L’arte che dà voce all’Afghanistan

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In Afghanistan molti artisti stanno nascondendo il loro lavoro e chiudendo i loro studi per paura di essere presi di mira dalle autorità.

L’arte e gli artisti del paese sono messi a dura prova dai talebani, i quali non perdono occasione nel tentativo di eliminare la storia e l’arte afgana. 

In quest’ottica i talebani hanno cancellato il murale più iconico di tutta Kabul imbiancandolo. L’opera ritraeva Zalmay Khalilzad, inviato speciale di Trump, mentre porgeva la mano al mullah Abdul Ghani Baradar. 

Graffito che era divenuto simbolo e testimonianza degli accordi di Doha del febbraio 2020, e sanciva la fine al conflitto armato in Afghanistan del 2001. A sua volta la scelta e l’atto di imbiancare il muro da parte dei talebani diviene ricordo del totale ritiro delle forze armate statunitensi dal paese.

A rendere noto l’accaduto è Omaid H. Sharifi, che ha lasciato l’Afghanistan con la sua famiglia nei mesi scorsi, ed è il fondatore del collettivo ArtLords, che ha ideato e dipinto l’opera. 

“Hanno cominciato. I talebani hanno cominciato a dipingere sopra i nostri murales. Hanno cominciato con quello storico che ha segnato la firma degli accordi di Doha. Il murale Baradar Khalilzad non c’è più. Al suo posto una scritta in bianco e nero che dice ‘Non ti fidare della propaganda del nemico’, una citazione del mullah Haibatullah”. Così l’artista descrive al pubblico di twitter l’evento doloroso, accompagnato dalla foto del murale prima e dopo l’irruzione dei talebani nel paese. 

Se si parla di street art non si può non citare Shamsia Hassani, prima donna afgana a cimentarsi in questa tecnica artistica. I suoi murales portano speranza, coraggio e cruda verità per le strade di Kabul, e non solo. Infatti i suoi graffiti ispirano migliaia di donne tutti i giorni sui muri dell’Afghanistan, Stati Uniti, Italia, Germania, India, Vietnam, Norvegia, Danimarca, Svizzera ecc…

Shamsia utilizza le pareti di edifici danneggiatio o distrutti da bombardamenti come tele per le sue opere, dove le donne afgane ottengono il volto che si sono guadagnate lottando. Sono donne orgogliose, forti, coraggiose, libere di muoversi nello spazio e capaci di apportare cambiamenti positivi alla società con la loro bontà. Su di esse non mancano i segni della società patriarcale; non hanno la bocca perché molte volte devono tacere, e hanno gli occhi chiusi per non vedere la morte e la brutalità che le circonda.  

Ali Subotnick, curatore dell’Hammer Museum di Los Angeles, ha affermato nel 2015 al Los Angeles Time: “È incredibilmente stimolante il fatto che sia una donna che va in strada a dipingere, dove è pericoloso camminare da sola all’aperto a Kabul, è così fiera, indipendente e forte. Sta dando voce alle donne in Afghanistan”.

Shamsia Hassani ci insegna una cosa molto importante che: “L’arte cambia la mente delle persone e le persone cambiano il mondo”

Anche la città di Firenze è onorata di custodire la poetica dell’artista afgana. Sto parlando del murale che copre una parte del muro esterno dell’Istituto Tecnico Leonardo Da Vinci, in via del Terzolle. Concepito quattro anni fa dalla coraggiosa artista, mentre era ospite del comune di Firenze e della Biennale di Arte Contemporanea, in occasione della Giornata Europea della Giustizia.

Nel murale vediamo sullo sfondo il profilo della città di Firenze, mentre in primo piano campeggia l’immagine di una donna afgana il cui vestito raffigura alcune delle strade di Kabul. Anche qui il volto non ha la bocca, perché le donne afgane non hanno la libertà di parola, e ha gli occhi chiusi per evitare di vedere il dolore che affligge il suo paese. Infine è colta nel momento in cui congiunge due dita della mano, omaggio a Michelangelo Buonarroti e al suo celebre affresco Creazione di Adamo, nel controsoffitto della Cappella Sistina.    

L’Afghanistan è da tempo bacino di ispirazione e sperimentazione degli artisti, anche italiani. Alighiero Boetti si recò a Kabul negli anni 50 del 900’ rimanendovi innamorato, pathos che testimonia in un famoso ciclo di opere Mappe, divenute icone del suo modo di operare e di pensare. Per realizzare le sue Mappe – oltre 150 in un ventennio –   si ispirò ai tappeti afgani e agli stessi artigiani locali. Gli arazzi nelle mani dell’artista torinese divengono planisferi politici, che mostrano i cambiamenti globali agli occhi dell’osservatore.

Questa mappa è incorniciata con la frase ALIGHIERO E BOETTI A KABUL AFGHANISTAN NELL’ANNO MILLENOVECENTOOTTANTA’, proprio da quell’anno, il 1980, l’ingresso nel paese è vietato.

“Il lavoro della mappa ricamata è per me il massimo della bellezza. Per quel lavoro io non ho fatto niente, non ho scelto niente, nel senso che il mondo è fatto com’è e non l’ho disegnato io, le bandiere sono quelle che sono e non le ho disegnate io, insomma non ho fatto niente assolutamente: quando emerge l’idea di base, il concetto, tutto il resto non è da scegliere”, afferma l’artista.

Non solo artisti come Carla Dazzi e Carlo Carli operano in Afghanistan divenendo interpreti e diffusori della sua storia, ma le stesse città sul territorio italiano programmano eventi sociali di riflessione sul tema attuale.

A Firenze si è appena chiuso il Middle East Now, festival cinematografico, che quest’anno ha avuto un focus proprio sull’Afghanistan. Fondato nel 2010, ha l’obiettivo di mostrare ai visitatori il cinema, l’arte e la cultura del Medio Oriente in tutte le sue sfaccettature. 

Dal 28 settembre al 3 ottobre si è svolta la proiezione presso il Cinema La Compagnia e il Cinema Stensen di innumerevoli film, cortometraggi e anteprime ad opera di registi internazionali e soprattutto afgani.

Dunque, Firenze si è resa palcoscenico di storie orientali che si sono susseguite e richiamate nelle sale dei cinema arrivando fino ai nostri cuori, portandoci alla commozione.

Un esempio A JOURNEY INTO ZERO SPACE film di Dawood Hilmandi, giovane talento afgano, che è stato proiettato nelle sale del Cinema La Compagnia. Il Film è un trittico, così definito perché è il montaggio di tre cortometraggi che il regista ha selezionato dagli archivi del passato, allo scopo di far riflettere su di essi e sull’attualità. E’ un lavoro cinematografico che mette in discussione le nozioni di casa, storia, autorità e immaginazione. Prima della proiezione del film, Hilmandi ha parlato telematicamente agli spettatori presenti in sala da Qom, in Iran. Ha affermato quanto per lui sia importante diffondere un’autocoscienza e un apprendimento individuale, al fine di concretizzare una coscienza collettiva. Inoltre, definisce il suo film una lettera d’amore verso tutti, aggiungendo per ultimo che non importa l’entità del danno, ma che è importante continuare a fare film, scrivere, raccontare affinché tutto ciò non venga dimenticato.

Questa presa di coscienza e di riflessione in occasione del Middle East Now non termina qui, perché presso il MAD (Murate Art District) di Firenze si tiene la mostra fotografica del giovane Tabit Rida, fino al 20 novembre. Fotografo autodidatta, che scende in strada con la macchina fotografica, avendo l’obiettivo di testimoniare i profondi cambiamenti e la realtà, spesso trascurata, della sua città natale, Marrakech . 

Per Rida, la fotografia è un mezzo finalizzato a una migliore conoscenza del mondo, delle persone e di sé stesso. In questa mostra Marrakech- In times of stillness, ci porta mano nella mano nelle strade marocchine, narrandoci che il tempo non si è davvero fermato con la pandemia e che l’uomo è atto alla resistenza per natura. 

Beatrice Carrara

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