Saragat, l’unità nazionale

Tempo di lettura: 2 minuti.

In tempi di elezioni del Quirinale non potevo far altro che approfondire un episodio del passato emblematico su ciò che rappresenta e dovrebbe rappresentare il Presidente della Repubblica.

Come recita la prima parte del primo comma dell’articolo 87 della costituzione italiana: “ Il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale”.

Da ciò evinciamo chiaramente qual è lo scopo principale della prima carica dello stato: promuovere coesione e l’unità nazionale.

Elemento, quest’ultimo, tutt’altro che scontato in uno stato di recente creazione e scarsa coscienza nazionale come l’Italia.

Un paese, quello dello stivale, così poco patriottico necessita chiaramente di un ruolo che, per assurdo, sia volto a garantire la sopravvivenza stessa della nazione.

Colui o colei (anche se per adesso il glass ceiling di una donna presidente non si è ancora “rotto”) preposto a questo incarico “unionista” è appunto il Presidente della Repubblica.

Effettivamente può sembrare, messa così, mera retorica. Quindi per dare un’immagine maggiormente calzante vorrei citarvi un evento drammatico in cui veramente il PdR ha rappresentato l’Italia tutta nella sua interezza.  L’occhio cade inevitabilmente sulla nostra Firenze, in particolare a quei giorni dal 3 al 6 novembre del 1966, l’alluvione magistralmente raccontata da Luciano Bausi nel libro Il giorno della piena  .

L’evento fu traumatico non solo per la città toscana e i suoi dintorni ma per tutta Italia. L’esondazione dell’Arno provocò infatti ben 35 morti e danni ingenti al patrimonio artistico cittadino (i magazzini della Biblioteca Nazionale allagati, il Crocifisso di Cimabue,…) .

Firenze, disastrata, vide l’arrivo dell’allora Presidente Giuseppe Saragat, già segretario del partito socialdemocratico (PSDI), ministro degli affari esteri e Presidente dell’Assemblea Costituente fino al febbraio 1947.

In carica dal 1964, Saragat arrivò ,come riporta la stessa Biblioteca Nazionale, addirittura prima dei soccorsi a bordo di un fuoristrada. Non mancarono certo le contestazioni ma il suo arrivo rese l’idea a milioni di italiani di ciò che stava accadendo a Firenze e dell’enorme e disperato bisogno di aiuto che necessitava. Aiuto poi ampiamente ottenuto e chissà, forse anche per merito di un Presidente molto propenso anche in altri disastri a muoversi in prima persona (Belice, Vajont).

In momenti così difficili della storia nazionale la figura del capo dello Stato esce dalla sua immagine ovattata e lontana dal Paese reale. Il PdR scende direttamente sul campo e in quell’istante cessa di essere soltanto il Presidente della Repubblica italiana, diventando la Repubblica italiana stessa. Attorno a lui si ripongono speranze, frustrazioni, gioie e dolori di tutto un popolo. 

La prima carica dello stato formalmente è dunque solo simbolica (non mancano però le eccezioni di presidenti con purtroppo derive presidenzialiste) . Ma quel simbolo per un’Italia quanto mai dimentica di un passato comune, pessimista totale e inconsolabile verso il futuro, è oggi come ieri e domani quanto mai necessario.

Andrea Manetti

Pubblicità

Chi opera in politica estera?

Chi opera in politica estera?

Tempo di lettura: 6 minuti.

La domanda potrebbe apparire futile e dalla rapida soluzione, nel sistema istituzionale italiano la politica estera è affidata all’esecutivo ed in particolare al ministero degli Esteri in sede alla Farnesina.

La Farnesina attraverso il suo personale amministrativo altamente qualificato e la ramificazione di ambasciate e sedi consolari in altri stati esercita la linea politica del governo, incarnata nella figura del Ministro degli Affari Esteri. Tale carica nel corso dell’esperienza Repubblicana in Italia è quasi sempre apparsa come uno degli scranni più ambiti e molto spesso come la consacrazione di un esponente di un determinato partito politico o in casi particolari di un eminente figura tecnica. 

La politica estera italiana persegue anche due principali direttive dall’istituzione della repubblica in poi, ed in particolare dal dopoguerra come risultato della stagione delle grandi scelte: 

  • Atlantismo;
  • Europeismo.

Ma nel corso dell’esperienza democratica del Belpaese vi sono state altre figure all’infuori del ministero degli esteri che hanno svolto o tentato di svolgere istanze di politica estera in nome di un nuovo interesse nazionale?

Il neoatlantismo

Termine coniato dal democristiano Giuseppe Pella nel 1957, tende ad identificare la corrente di politica estera italiana tra il 1957 ed il 1958; all’indomani della crisi del Canale di Suez e della prima distensione tra Stati Uniti ed Unione Sovietica la politica italiana sembrò imporsi con nuovo slancio con istanze volte a recuperare un ruolo di media potenza tra il mediterraneo ed il Medio Oriente. 

La nuova direzione non si discostava dalle due direttive cardini dell’atlantismo e dell’europeismo ma cercava spazi di manovra nei vuoti lasciati da esse, la vocazione anticoloniale italiana permetteva quindi al paese di allacciare contatti con la corrente terzomondista emersa dalla Conferenza di Bandung.

Non pochi saranno gli screzi interni ed internazionali in questo periodo, anche a livello istituzionale con il sopravvento di quattro figure estremamente dinamiche: 

  • Amintore Fanfani, segretario della DC, quattro volte Presidente del Consiglio ed altrettante Ministro degli Affari Esteri;
  • Giovanni Gronchi, Presidente della Repubblica dal 1955 al 1962;
  • Giorgio La Pira, sindaco di Firenze;
  • Enrico Mattei, presidente dell’ENI ed esponente dell’ala sinistra della DC.

Il De Gaulle Italiano

Amintore Fanfani nel corso della sua carriera politica sarà una delle figure cardine della lenta transizione verso il progetto di un governo di centro sinistra organico, costituito da Democrazia Cristiana e Socialisti, ma anche uno dei fautori del Neoatlantismo. Sempre nell’ottica di ribadire l’allineamento italiano in favore del principale alleato Americano Fanfani si mostrerà accondiscendente alla presenza dei missili balistici nucleari su territorio italiano in funzione antisovietica; missili che con la loro rimozione a seguito della crisi di Cuba porteranno ad un netto declassamento del ruolo strategico italiano. Fautore tra i primi di un non definito progetto di Piano Marshall nel Medio Oriente favorirà una politica filoaraba italiana, discostata da quella marcatamente coloniale e clientelare di Francia e Gran Bretagna.

Il così detto monarca della DC assumerà su di sé sia la carica di presidente del consiglio che di ministro degli esteri, portando ad un rivoluzione dell’organino del ministero ai tempi (e fino al 1959) in sede a Palazzo Chigi. La sua figura sarà rapidamente soppiantata nella legislatura successiva da un giovane e rampante Aldo Moro. L’abitudine di assumere su di sé entrambe le cariche istituzionali forse faceva eco ad uno dei padri fondatori e fautore del centrismo, Alcide De Gasperi.

Il presidente pacifista

La figura di Gronchi ebbe un grande impatto sia interno che estero nello scacchiere italiano, il presidente prima di essere eletto non aveva mai nascosto la sua disapprovazione per la scelta atlantica operata da De Gasperi e Sforza di entrare a far parte della NATO.

Obiettivo di Gronchi, infatti era un utopico riallineamento dell’Italia in una posizione equidistante tra le potenze, sfruttando in modo eccessivamente esteso lo spirito di collaborazione economica e politica espresso nel Trattato Nord Atlantico all’art 2 (interpretazione mai gradita dagli americani) in un’ottica di smilitarizzazione dell’Europa.

Gronchi si mosse attivamente in politica estera in due principali istanze:

  • Nel marzo del 1957 a seguito di un incontro al Quirinale con l’allora vicepresidente USA Nixon, Gronchi si mobilita nello scrivere una lettera diretta al presidente Eisenhower in cui propone consultazioni speciali tra i due paesi su tematiche di Medio Oriente e mediterraneo. Tale lettera non giungerà mai dato che verrà prontamente bloccata dal ministro degli affari esteri Martino in accordo con il presidente del consiglio Segni, vi seguirà un braccio di ferro istituzionale vinto dall’esecutivo che ribadirà l’impossibilità per il presidente della repubblica di operare una propria politica estera scissa da quella del governo.
  • Nel 1960 con una missione diplomatica Mosca che pur nell’ottica della prima distensione sarà da molti percepita come una possibile pericolosa svolta dell’Italia, il viaggio si concretizzerà in un fallimento con la reazione eccessiva di Kruscev che ridicolizzerà il peso italiano nello scacchiere internazionale, l’eco di questo viaggio porterà ad una crisi dell’allora governo Segni.

Il sindaco terzomondista

Giorgio La Pira, eminente figura della DC, fervente cattolico e legato agli altri quattro individui da uno stretto rapporto di amicizia e stima reciproca. Il sindaco di Firenze più volte si adopererà in progetti ad ampio respiro in ambito di politica estera, molto spesso così ambiziosi da avere effetti sullo scacchiere internazionale. Tra i vari possiamo qui ricordare una conferenza internazionale per i sindaci di vari paesi a quali figuravano il sindaco di Mosca, esponenti del movimento di Liberazione Algerino e altri esponenti della corrente terzomondista presenti alla precedente Conferenza di Bandung.

Sicuramente però l’istanza che ebbe il maggiore eco mediatico fu quella relativa alla mediazione instaurata con il leader nordvietnamita Ho Chi Min, operata nel solco lasciato dalle speranze di riconciliazione mosse da papa Paolo VI. La mediazione volta a porre una fine al sanguinoso conflitto in Vietnam se pur partita su ottime basi (molti dei punti concordati da La Pira saranno poi parte dell’effettivo tratta di Pace con gli USA) naufragherà a causa di un’intervista rilasciata dallo stesso La Pira al giornale “Il Borghese” nelle quali egli esternava un sentimento marcatamente antiamericano coinvolgendo anche Fanfani, allora ministro degli esteri e segretario dell’assemblea generale dell’ONU.

Il petroliere senza petrolio

La figura di Mattei ha certamente bisogno di poche presentazioni rappresentando uno dei migliori esempi imprenditoriali della storia primorepubblicana, con il suo cane a sei zampe si mosse molto alla ricerca di nuovi approvvigionamenti energetici per l’Italia intrattenendo spesso accordi con paesi non squisitamente allineati sullo scacchiere bipolare.

Nonostante i vari aloni manichei attorno alla sua figura appare come innegabile l’operato dell’ENI in quegli anni fosse in linea con una nuova intesa della linea neoatlantica in aree mediterranee e medio-orientali.

Memorandum ad ampio spettro

Sarebbe però un errore considerare come valide spinte solo quelle derivanti da queste eccezioni istituzionali, molto spesso nella storia Italiana le scelte cardine della politica estera sono state intraprese da eminenti figure dell’apparato diplomatico, possiamo qui citare ad esempio l’ambasciatore Tarchiani a Washington vero fautore dell’adesione al Patto Atlantico, dalla cui stesura l’Italia era stata esclusa. Sarà Alberto Tarchiani operando nell’ampia libertà concessagli da Sforza ad intercedere con la presidenza Truman per far accedere l’Italia al patto. Oppure pensiamo a Manlio Brosio, ambasciatore a Londra capace di concludere un annoso memorandum che siglava la conclusione della ferita aperta concernente lo status di Trieste (contesta tra Italia e Jugoslavia). 

Conclusione

Per concludere la travagliata trattazione possiamo riferirci a come nonostante i diversi interpreti la politica estera italiana vive sviluppi episodici molto spesso condizionati dall’ambito internazionale e troppo spesso legati a ragionamenti di rango e non di ruolo dovuti a quella che appare come un’atavica difficoltà nel definire un chiaro interesse geografico o nazionale.

Angelo Doria

La monumentomania

Tempo di lettura: 60 secondi.

La politica da sempre tenta di essere onnipresente nella vita di ciascuno di noi, che sia per il consenso,l’obbedienza o anche la mera notorietà di un singolo.

Dall’educazione ai media, ogni contesto e strumento è buono per propaganda favorevole o contraria ad un politico, autoritario o democratico che sia.

Detto questo proviamo ad immaginarci i luoghi in cui trascorriamo gran parte del nostro tempo.  Posti apparentemente anonimi,come vie,piazze o generalmente edifici. Dove passiamo casualmente senza pensare che lì si è consumata, affinché quella via o parco abbia quel preciso nome, una vera e propria battaglia politica.

Insomma, tutto ciò che anima l’identità di una città o di un paese viene o può essere plasmato dai politici. 

Toponomastica e odonomastica,ovvero il dare nomi agli spazi urbani, non sono quindi solo pratiche onorifiche ma veri e propri messaggi propagandistici alla cittadinanza da parte della giunta comunale  comunale del momento verso una precisa ideologia o un preciso precetto.

Una città quindi può dirci mediante i luoghi che esprime quale maggioranza politica vi sia al momento.

Pensiamo per esempio a Firenze , quando passiamo per Via Vittorio Emanuele II o per il liceo Antonio Gramsci.. 

Ogni città è dunque intrisa nella politica fin dalle sue fondamenta.. e chissà forse leggendo queste poche righe potreste iniziare a vedere le vostre città con altri occhi!

Andrea Manetti

Giovanni Spadolini: un fiorentino

Tempo di lettura: 3 minuti.

Il giornalismo vieta a Spadolini di perder di vista la storia, la cronaca, e di fornicare soltanto coi morti. A Roma è popolarissimo specialmente fra i portieri e i bidelli dei ministeri che frequenta. Essi non sanno chi sia quel signore giovane, ma già imponente e autorevole, con cui De Gasperi suole intrattenersi in lunghi e cordiali colloqui; ma fiutano in lui, nella sua borsa di cuoio gonfia di misteriosi documenti, nel suo grave portamento, nella sua composta discrezione, nella stessa foggia dei suoi abiti ispirata più a decoro che a eleganza, l’erede naturale, anche se tutt’ora acerbo d’anni, di quei Servitori della Cosa Pubblica di cui, con Giolitti, s’è perso il seme”  così uno dei più grandi giornalisti italiani del Novecento, I. Montanelli nel 1952 diceva dell’amico Giovanni Spadolini.   Amicizia e stima che i due avranno reciprocamente per tutta la vita.

Spadolini nacque a Firenze il 21 giugno del 1925. Frequenta la scuola elementare degli Scolopi in via Cavour nella quale subito si distinse per la scrittura in quarta elementare del suo primo libro che raccontava la storia d’Italia da Barbarossa a Mussolini.

Di quell’anno scolastico grazie alla Fondazione Spadolini Nuova Antologia abbiamo anche la sua pagella tuttavia non molto brillante. 

Frequenta il liceo Galileo sempre in via Cavour, odonomastica che segnala una interessante coincidenza col Risorgimento, passione che lo accompagnerà per tutta la vita rendendolo uno dei suoi massimi esperti.  

Nel periodo liceale scrive e diffonde tra i suoi amici un suo giornale scritto a macchina intitolato Il mio pensiero .

A soli 24 anni diventa collaboratore per Il Mondo di Mario Pannunzio, una delle riviste più anticonformiste del tempo. Nel 1950 cura gli affari interni presso l’appena fondato settimanale Epoca .

Successivamente scrive anche sulla terza pagina, pagina culturale tipica dei giornali italiani novecenteschi, del noto quotidiano romano Il Messaggero diretto da Mario Missiroli.

Come riporta il libro Giovanni Spadolini. Quasi una biografia scritto dal già professore Unifi Cosimo Ceccuti, allievo considerato quasi come un figlio da Spadolini e curato dal docente universitario della Cesare Alfieri Gabriele Paolini Spadolini diventa direttore del Resto del Carlino nel 1955 e lo rimane per ben 13 anni raddoppiandone la tiratura ed estendendone le redazioni locali. Successivamente alla luce degli eccellenti traguardi raggiunti sarà anche direttore del più grande giornale italiano Il Corriere della Sera , incarico che mantiene dal 1968 al 1972. Incarico che lascia su decisione unilaterale della proprietà di via Solferino.

Spadolini tuttavia non era solo un giornalista ma aveva tre anime: quella del giornalista, dello storico e del politico.

Nel 1950 infatti insieme all’attvità giornalistica viene incaricato alla docenza della facoltà di Scienze poltiche di Firenze di Storia contemporanea,materia che contribuisce a creare. 

Spadolini politico

Dopo anni da docente universitario e giornalista molto attento alla politica estera e interna, molto note le sue posizioni di elogio a De Gasperi ritenuto il responsabile del compimento definitivo del risorgimento con l’accettazone definitiva dei cattolici  dello stato laico unitario, i suo editoriali favorevoli all’europeismo, anticomunisti e intuitivi già negli anni sessanta di una crisi sistemica della Prima repubblica, decide anche lui di lanciarsi nell’agone.

Nel 1972 viene eletto senatore come indipendente nelle fila del Partito Repubblicano Italiano  di Ugo La Malfa , dal Professore (così usavano chiamarlo i suoi allievi più cari) da tempo stimato. Rimase senatore fino al 1994  anno della sua morte, eletto sempre però in Lombardia e non nella sua amata Toscana.

Fonda due anni dopo il Ministero dei Beni culturali e ambientali,ancora esistente. Diverrà il primo presidente del Consiglio non democristiano sia per la sua capacità che per un’esigenza nel paese di cambiamento verso l’egemonia della Democrazia Cristiana.  Bisogno popolare che Spadolini intuì già negli anni sessanta al quale seppe dare ottima risposta facendo arrivare il suo PRI a risultati elettorali record nel 1983 con il 5 % dei suffragi. Stessa intuizione che ebbe successivamente B. Craxi e il suo PSI.

Amico di Giovanni Paolo II col quale era accomunato dalla passione per il Risorgimento. Molto legato anche al regista F. Fellini, al quale a lungo propose invano di candidarsi col Partito Repubblicano e liberale per le elezioni europee.

Presidente del Senato e senatore a vita dal 1991 nominato dall’allora Presidente della Repubblica F. Cossiga.

Muore a Roma il 4 agosto  1994.

Andrea Manetti

L’Antologia, primo esempio fiorentino e italiano di giornalismo moderno

Tempo di lettura: 2 minuti.

Le riviste e i giornali iniziarono a fare la loro comparsa nell’Italia preunitaria già ad inizio Ottocento, per non parlare ovviamente delle Gazzette che erano meri bollettini di notizie già in uso nel Cinquecento. Un esempio su tutti fu quello del Conciliatore nato a Milano nel 1818 e subito censurato nel 1819 dall’occupante austriaco per le proprie idee risorgimentali e patriottiche.

Quindi questi periodici si scontravano quotidianamente col rischio di censura. Infatti in un clima repressivo vigente in tutta la penisola gli unici giornali che avevano spazio erano proprio quelli governativi, i quali si occupavano di temi esteri e irrilevanti per la cronaca italiana, fungendo così da arma di distrazione di massa.

In un periodo pertanto non facile per la libera espressione si affermò comunque con molto coraggio l’idea di un commerciante svizzero trasferitosi a Firenze nel 1819: G. P. Viesseux .

L’obiettivo iniziale di Viesseux era quello di portare testate estere a Firenze così da renderle consultabili sia agli stranieri residenti che a chiunque previo pagamento avesse voluto leggerle. Per questo fondò il famoso e ancora oggi attivo Gabinetto Viesseux.

Nel 1821 poi decise di creare una rivista mensile chiamata L’Antologia con sottotitolo “Lettere, scienze e arti” al prezzo di 9 lire toscane.

L’Antologia si ispira a modelli esteri come la britannica Edimburgh Review e inizialmente riporta solo articoli dall’estero traducendoli. Il successo fu immediato, arrivando a vendere anche più di mille copie ad edizione, numero altissimo per l’epoca (le copie però non corrispondono ai reali lettori, infatti una copia acquistata girava tra le mani di molti).

Dopo questi ottimi traguardi il periodico fiorentino passò anche a scrivere articoli originali di proprio pugno. Questi venivano pagati dal direttore, cosa inusuale per i tempi (il giornalismo era una missione più che un lavoro), addirittura venivano retribuiti anche i pezzi che non venivano pubblicati (fatto raro anche oggi), ricevevano dei soldi persino coloro che esplicitamente non volevano alcuna remunerazione perché nobili o benestanti. Il pagamento dei giornalisti rappresenta una innovazione assoluta nel panorama italiano e dell’Europa continentale. Tale beneficio permise a molti intellettuali di formarsi e crescere tra le fila della rivista, su tutti Carlo Cattaneo e Raffaello Lambruschini poi figure di spicco nell’Italia risorgimentale.

Come dovrebbe suggerire il sottotitolo dell’avventura editoriale di Viesseux, gli argomenti trattati erano generalmente attinenti a letteratura, arte e scienza. Tuttavia spesso la rivista celava messaggi politici nascosti (per aggirare la censura) soprattutto a tema risorgimentale. Per esempio moltissimi articoli recensivano opere letterarie o artistiche ma in realtà erano il pretesto per parlare del popolo italiano elogiandolo e incoraggiandolo a rivoltarsi contro gli occupanti stranieri.

Nel 1832 però il progetto avviato 11 anni prima da Viesseux, vera e propria avanguardia politica e giornalistica, venne fatto chiudere dal Granducato di Toscana in seguito a delle pressioni dell’ambasciatore austriaco sul granduca Leopoldo II dovute ad un attacco dell’Antologia contro l’occupazione austriaca del lombardo-veneto.

Viesseux dopo la chiusura si dedicò sempre all’editoria ma fondando e dirigendo giornali meno politici come il Giornale agrario toscano e il tuttora esistente Archivio storico italiano.

Nel 1866, a cinque anni dall’Unità d’Italia rinacque, per volontà di Francesco Protonotari La nuova antologia ancora esistente che ha come modello quella di Viesseux.

Andrea Manetti

La Peste ou le covid

Tempo di lettura: 3 minuti.

La literature est par longtemps florissant de point de réflection sur la réalité socio-politique, soit qu’elle l’anticipe soit qu’elle la représente. Dans cette optique on ne peut s’étonner que une de meilleure fresque de la crise pandemique de coronavirus nous arrive de stylo de Albert Camus, à travers son roman “La peste” publié en 1947.

L’étranger en exile

L’auteur éclectique fils de pieds-noirs algerien, à travers le thème de l’exile, désigne le scénario de une ville inconnue de l’Algerie française dans une période non précisée des années ’40, Oran. Une ville qui s’occupe exclusivement de commerces et vices, où manquent  solidarité humaine et compassion.

Le roman décrit comment dans ces journées la ville est prise d’un Mal auparavant en sommeil, une epidemie de peste. La maladie et le consecutif isolement de la quarantaine sont le fond de l’oeuvre, où se developpent vicissitudes humaine et interpesonelle des citoyens, le peuple réppresenté comme une seul corps.

Ne pas etre un heros, mais un homme

L’oeuvre tourne autour de la figure centrale du Dr. Rieux, médécine de la petit Oran, le premier a découvrir les symptomes de la maladie. Initialement pas ecouté, il sera une des personne qui aura l’audace d’affronter une situation à la qu’elle il ne s’était pas préparé. L’absurde et la soufrance devient les thèmes principuax nu roman, qui casse le norme sociale; les rapports affectifs se detruisent, se déchirent, pendant que le nombre de mort augmente.

Rieux parfois résolu, parfois impuissant, est la voix qui nous accompagne dans le voyage à travers les pages du roman et ces interminable agonies. Le même personnage apparaît comme référence et la personification du même Camus. Religioux et athés mettent discussion leurs certitudes, l’administration et les institution vacillent sous le poids de la crescente histerie. L’espoir semble tomber.

Le Mal ou le microbe?

La peste a une composante allegorique, ce cadre historique temporel et le déchirement du tissu sociale sont tous référence flagrantes de la diffusion du morbo nazi-fasciste dans le cour de la Deuxième Guerre Mondiale. Le Mal qui serpente l’homme assume un sense presque métaphorique, apparaissant soit comme un coup de l’homme soit comme une partie intrinsèque et incontournable.

On s’eloignant de la pensé de l’auteur, le microbe nous apparait extremement familier, un signe quasi premonitoire de la situation actuelle.

Traité par la professeure Ilaria Gensini, la cruel realité de Oran est une reflet du mond dans la pandemie de Coronavirus. Cette pandemie rapporte à le lecteur les horreurs aux quels doit fair face le Dr Rieux, mais sourtout la condition humaine de profonde incertitude due à l’absurd et l’impreparation qui nous a touché avec l’arrivé du virus. Un Mal qui a mis et met jusqu’à present a dure épreuve notre tissu sociale, nos relations.

Un de passage crucial du roman, est la mort du jeune fils du juge Othon suivie aux vains efforts de Rieux, rappellé aux lecteur les atrocites du notre temps. Mais comme dans le roman e comme dans la lutte contre le nazisme la resistence sembre etrê victorieuse, ou ici samble etrê.

La solidarité

“La maladie sembla partir comme elle était venue”

La conclusion de l’oeuvre figure plus comme une mise en guarde au lecteur que une victoure sur la maladie, le Mal n’est pas terrassé, mais puor reprendre les paroles du meilleur amì de Rieux, Tarrou: “Chacun la porte en soi, la peste, parce que personne, non, personne au monde n’en est indemne… Ce qui est naturel, c’est le microbe”. Le microbe n’est pas vaincu, il constitue le Mal inhérent dans chaque etrê humaine, mais conduit a une reflectione profonde des personnages.

Le même Riuex se fait porte parole d’un ideale nouveau, basé sur la solidarité et sur la collaboration entre les hommes. Les petits moment de paix savourés par lui e Tarrou dans le pir moment de crise deviennent ainsi un symbole d’espoir retrouvé, pour se rappeller la raison puor la quelle combat. 

Une leçon que nous pouvons certenement applique a notre situation, avec les reflections faites. 

Serions nuos capable d’etrê le nouveau Rieux?

Je n’ai pas de goût, je crois, pour l’héroïsme la sainteté. Ce qui m’intéresse, c’est d’être un homme”.

Angelo Doria 

Un ringraziamento particolare per la collaborazione a Sylvie Dorcas Ndifo Ngoa

PARTITO GIOVANILE LIBERALE

Tempo di lettura: 2 minuti.

I liberali dell’Italia prima del fascismo erano notabili che non si interessavano molto delle elezioni e di come prendere voti. Per questo infatti con le progressive estensioni del suffragio elettorale (leggi importanti sono quelle del 1882,del 1891 e del 1912) e quindi con la necessità di fare propaganda attiva e “sporcarsi le mani” nel tentativo di prendere più voti possibile tra le classi popolari, i liberali progressivamente perdono centralità nello scacchiere politico. Ritrovandosi nel 1946 da “partito” di maggioranza prima del regime di Mussolini a un risultato di poco superiore al 6 %.

La necessità di strutturarsi e farsi partito di massa era stata trascurata da quasi tutti i liberali in quegli anni, anche dai più lungimiranti come G. Giolitti.

Qualcuno però già aveva colto questa tendenza di sostituzione della classe politica: Giovanni Borelli.

Borelli nasce nel 1867 nel modenese, nel 1896 dopo varie esperienze giornalistiche approda al Corriere della Sera.  Si interessa subito di politica fondando una rivista teorico-culturale chiamata L’Idea Liberale .

Nel 1898 si assiste alla “crisi di fine secolo” ovvero moti di insurrezione in tutta la penisola contro l’incapacità dei liberali di rispondere alle esigenze di classi sociali svantaggiate. Borelli vedendo quanto accade e la risposta  solo repressiva adottata dal governo liberale allora in carica (gov. Pelloux) si allontana dal mondo liberal-moderato perdendo il posto anche al Corriere in quel tempo filogovernativo. 

Alla radice di questo allontanamento vi è un’esigenza che il giovane giornalista sente impellente: rinnovare il mondo liberale,dotandolo di strutture simili a quelle dei partiti di massa che stavano minacciando l’ordine costituito (all’epoca principalmente il Partito Socialista, nato a livello nazionale nel 1892 e quello Repubblicano nato nel 1895).

 Borelli inizia la sua attività politica proprio così,da outsider sia del mondo liberale classico che del mondo socialista. L’obiettivo che si prefigura è creare un partito liberale al passo coi tempi,mantenendo i valori di fondo liberali per proiettarli nel futuro dinamicamente, ma per farlo ha bisogno di militanti e di associazioni che incidano sul territorio.

Avvia così accordi con varie associazioni giovanili liberali come p. es. l’Associazione Liberale Monarchica fra i Giovani di Firenze .

Grazie alla propria rivista L’Idea liberale che diventa organo politico di propaganda e alle idee innovatrici molto condivise dai giovani, nel 1899 si costituisce il primo comitato esecutivo di tutte le Associazioni liberali aderenti con lo scopo di redigere un manifesto politico.

Manifesto che prevedeva la necessità di conservare le istituzioni liberali (Monarchia,Statuto Albertino,ecc) ma di rinnovarsi da un punto di vista partitico e sociale (riforme sociali per i meno abbienti).

Creare un partito coerente e disciplinato che aggreghi la borghesia in opposizione a papisti che minacciavano le libertà politiche e a socialisti contro le libertà economiche.

Questa svolta dei giovani fu subito osteggiata dal vecchio mondo liberale. Il giornale dei liberali toscani La Nazione definì questi giovani liberali “ambizioselli precoci” che porteranno solo “scissure in seno al partito”.

Nel 1901 nonostante le critiche e gli attacchi il Partito Giovanile Liberale tiene il suo primo congresso a Firenze

Il programma del partito si esprimeva su vari punti di attualità: 

    -intransigenza programmatica contrapposta all’individualità liberale (partito vs notabilato)

    -attivismo dal basso (creare una “democrazia d’azione”)

    -superare il sistema elettorale maggioritario (collegi uninominali) adottando il proporzionale

    -partecipare a comizi,educare le masse lavoratrici e fondare periodici e giornali di partito

Al primo congresso aderiscono circa 110 associazioni principalmente del centro-nord:  48 al centro di cui ben 14 a Firenze,numero più alto di aderenti che la renderanno la roccaforte del Partito. Solo 5 associazioni al Sud.

Fallimento del progetto

Il progetto di Borelli tuttavia non decolla non solo per la sua inconsistenza al Sud. I principali giornali liberali infatti ignorano in un  primo momento questo partito,tranne come già detto quelli toscani che lo attaccano,dato il maggior peso politico del partito su Firenze. Poi lo attaccheranno anche gli altri giornali nazionali quando alle suppletive di Milano del 1902 Borelli candidandosi in un collegio molto conteso tra liberali e socialisti spacca l’elettorato facendo vincere Turati,leader socialista che entra così in Parlamento.

Emarginato dal mondo liberale e dalla stampa che lo accusa di favorire “i rossi”,anche la massoneria si schiererà contro il nuovo progetto ritenendosi attaccata da Borelli che più di una volta l’aveva definita clientelare e pericolosa. 

Anche l’ipotesi di alleanza con i radicali salta dopo che Borelli li aveva definiti notabilari.

Nelle varie tornate elettorali il Partito Giovanile Liberale non elegge mai nessun deputato .

Neanche a Firenze Borelli riesce a farsi eleggere alle suppletive del 1901, Tuttavia in quest’occasione si distingue per enorme qualità dialettica all’interno del partito Aldemiro Campodonico,poi esponenete storico del nazionalismo toscano, che lo stesso d’Annunzio nota con piacere. Il Vate definirà i “i borelliani” come Vagellanti ,crasi tra flagellanti (ritenuti così dal poeta perché visti come fustigatori del vecchio mondo liberale) e Via dei Vagellai nel centro storico fiorentino (tra via De’Benci e Piazza Mentana) in cui era ubicata la sede del partito. 

Col passare del tempo il Partito perde gradualmente forza e vigore,frammentandosi e gradualmente tornando nelle fila del vecchio mondo liberale. 

Dopo la disfatta alle politiche del 1913,nel 1914 il partito si scioglie definitivamente.

Così nonostante fosse anticipatore dei tempi,innovatore e pieno di giovani ambiziosi e intellettuali non decolla e fallisce miseramente il progetto di rinnovamento anche storico che si era prefissato. La notorietà data  loro da d’Annunzio non è che una magra consolazione.

Andrea Manetti

WILLY BRANDT, IL SIMBOLISMO NELLA OSTPOLITIK

Tempo di lettura: 4 minuti.

Uno dei luoghi comuni sulla politica è quello di fermarsi solo a delle vuote affermazioni senza giungere ai fatti, una visione pragmatica del mondo a volte anche cinica che tenta di risolvere tutto nel suo outcome.

Ma allora che peso ha il simbolismo nella politica, è possibile considerare un singolo discorso, una frase o persino un gesto come veri catalizzatori di un cambiamento prima impensabile?

La storia del Novecento sembra inclinare con preponderanza verso un secco e sonoro sì, il discorso di John Fitzegarld Kennedy a Berlino ne è un’esemplare rappresentazione: “Ich bin ein Berliner”; quattro semplici parole pronunciate il 26 giugno del 1963, figlie forse non solo della divisione bipolare caratterizzante della Guerra Fredda.

DUE NAZIONI PER UN POPOLO?

Parlando di simboli appare impossibile non fare riferimento alla Germania quando si parla di Guerra Fredda, la famosa Iron Curtain a cui faceva riferimento Churchill calava proprio a dividere in due il paese in due distinte nazioni nelle due sfere di influenza delle superpotenze dominanti, la Deutsche Demokratische Republik ad Est e la Bundesrepublik Deutschland ad Ovest. La divisione era una ferita aperta e lacerante nella cultura non solo Tedesca ma anche Europea, però offriva stabilità all’intera regione segnando tra le altre cose le brillanti carriere di politici social democratici dell’ovest come Konrad Adenauer.

Due entità così distanti tra loro, da una parte la Repubblica Federale votata al processo della nascente Comunità Europea dall’altra la DDR parte integrante del blocco di Varsavia, due sistemi così opposti le cui differenze però non sembravano poter annullare il progetto di una futura possibile riunificazione.

DETENTE ED OSTPOLITIK

Gli anni ’60 segnano l’ingresso in un’era travagliata tra le potenze coinvolte, le crisi della primavera di Praga del 1968 segnavano delle crepe nel “compatto” blocco orientale, e Unione Sovietica e Stati Uniti avviavano una prima politica di distensione con degli obiettivi da raggiungere comuni. 

All’interno del corso The Trasformation of Europe in the Long 20th Century tenuto dal professor Patrick Ossian Cohrs, attraverso l’analisi diretta di autori quali Dinan, Hanimaki e soprattutto grazie a fonti dirette dei personaggi coinvolti ci è stata offerta l’opportunità di approfondire il processo di Détente nell’Europa divisa tra i due blocchi.

Nello stesso decennio figure come quelle di De Gaulle e Ceaușescu sembravano sfidare i rispettivi schieramenti aprendo linee di dialogo con il “nemico”, in nome degli interessi nazionali e senza rischiare la rottura con i propri alleati.

Questo spirito di apertura si può evincere anche dall’Harmel Report (1967) della NATO, il quale oltre alla ribadita enfasi sulla preparazione militare suggeriva anche la possibilità di aprire negoziazioni con i membri del Patto di Varsavia.

Proprio nello spirito del Harmel Report possiamo inquadrare l’operato del cancelliere tedesco Willy Brandt con l’Ostpolitik (policy of movements), il quale sviluppò dei canali indipendenti di dialogo con i paesi dell’est.

IL SINDACO DI BERLINO

Willy Brandt,  nato Herbert Ernst Karl Frahm, negli anni ’70 apparse come il perfetto candidato per rinfondere vita da una Ostpolitik fino a quel momento bloccata. Oppositore del regime nazista costretto ad emigrare come altri membri del Sozialdemokratische Partei Deutschlands (SPD), condusse una resistenza attiva rientrando nel paese sotto falso nome. Dopo la guerra decise di mantenere il nome adottato nella resistenza e concorrere alla carica di sindaco nella Berlino divisa, ma ancora priva del muro. 

Divenuto Cancelliere della Repubblica Federale, orientò le proprie attenzioni verso la possibilità del dialogo con il blocco sovietico. Antitotalitario, antinazista e anticomunista incarnava le caratteristiche ideali per agire da ponte tra i due blocchi. 

Gli intensi contatti con Polonia e Unione Sovietica portarono alla firma dei trattati Bonn-Mosca (Agosto 1970), Bonn-Varsavia (Dicembre 1970) e forse il più importante Basic Treaty East-West Germany (December 1973). L’apertura verso l’est venne percepita con ampio sospetto sia dagli americani, i quali temevano il riavvicinamento tra le due Germanie portasse ad uno slittamento verso una Germania unita possibile preda delle influenze sovietiche, sia dall’elites politca della Germania della Ovest i quali vedevano un passo indietro i trattati in quanto parte di un processo di legittimizzazione della DDR.

Appaiono inoltre in netto contrasto le posizioni dalle quali si mossero le negoziazioni dei sopracitati trattati, da un lato l’Ostpolitik di Brandt puntava a superare le divisioni dei due blocchi mentre i membri del Patto di Varsavia puntavano a mantenere stabile lo status quo. 

Immagine che contiene testo, persona, esterni, via

Descrizione generata automaticamente

Fonte: https://www.dw.com/de/50-jahre-kniefall-von-warschau-willy-brandts-gro%C3%9Fe-geste/a-55811367

IL PESO DEL SIMBOLISMO

Forse l’aspetto più importante da considerare dell’Ostopolitik non è il mero testo dei trattati ma quanto il dialogo a loro precedenti, dialogo capace di avvicinare parzialmente due blocchi prima percepiti come inconciliabili. Risulta possibile inoltre indicare un momento catartico di questo periodo della distensione è probabilmente la visita di Brandt a Varsavia, visita nella quale il Cancelliere tedesco si è inginocchiato in segno di rispetto al memoriale alle vittime delle atrocità commesse durante l’occupazione nazista. Un’immagine carica di significato, volta quasi simbolicamente a superare quella lacerante divisione tra i due paesi.

Pertanto mentre appare impossibile stabilire se il processo di Détente abbia svolto una funzione catalizzante verso la fine della Guerra Fredda o l’abbia invece rallentata, può apparire rassicurante riflettere su come gesti di apertura come quelli di Brandt abbiano favorito una soluzione pacifica, ed una pacifica riunificazione delle due Germanie.

Angelo Doria

HUNTINGTON: FAGLIE ALL’INTERNO DELLA CITTÀ

Tempo di lettura: 3 minuti.

Il sistema internazionale nel corso della Storia ha subito numerosi sconvolgimenti che lo hanno alterato profondamente nell’aspetto e teorico ed in quello “pratico”. Veri e propri turning point appaiono individuabili nella ratifica di cruciali trattati di pace, come la Pace di Westfalia del 1648, volti a costituire un “nuovo ordine” nelle relazioni tra Stati, o nella fine di un logorante conflitto; ma anche nell’introduzione di nuove tecnologie in ambito militare e civile.

Senza alcun dubbio uno di questi turning point è la fine della Guerra Fredda, il conflitto che ha disegnato i confini, le relazioni diplomatiche ed i costrutti teorico culturali della seconda metà del Novecento.

L’inatteso collasso dell’Unione Sovietica ha scosso le fondamenta di molte delle teorie geopolitiche del tempo: un conflitto così permeato di valori ideologici giungeva al termine segnando quindi il possibile inizio di una nuova era e, pertanto, della necessità di nuove lenti con cui osservare il mondo.

LA FINE DELLA STORIA?

Numerose teorie si svilupparono in ambito geopolitico negli anni novanta, con l’intento di dare corpo ad una nuova visione capace di comprendere il rapido sviluppo di un mondo in evoluzione “libero” dal giogo bipolare che lo aveva sino ad allora caratterizzato. 

In questo periodo emerge la voce del politologo statunitense Samuel P. Huntington (1927-2008), con la sua opera “The Clash of civilization” (1997) che identifica nella fine del conflitto tra le due superpotenze il nuovo motore della storia.

Apertamente in antitesi con la visione di Francis Fukuyama, “The end of History and the Last Man”, di una progressiva scomparsa del conflitto internazionale in favore del sistema democratico liberale occidentale, l’opera di Huntington propone un nuovo paradigma del conflitto internazionale.

Si assiste ad un cambiamento del concetto fondante dell’entità Stato-Nazione, il criterio di aggregazione basata su una cultura condivisa che Huntington tende ad identificare prettamente con la base religiosa; queste aggregazioni vanno a comporre le “civilizzazioni”. Huntington, in passato anche collaboratore governativo sotto la presidenza Carter, propone una divisione, o meglio un riallineamento dello scacchiere internazionale in funzione delle civilizzazioni identificate dall’insieme di Stati con una cultura condivisa, mentre pone la propria attenzione sui luoghi di incontro/scontro tra le varie civilizzazioni: le aree di faglia.

L’impianto teorico di Clash of civilization, risiede appunto nella previsione di come le aree maggiormente sensibili siano quelle di incontro tra civilizzazioni con sistemi culturali e valoriali differenti. Questo non deve essere percepito però come un mero ritorno al binario concetto di feind-freund di Carl Schmitt.
Le zolle di Civilizzazione appaiono come aree culturalmente omogenee con un sistema condiviso di principî e valori assoluti.

MACRO E MICRO

All’interno del corso di “Teorie della Politica Internazionale” in questo semestre, tenuto dal professor Luciano Bozzo, abbiamo avuto modo di ampliare la lente di indagine utilizzata da Huntington focalizzandoci sulle componenti macro e micro delle “guerre di faglia”.

La componente macro è la più semplice da individuare, incarnandosi nei conflitti o nelle collusioni al confine tra diverse aree non omogenee tra loro nel sistema valoriale; in questa categoria possono ricadere numerosi conflitti susseguitisi dopo il crollo del bipolarismo: la crisi in Jugoslavia, la crisi in Crimea, le tensioni Pakistano-Indiane (per citarne alcune).

Ma la spinta multipolare proposta da Huntington non tende ad esaurirsi esclusivamente ai margini delle zolle omogenee di civilizzazione, ma anche all’interno delle zolle medesime, nel loro cuore: le città.

Da sempre la città è assimilabile al centro massimo di aggregazione umana ed il fulcro della vita sociale. Il rischio che sottolinea Huntington è quello dell’emergere di diversi sistemi valoriali dettati dalle differenze culturali e quindi la possibilità di conflitti/collisioni interni. Questione estremamente delicata che prende forma con la progressiva crescita dei grandi agglomerati urbani e l’aumento della multipolarità e varietà culturale nelle moderne città.

SCONTRO = GUERRA?

In conclusione possiamo osservare come la teoria cardine proposta da Huntington possa offrire delle nuove lenti capaci di affrontare ed interpretare un sistema internazionale e civile tendente al multipolarismo ma non deve essere affrontato come una teoria prona alla predizione di un conflitto latente costante tra le diverse civilizzazioni.

Probabilmente il contributo principale della trattazione potrebbe essere quello di non escludere la questione valoriale e culturale dei singoli stati, rivalutandone il peso ed evitando l’affascinante ipotesi di un appiattimento culturale dettato dalla vittoria del sistema liberale e dalla crescente globalizzazione.

ANGELO DORIA

NON SOLO PARTIGIANI: UN FASCISTA ALLA CESARE ALFIERI

Tempo di lettura: 3 minuti.

Come sapete la scuola Cesare Alfieri di Firenze ha visto transitare tra le proprie aule esponenti importanti della Resistenza italiana e poi della Prima Repubblica, uomini come Sandro Pertini già Capo di Stato ed esponente di spicco della lotta partigiana. 

In un consueto discorso di fine anno (discorso del 1979) che il Presidente della Repubblica è solito fare agli italiani, Pertini, presidente dal 1978 al 1985, affermò: “Dietro ogni articolo della Carta Costituzionale stanno centinaia di giovani morti nella Resistenza. Quindi la Repubblica è una conquista nostra e dobbiamo difenderla, costi quel che costi.”; frase forte che tiene ancora vivo il tremendo ricordo del regime fascista che il Presidente (così veniva chiamato) aveva contribuito a sconfiggere. 

Proprio negli stessi anni in cui Pertini frequenta l’ateneo fiorentino anche Alessandro Pavolini si apprestava a dare gli esami nella stessa facoltà. Entrambi infatti iniziavano il percorso universitario proprio negli anni Venti del secolo scorso. Una coincidenza curiosa che esprime due anime diverse di un’Italia che proprio qualche giorno fa ha celebrato il 25 aprile, festa di liberazione da un regime e soprattutto da una guerra civile che idealmente coinvolge proprio queste due persone che hanno popolato e sicuramente arricchito nel bene o nel male il nostro Ateneo.

Ma vediamo chi è Pavolini nello specifico.

Alessandro Pavolini nasce a Firenze nel 1903, figlio di Margherita Cantagalli e di Paolo Emilio Pavolini. Il padre è stato un celebre filologo e traduttore, docente di sanscrito, la lingua ufficiale dell’India, presso la Facoltà di lettere dell’Università di Firenze.

Il futuro gerarca, durante gli studi presso l’Istituto di Studi Superiori Cesare Alfieri, poi Università dal 1924, dove si laurea in scienze politiche e giurisprudenza, si interessa fin da subito alla politica e al giornalismo.

Nel 1920 infatti si iscrive ai Fasci di combattimento della sezione fiorentina, movimento fondato da B. Mussolini a Milano l’anno precedente. Diventando elemento centrale di una milizia tra le più sanguinarie della Toscana.

Nell’ottobre del 1922 partecipa alla Marcia su Roma. Mobilitazione che spinge il re d’Italia Vittorio Emanuele III a nominare Mussolini quale capo del governo. 

Il fascismo si consolida divenendo sempre più totalitarismo, e con il suo consolidarsi si fa strada anche Pavolini.

Nel 1924 partecipa alla contestazione del docente antifascista Gaetano Salvemini all’Unifi.

Dopo anni trascorsi da giornalista presso varie riviste di area fascista come Solaria e Critica fascista diventa federale di Firenze nel 1929, incarico che durante il fascismo era equiparabile al ruolo di sindaco, incarico che ebbe fino al 1934.

Dopo essere stato deputato dal 1934 al 1939 (ruolo svuotato di importanza), ottenne il suo incarico più prestigioso divenendo Ministro della Cultura Popolare. Dicastero fondamentale perché considerato realizzatore della “rivoluzione fascista”, ovvero una sorta di indottrinamento delle masse alle idee e ai costumi fascisti.

Dopo l’8 settembre del 1943 con l’armistizio dell’Italia badogliana Pavolini, gerarca tra i più intransigenti e violenti, si schiera immediatamente al fianco dei nazisti fondando le brigate nere, milizie incaricate di reprimere in ogni modo gli antifascisti che combattevano al centro-nord contro l’invasore tedesco.

Il 12 aprile del 1945, catturato a Dongo in provincia di Como dopo essere processato dal CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) per collaborazionismo col nemico, viene fucilato.

Una figura controversa

Esistono molti chiaroscuro di questo personaggio e Firenze ne è ancora influenzata. Basti pensare che fu lui a favorire e ad inaugurare una serie di realtà ancora oggi fondamentali per il capoluogo toscano, come l’autostrada Firenze-Mare, la Stazione di Santa Maria Novella, lo stadio Artemio Franchi (all’epoca chiamato Giovanni Berta) e infine l’istituzione del Maggio Musicale fiorentino.

Tuttavia Pavolini non è stato solo questo e non sarebbe giusto ricordarlo solo per questo.

Con le sue azioni infatti si è macchiato di una serie di crimini, spesso anche ai danni di innocenti. Pensiamo ai franchi tiratori su Firenze che il gerarca fiorentino dispose per vendicarsi sui cittadini fiorentini festanti per la propria città che si apprestava ad essere liberata. Non scordiamoci neanche le imposizioni e le minacce a chi non prendeva una tessera del partito fascista nei suoi anni di amministrazione cittadina e il sogno di Pavolini all’indomani del delitto Matteotti di annientare ogni opposizione residua ben più duramente e velocemente di quanto poi sia stato fatto effettivamente. 

“Alla più perfetta delle dittature preferirò sempre la più imperfetta delle democrazie”, e anche se il fascismo di perfetto non aveva niente così voglio concludere il mio articolo con questa frase parte del discorso già citato del Presidente Pertini.

Andrea Manetti