa in atto già da tempo.

Le sopracitate iniziative di comunicazione e sensibilizzazione al tema rispecchiano l’impegno assunto dall’amministrazione comunale con l’associazione Arpat nell’ambito dell’accordo siglato a fine dell’anno 2019.

Sara Alfonso

FIRENZE: CITTÀ TESTER DELL’ASFALTO FONOASSORBENTE

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L’amministrazione del capoluogo toscano, sensibile e molto attiva riguardo le problematiche ambientali urbane, nel 2019 ha aderito ad un nuovo progetto in chiave green contro l’inquinamento acustico dal nome “Life E-Via”: (Electric Vehicle noise control by Assessment and optimization of tyre/road interaction – Controllo del rumore dei veicoli elettrici mediante valutazione e ottimizzazione dell’interazione pneumatico/asfalto).

Firenze, caso pilota del progetto, sarà infatti la prima città in Europa a sperimentare l’asfalto anti rumore testandone le prestazioni prima che il progetto possa essere esteso ad altre città italiane ed europee. Il progetto mira alla mitigazione dell’inquinamento acustico in aree urbane dovuto al traffico stradale, con particolare attenzione ad un futuro in cui i veicoli ibridi ed elettrici potrebbero costituire buona parte del flusso di traffico. L’obiettivo è dunque l’ottimizzazione di asfalti e pneumatici così da ridurre il rumore generato nelle nostre città, a vantaggio dei mezzi stessi e dei pedoni che transitano.

Il progetto, nato nel luglio 2019 con termine a gennaio 2023, è coordinato dal Comune di Firenze e co-finanziato dall’Unione Europea attraverso il programma Life, un programma istituito nel 1992 mediante il quale vengono finanziati progetti in materia di ambiente, conservazione della natura e clima. Al progetto prendono parte in qualità di partner anche l’Università Mediterranea di Reggio Calabria, Continental, Vie en.ro.se Ingegneria, Université Gustave Eiffel e I-Pool.

L’implementazione progettuale vedrà la luce nell’imminente estate 2021 nel quartiere di San Jacopino, in via Paisiello, verranno poi individuate ulteriori aree analoghe e analizzati i dati della sperimentazione, al fine di ottenere un maggiore comfort acustico per l’intera città.

Le prestazioni di tale intervento verranno testate anche mediante il coinvolgimento della popolazione, pertanto:

  • I cittadini verranno sensibilizzati mediante una campagna di informazione sul progetto e sui temi della mobilità elettrica e sostenibile;
  • Verranno proposte attività come passeggiate sonore al fine di comprendere come varia la percezione del rumore in base alla tipologia di asfalto, di veicoli e pneumatici;
  • Saranno realizzate delle interviste durante le attività sopracitate ed inoltre a bordo di autobus e taxi elettrici facenti parte dell’iniziativa.

Gli obiettivi che Life E-Via si pone di raggiungere sono infatti:

  • Ridurre il rumore stradale in aree urbane molto popolate mediante l’ottimizzazione del manto stradale e degli pneumatici per i veicoli elettrici;
  • Stimare l’efficienza di mitigazione e il potenziale mediante analisi sul ciclo di vita e dei costi del ciclo di vita;
  • Contribuire alle politiche nazionali e regionali italiane, emanando linee guida sull’utilizzo e l’applicazione di tale intervento.
  •  Aumentare la consapevolezza della popolazione in merito all’inquinamento acustico e i suoi effetti sulla salute, informando sulle opportunità fornite dai veicoli elettrici e indagando la loro percezione del rumore coinvolgendola nell’acquisizione dei dati;
  • Promuovere la mobilità sostenibile;
  • Incoraggiare l’applicazione di superfici a basso impatto dimostrandone durabilità e sostenibilità.

Sono già disponibili dei risultati preliminari grazie alla realizzazione a Nantes, in Francia, di due sezioni di prova sulle quali è stato steso il prototipo dell’asfalto, testato da parte dell’Università Gustave Eiffel. Le due differenti miscele posate sono state progettate dall’Università Mediterranea di Reggio Calabria e sono stati testati otto differenti veicoli elettrici. La miscela finale è stata poi consegnata alla città di Firenze per l’implementazione vera e propria del progetto.

Ma perché è così importante intervenire nei confronti dell’inquinamento acustico nelle città?

Secondo l’Agenzia europea dell’ambiente (AEA) oltre 100 milioni di cittadini europei vengono colpiti da elevati livelli di rumore che hanno un impatto negativo sulla salute umana. Il rumore rappresenta una minaccia sottovalutata ma che può causare problemi di salute a breve e lungo termine, come ad esempio: disturbi del sonno, problemi cardiovascolari, malattie cardiache, minor rendimento in ambito lavorativo e di studio, problemi di udito, ecc.

Nel 2018 l’OMS ha stilato delle linee guida per i paesi dell’Unione Europea, fornendo una guida completa su come proteggere la salute umana dalla dannosa esposizione al rumore ambientale ed individua le principali fonti di rumore in ambito urbano: traffico stradale, traffico ferroviario, traffico aereo e turbine eoliche.

Ad esempio, in riferimento al rumore notturno l’OMS raccomanda una soglia di 40 dB di media annuale per prevenire effetti negativi sulla salute. Secondo una pubblicazione dell’UE però tale soglia difficilmente viene rispettata, infatti: circa il 40% della popolazione è esposta al rumore del traffico stradale a livelli superiori a 55 db (A); Il 20% è esposto a livelli superiori a 65 dB durante il giorno; e più del 30% è esposto a livelli che superano i 55 dB durante la notte.

Il rumore, dunque, rappresenta uno dei maggiori fattori di degrado della qualità nella vita in ambiente urbano e pertanto la tutela dall’inquinamento acustico è stata inserita negli Obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, concorrendo al raggiungimento dell’obiettivo 3 (Salute e Benessere), 11 (Città e comunità sostenibili) e 9 (Industria, Innovazione e Infrastrutture) della suddetta.

Se vuoi saperne di più sull’agenda 2030 dai uno sguardo all’articolo di Lisa Pieroni del 25/04/2021.

Sara Alfonso

UNIFI E AGENDA 2030

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Quanti di voi negli ultimi anni hanno sentito parlare di Agenda 2030? Sapevate che il nostro ateneo fiorentino si trova al 3º posto in Italia relativamente a “industria, innovazione e infrastruttura”? Inoltre, eravate a conoscenza dell’esistenza di una classifica mondiale dove vengono raccolti i dati di impatto dei vari atenei mondiali? “Times Higher Education Impact è la classifica che valuta le università in base all’impegno in relazione all’applicazione degli obiettivi stilati dall’ONU.

Facciamo un passo indietro. L’Agenda 2030 è stata istituita dall’Organizzazione delle Nazioni Unite nel 2015, con l’obiettivo di far fronte alle attuali emergenze che si sono rese protagoniste negli ultimi anni. Il documento è composto da 17 SDGs (Sustainable Development Goals) e 169 sotto obiettivi, che spaziano fra le varie tematiche ambientali, sociali ed economiche. Il principio cardine dell’Agenda è l’universalità: ogni Paese deve impegnarsi, in proporzione alle proprie capacità, nel raggiungere le mete fornite dell’ONU. 

Prima dei 17 obiettivi di sviluppo sostenibile del 2015, era presente un altro programma universale basato su princìpi simili: obiettivi per lo sviluppo del Millennio adottati nel 2000. 

I risultati degli obiettivi fissati nel 2000 sono stati tangibili. Nonostante la crescita della povertà, molte più persone hanno accesso a fonti di acqua sicura e controllata, il tasso di educazione è aumentato in linea generale e anche a livello sanitario alcune realtà, che mostravano gravi carenze nel campo, sono riuscite a diminuire la presenza di malattie quali malaria, tubercolosi e Aids. 

Tornando alla nostra realtà fiorentina. Secondo “THE University Impact Rankings l’Unifi si trova al 63esimo posto nella classifica mondiale (terza in Italia) per “industria, innovazione e infrastrutture”. Per quanto riguarda “consumo e produzione responsabile” si trova nella fascia mondiale 101-200, assieme all’università dell’Aquila. Gli altri indicatori presi in considerazione dimostrano essere ad un buon livello, essi sono: 

  • Azione per il clima;
  • Buona salute e benessere;
  • Riduzione della disuguaglianza; 
  • Città e comunità sostenibili; 

A livello generale la classifica mondiale ha subito dei grandi cambiamenti fra gli anni 2020 – 2021. I riposizionamenti sono causati da un aumento del 45% di atenei che si sono dedicati all’implementazione degli obiettivi ONU; difatti, nel 2020 essi erano 768, nel 2021 sono diventati 1.115. In riferimento a ciò, anche il numero di atenei italiani è mutato dalle sole 10 posizioni del 2020, alle 16 dell’anno in corso. L’Unifi dopo il ricalcolo si è posizionata nella fascia 200-300. 

Il delegato per le politiche sulla sostenibilità del nostro ateneo, Franco Bagnoli, ha commentato: “Questi dati, al di là di una progressiva presa di coscienza della strategicità di questi temi da parte del mondo accademico mondiale, testimoniano un rinnovato impegno del nostro Ateneo. I risultati premiano da una parte l’innovazione della ricerca e il trasferimento sul territorio, dall’altro le buone pratiche messe in campo in questi anni, ad esempio, nel campo del riciclo dei rifiuti, nella riduzione del consumo della plastica, dell’efficienza energetica e della mobilità sostenibile”.

Anche la Toscana si sta impegnando per la realizzazione di un programma volto all’inserimento dei 17 obiettivi nelle politiche regionali. Ciò dimostra la necessità di agire non solamente a livello nazionale, ma anche a livello regionale, e addirittura locale. L’azione delle diverse piccole realtà presenti può comportare un’accelerazione generale verso una realizzazione degli obiettivi Onu più equa a livello territoriale.

Questi dati dimostrano come le politiche sostenibili siano entrate anche nel mondo accademico, e ciò deve essere ritenuto un grande passo per la sensibilizzazione dei vari temi affrontati. Proprio l’istruzione dovrebbe essere il baluardo da dove partirà la prerogativa per un mondo più sostenibile, equo sia dal punto di vista economico sia sociale, proprio come auspica l’Agenda 2030.

Lisa Pieroni

FUKUSHIMA E IL RILASCIO IN MARE DELL’ACQUA DI RAFFEDDAMENTO

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Il governo Giapponese ha deciso di versare l’acqua utilizzata per il raffreddamento dei reattori della centrale nucleare di Fukushima in mare. Dopo anni di ricerca scientifica e dopo aver vagliato tutte le soluzioni possibili, il primo ministro Yoshihide Suga ha affermato che il rilascio nell’oceano Pacifico dell’acqua radioattiva trattata rappresenta l’opzione più realistica, per il semplice motivo che lo spazio di stoccaggio per l’acqua è destinato ad esaurirsi nel giro di un anno.

La notizia ha riacceso il dibattito pubblico attorno al tema dell’energia nucleare e ai rischi che potrebbe comportare per l’ambiente e per la popolazione, con domande come: quell’acqua di raffreddamento è davvero pericolosa? E ancora, dobbiamo avere paura del nucleare?

http://www.bbc.com

Secondo quanto affermato dal governo Giapponese è già stato predisposto un primo sistema di filtraggio per rimuovere l’elemento più pericoloso presente in quantità importanti, il Cesio, presente sia in forma di Cesio 134 che Cesio 137. Successivamente l’acqua sarà sottoposta ad un secondo trattamento tramite ALPS (Advanced Liquid Processing System), un procedimento in grado di filtrare, tramite trattamenti chimici, tutti i restanti elementi radioattivi presenti nell’acqua, tranne uno: il tanto famigerato trizio. 

Il trizio non è altro che un isotopo radioattivo dell’idrogeno. Per spiegare cos’è un isotopo potremmo utilizzare una metafora (un po’ impropria): se l’idrogeno è una specie allora il trizio, assieme al deuterio e al prozio, è una delle sue possibili razze. La differenza fra questi isotopi è il numero di neutroni, e in particolare il trizio ha due neutroni in più rispetto al tipo di idrogeno che comunemente è presente, il prozio. Dei tre il trizio è l’unico radioattivo, ma è un isotopo pericoloso? Analizziamo il problema con un paio di calcoli. 

Il totale di acqua triziata presente nelle cisterne di Fukushima è di circa 20 grammi, diluiti in oltre un milione di metri cubi. [https%3A%2F%2Fwww.meti.go.jp%2Fenglish%2Fearthquake%2Fnuclear%2Fdecommissioning%2Fpdf%2F20160915_01a.pdf&usg=AOvVaw1RZO8o62-YpAipDnXbY52q]. 

Ma è un quantitativo che, seppur piccolo, rappresenta un possibile rischio? Per rispondere dobbiamo ricordare che la radioattività si misura in becquerel (Bq): 1 Bq rappresenta un decadimento radioattivo al secondo. Questo si traduce in una radioattività di circa 700.000 Bq per litro. Ma per capire se effettivamente è pericolosa, dobbiamo cambiare unità di misura e passare al sievert. Il sievert (simbolo Sv) è l’unità di misura internazionale della dose equivalente e dose efficace di radiazione che sono misura degli effetti e del danno provocato dalla radiazione su un organismo.

http://www.nytimes.com

Il fattore di conversione per l’acqua triziata da Bq a Sv è di 0,000018 mSv/kBq (https://www.radioactivity.eu.com/site/pages/Dose_Factors.htm): grazie ad esso possiamo calcolare la dose equivalente, che è approssimativamente 0,0126 mSv (o 12,6 micro-Sv) per litro.

Ne consegue che bere un litro di quell’acqua comporterebbe un quantitativo di radiazioni pari alla metà di quella dovuta ad una radiografia toracica (0,020 mSv).

Inoltre, nonostante la bassa radioattività, lo sversamento avverrà in un arco di tempo di diversi decenni, per dar tempo alle correnti di disperdere la radioattività e per dare al trizio il tempo di decadere. Il trizio ha un tempo di dimezzamento di circa 12 anni, cioè la sua concentrazione si dimezza nel corso di tale intervallo di tempo. Se parto da un certo quantitativo di trizio, dopo 12 sarà dimezzato, dopo 24 anni ridotto di un quarto e così via. 

Perché il Giappone ha scelto di versare l’acqua in mare? Non c’erano altre alternative?

Fra le altre opzioni che sono state vagliate, ci sono state quella di lasciar evaporare l’acqua e quella di continuare ad accumularla, eventualmente congelandola, fino a quando non si troverà un trattamento in grado di rimuovere il trizio.

Sono vari i motivi che  rendono queste due idee alternative poco probabili, ma il principale è che lo stoccaggio, per un tempo indefinito, di grossi quantitativi di acqua contaminata,  rappresenta un rischio in un paese soggetto spesso a terremoti come il Giappone. Un terremoto potrebbe causare il rilascio incontrollato di acqua contaminata, un’alternativa meno sicura rispetto al suo rilascio graduale.

http://www.aljazeera.com

In conclusione, l’acqua di Fukushima non rappresenta un rischio né per l’ambiente né per la salute della popolazione. Quello che i pescatori hanno lamentato non è un un possibile danno ecologico, ma d’immagine, dovuto ai pregiudizi legati all’energia nucleare che è conseguenza di un’informazione scientifica che non ha fatto capire l’importanza di questa fonte energetica: senza energia nucleare sarà impossibile eliminare l’utilizzo di combustibili fossili, dati i limiti tecnologici delle fonti rinnovabili.

Lorenzo Niccoli