Le Dottoresse Romina Origlia e Francesca Maria Bacci, borsiste presso l’Università degli Studi di Firenze, da settembre conducono un lavoro di catalogazione presso Santa Maria Nuova. E’ anche grazie alla loro passione e al loro impegno che il Crocifisso di Francesco da Sangallo è finalmente visibile da parte del pubblico all’interno del percorso museale di Santa Maria Nuova.
1) Cosa maggiormente vi ha affascinato nell’impresa di catalogazione del patrimonio di Santa Maria Nuova?
FB: Avere la possibilità di lavorare su un patrimonio così eterogeneo per tipologia di oggetti, arco cronologico e varietà qualitativa è un’esperienza estremamente interessante.
Altro aspetto su cui siamo stimolate a riflettere è il rapporto tra una raccolta d’arte così importante e il contesto a cui appartiene, un ospedale tuttora attivo e che ha come prima funzione l’assistenza sanitaria: come conciliare due missioni così distanti? Come conservare e rendere fruibile questo patrimonio?
RO: La ricchezza delle opere ancora da studiare e l’eterogeneità della collezione che include opere di pittura e scultura dal Trecento fino al Novecento con un cospicuo numero di tessili e reliquie.
2) Quali sono le esperienze artistiche che Francesco Da Sangallo traduce nel suo Crocifisso ligneo?
FB: A questa domanda si potrebbe dedicare un’intera lezione di storia dell’arte! Si tratta di un’opera matura e complessa che si nutre delle esperienze elaborate dal padre Giuliano da Sangallo e dallo zio Antonio, entrambi autori di eccellenti Crocifissi lignei, oltre che di altri fondamentali apporti meditati su scultori quattrocenteschi quali Donatello e Antonio del Pollaiolo.
3) La scelta di collocare il Crocifisso nel Salone di Martino V, nel percorso museale di Santa Maria Nuova, a cosa è dovuta?
FB: Come dicevo prima la raccolta d’arte di Santa Maria Nuova vive in un contesto che si deve armonicamente integrare con le funzioni sanitarie e amministrative dell’ospedale. Il Crocifisso necessitava di uno spazio che fosse abbastanza grande da accoglierne le dimensioni monumentali e di un contesto che potesse valorizzarlo dal punto di vista espositivo. Da questo punto di vista il Salone Martino V si è rivelato perfetto: offre uno spazio adeguato dove il Crocifisso dialoga con altre opere di qualità ed è fruibile nel percorso di visita.
RO: Il Salone Martino V è uno dei luoghi più frequentati di Santa Maria Nuova, in quanto è utilizzato come spazio per incontri e conferenze inerenti alle attività dell’ospedale. In quella sala sono esposte opere del Quattrocento fiorentino, come la sinopia di Bicci di Lorenzo, una croce dipinta e un affresco staccato di Niccolò di Pietro Gerini che accompagnano in maniera cronologicamente coerente il Crocifisso di Francesco da Sangallo. Occorre anche dire che le dimensioni dell’opera con la sua croce erano piuttosto ingombranti e gli altri spazi del percorso museale non potevano accoglierlo.
4) Vedere oggi l’opera di Francesco da Sangallo nell’Ospedale di Santa Maria Nuova, luogo adibito alla cura dei malati, mi ha fatto pensare alla capacità salutifera dell’arte. Ritenete che l’arte possa guarire?
FB: Non so se l’arte possa guarire ma può donare bellezza ed emozioni che sicuramente aiutano a stare meglio.
RO: In questa pandemia in cui i musei, le mostre e i principali luoghi di cultura sono stati chiusi credo che sia emersa in maniera molto forte, l’esigenza di stare a contatto con l’arte per migliorare la quotidianità delle nostre giornate e ricavarne un benessere mentale.
5) In conclusione, chiedo sempre ai miei intervistati se vogliono dare un consiglio a tutti coloro che stanno studiando attualmente nel loro stesso campo formativo. In questo caso, avete una esortazione da fare a coloro che stanno studiando Storia e Tutela dei Beni Culturali?
FB: Innanzitutto godersi appieno il percorso formativo, amare quello che si studia, sfruttare al massimo il privilegio enorme di studiare arte in un paese come l’Italia: andate in giro e guardate più che potete. Poi, per il “dopo”, essere consapevoli delle difficoltà e delle potenzialità di questo settore e capire qual è il campo in maggiore sintonia con i propri interessi e con le proprie capacità.
RO: L’unico consiglio che mi sento di dare è di riuscire a guardare il mondo che ci circonda con uno sguardo multidisciplinare e non avere paura di entrare in campi che sembrano lontani dal nostro perché anche i settori più insoliti possono regalare stimolanti esperienze di lavoro.
Ripercorrere la storia del manifesto ed i suoi elementi dialettici sarebbe impossibile senza nominare il precedente cinese che insieme alle impaginazioni figurate egiziane e Sumere di testi geroglifici costituiscono gli antenati del manifesto.
La storia del manifesto, e della pubblicità in generale, ha origini antichissime: Pompei ad esempio è ricca di testimonianze che rivelano già un linguaggio pubblicitario. Ne sono la prova i reperti strappati alla lava come la colonna ritrovata a Ercolano nel 1897, ancora ricoperta di manifesti scritti su papiro e sovrapposti gli uni sugli altri.
I primi avvisi propriamente detti furono monopolio dello Stato e della Chiesa che quest’ultima usava per la concessione delle indulgenze, mentre lo Stato adoperava come avvisi per il reclutamento dei volontari.
A partire dalla seconda metà dell’Ottocento inizia a formarsi un linguaggio informativo sintetico e psicologicamente suadente: si ha così la trasformazione dell’avviso e dell’editto in manifesto per mezzo dell’abbreviazione dei testi e dell’ingigantimento delle vignette. Seguiranno le prime leggi disciplinanti l’affissione, e sul piano tecnico e strumentale possiamo constatare come l’invenzione della litografia, della cromolitografia ed i primi esperimenti di fotografia a colore siano diventati i mezzi più consoni allo sviluppo di questo mezzo comunicativo.
Data la rarità e l’irreperibilità di molti pezzi, fissare un itinerario dell’evoluzione del manifesto non è impresa facile.
Storia del manifesto
Verso la fine del XIX secolo le arti grafiche si esprimevano soprattutto attraverso la produzione di grandi poster pubblicitari in stile Art Nouveau: questo tipo di arte per il mondo del commercio era spesso seguita da un’unica figura che era insieme artista, designer e architetto, e per questo era fortemente influenzata dalle tendenze del tempo delle belle arti, dell’arte applicata e dell’Arts and Crafts. Durante la Belle Epoque in Francia, le mostre di manifesti proliferarono. Tra i grafici più celebri: Jules Cheret, Toulouse-Lautrec e Alphonse Mucha.
Non meno importante fu il caricaturista italiano Leonetto Cappiello,il quale ebbe molto successo a Parigi nei primi anni del Novecento. Cappiello rifiutò il dettaglio dell’Art Nouveau e si concentrò sulla creazione di una semplice immagine, spesso umoristica, che avrebbe immediatamente catturato l’attenzione dello spettatore. Grazie alle officine cromolitografiche è stato possibile lo sviluppo e la diffusione del manifesto in Italia, come la casa editrice italiana di edizioni musicali “Casa Ricordi”, che nel 1885 iniziò a stampare manifesti artistici e pubblicitari.
Solo all’inizio del XX secolo vennero utilizzate le cosiddette arti grafiche per creare delle immagini aziendali complete. Nel 1907, l’architetto e designer Peter Behrens fu nominato consulente artistico presso la casa tedesca AEG. La nascita di questa nuova disciplina portò alla creazione dell’American Institute of Graphic Art di New York nel 1914, la prima organizzazione fondata appositamente per la promozione di un’arte grafica.
Con la prima guerra mondiale l’importanza del disegno grafico come strumento di propaganda si impose definitivamente. La guerra inaugurò la più grande campagna pubblicitaria mai creata fino al momento, fondamentale per la raccolta di denaro, il reclutamento di soldati e l’incentivazione degli sforzi di volontariato, e la provocazione di sdegno nei confronti del nemico.
Abbiamo tutti presente il poster di chiamata alle armi creato da James Montgomery Flagg con la scritta “I Want You For US Army” e l’immagine dello zio Sam. Dopo la prima guerra mondiale i nuovi movimenti artistici come il futurismo, il costruttivismo e il neoplasticismo ebbero anche loro un profondo impatto sull’evoluzione del disegno grafico e i disegnatori, influenzati da questi impulsi avanguardisti in concomitanza al Bauhaus e al de Stijl, svilupparono un nuovo approccio razionale nei confronti del disegno che comprendeva l’uso di forme geometriche e linee semplici.
Prima e durante la Seconda Guerra Mondiale con la scuola Svizzera, che si basava sull’evoluzione della Bauhaus per creare una forma moderna di disegno grafico, emerse lo stile grafico internazionale, conun’estetica riduttiva che incorpora molti spazi bianchi e si basa sul precetto modernista secondo il quale la forma segue la funzione.
Durante la Seconda Guerra Mondiale i disegnatori grafici producevano poster per la propaganda caratterizzati da purezza formale e economia estetica: venivano fuse insieme immagini e slogan attraverso un messaggio informativo più diretto possibile.
Dagli anni posteriori alla guerra fino alla fine degli anni ‘50 ci fu un aumento dell’uso del design come strumento di marketing che portò a una maggiore specializzazione del settore. La professione del grafico fu riconosciuta non solo come una vocazione all’interno del design ma come settore a parte. Nonostante le tensioni della Guerra Fredda, la fine della Seconda Guerra Mondiale portò ad un incremento delle nascite e alla formazione di una nuova società dei consumi, grazie all’arrivo della televisione, dei viaggi in aereo e dei marchi internazionali. Nel 1958 il teorico della comunicazione Marshall McLuhan intraprese uno studio sulla comunicazione del settore con il libro “The Medium Is the Massage” il cui titolo nasconde il gioco di parole con il termine «mass age»: l’epoca delle masse, alludendo all’appiattimento culturale da parte dei mass-media e al fatto che l’immagine fosse divenuta più importante del contenuto.
Verso la fine degli anni ‘60 le teorie moderniste furono messe in discussione. Una nuova generazione di grafici inizia a sperimentare con creazioni più espressive influenzati dalla Pop Art. La cultura della droga e l’alienazione politica portarono agli apici il ruolo del poster ormai divenuto psichedelico, richiamando le immagini della Optical-Art e delle opere surrealiste.
Sempre in questi anni il disegno grafico allarga ancora di più il suo campo ai nuovi settori della comunicazione visiva con mezzi quali la televisione e il cinema, sfruttando i grandi cambiamenti avvenuti nella tecnologia e nella stampa fotografica.
Anche negli anni ‘70 il disegno grafico fu collegato al marketing attraverso il linguaggio universale del capitalismo industriale, in un tentativo di competere con maggiore efficacia in un mondo caratterizzato dalla sempre crescente globalizzazione.
Il periodo del new age del design grafico assiste alla nascita di poster in vera e propria antitesi con i precetti della Scuola Svizzera. Viene abbandonato il modernismo e e nasce il movimento punk che è un catalizzatore della nuova visione grafica inglese di quegli anni. Si tratta del New Wave o Swiss Punk Typography con una grafica caratterizzata dallo stile anarchico e aggressivo che cattura l’energia e la rabbia interiore dei giovani. Una nuova ondata di disegnatori post moderni invase l’Olanda e l’America conservando alcuni elementi della scuola svizzera ma capovolgendone gli schemi. Incorporarono al modernismo la fotografia, il cinema e riferimenti culturali eclettici. Questa New Wave adottò al posto dell’oggettività modernista una soggettività post-moderna ispirata ai nuovi mezzi di comunicazione elettronici. (Nel 1976 nasce la multinazionale Apple)
Negli anni ‘80 igrandi brand compresero che un disegno grafico all’avanguardia poteva conferire ai loro prodotti un vantaggio sulla concorrenza, così puntarono ad instillare nel consumatore un senso di appartenenza e a proiettare aspirazioni e desideri contenuti dell’idea che il marchio rappresentava. Attivisti e artisti come il collettivo Gran Fury e Keith Haring sfruttarono il potere del manifesto come strumento di comunicazione di massa e di costruzione della comunità per promuovere la consapevolezza durante la crisi globale dell’AIDS.
Oggi siamo di fronte a un pluralismo espressivo prodotto dalla globalizzazione e dal desiderio di individualismo dei designer. Ed oggi, più che mai sommersi dalle immagini, che i grafici hanno una responsabilità rilevante ed un potere di persuasione che può alterare il punto di vista delle persone riguardo temi importanti.
È il momento in cui i professionisti di questo settore dovrebbero far leva a favore dell’impegno sociale più che su quello commerciale per rappresentare un cambiamento sociale significativo.
Manifesti a Firenze e dintorni
La fotografa Marialba Russo presenta la mostra Cult Fiction al Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato, mostra visitabile fino al 6 giugno 2021.È esposta per la prima volta la serie fotografica dedicata ai manifesti dei film a luci rosse apparsi nelle strade di Napoli e Aversa.
Marialba Russo documenta e descrive con la sua serie un cinema (“di genere”) quasi tutto al maschile in cui la figura femminile è considerata un oggetto di possesso e la condizione della donna viene rappresentata da manifesti spesso grotteschi dai titoli quasi comici.
Alla mostra troverete oltre 60 scatti dei poster che tappezzavano i muri italiani negli anni 1978-1980, gli anni dell’apertura delle prime sale cinematografiche specializzate in Italia.
Gli scatti riproducono l’impatto della pubblicità parlando da una parte della spinta alla liberazione sessuale di quegli anni, dall’altra anche di una mercificazione del corpo femminile. Le fotografie documentano La rivoluzione culturale, politica e sociale degli anni Settanta.
Il poster da sempre è portavoce di rivoluzione e mostra la società senza veli: basti pensare alla rappresentazione della donna come quella razzista e xenofoba delle varie etnie nel corso della storia. Il manifesto ritrae infatti uno spaccato antropologico della mentalità delle epoche passate ed analizzandolo possiamo notare come il pensiero collettivo muti nel tempo.
Sempre a tema manifesti e affissioni, a Firenze appaiono per le strade della città manifesti di volti accomunati dalla scritta “fragile” in una mostra diffusa a cielo aperto.
Ci riferiamo ai manifesti di Ache77, stencil artist e serigrafo, per Voce Amica, visibili fino al 15 giugno, opere contemporanee che stimolano la riflessione sui temi della solitudine, l’accoglienza e l’ascolto.
Telefono Voce Amica Firenze OdV è un’associazione di volontariato nata a Firenze il 16 ottobre 1963, svolge esclusivamente un servizio di ascolto telefonico in forma completamente anonima, offerto a chiunque senta il desiderio di parlare con qualcuno, perché solo o in situazione di disagio. Il servizio è gratuito e attivo tutti i giorni, festività comprese, dalle 16 alle 6 del mattino seguente al numero 055 2478 666.
American Art 1961-2001: la prima grande mostra dopo l’estenuante chiusura dei musei. Palazzo Strozzi conferma per l’ennesima volta il suo ruolo di punta nella diffusione dell’arte contemporanea nella capitale del Rinascimento.
L’Università di Firenze ha dato la possibilità agli studenti frequentanti il seminario sulle culture visive della contemporaneità, tenuto dai professori di Storia dell’Arte Contemporanea Giorgio Bacci e Tiziana Serena, di addentrarsi e scorgere più da vicino gli elementi caratterizzanti di questa mostra: ripercorrendo la storia degli Stati Uniti dagli anni ‘60, anni dell’inizio della Guerra del Vietnam, fino al tragico 2001.
L’arte di questi lunghissimi quanto volatili 40 anni è celebrata grazie a oltre 80 opere di 55 artisti: fra gli altri, il monumentale Andy Warhol, la denuncia di Barbara Kruger e la provocatrice Cindy Sherman. Ma andiamo per ordine.
Alcune di queste opere saranno esposte per la prima volta a Firenze, grazie alla preziosa collaborazione con il Walker Art Center di Minneapolis, il cui fautore è proprio il curatore e direttore associato dello stesso centro, Vincenzo de Bellis.
Grazie al suo lavoro e a quello dell’altrettanto fondamentale Arturo Galansino, di cui abbiamo già avuto modo di parlare nell’articolo riguardante la Ferita di JR sempre a Palazzo Strozzi, si avvia dunque il 28 maggio, per chiudersi poi il 29 agosto 2021, una mostra che rilegge questi anni così dinamici e ricchi di eventi, ricordando che l’arte, di fronte ai più disparati fenomeni, bellici, sociali e antropologici, non ha mai taciuto. La mostra ce lo racconta affrontando le varie tematiche che costellano questo periodo, come la nascita della società dei consumi, il femminismo, le lotte per i diritti civili, le questioni di genere, tutto intriso dell’incertezza mascherata dal sogno americano che è stato propinato ai più in quegli anni.
Cosa si cela dietro al sogno americano?
Certamente si celano le riflessioni sulla figura della donna di cui Cindy Sherman investe il ruolo di portavoce, si celano le influenze più o meno radicate e palesi provenienti dal mondo della pubblicità di Richard Prince e Barbara Kruger; si cela il terribile stigma dell’AIDS raccontato da Felix Gonzalez-Torres, le narrazioni posthuman di Matthew Barney che, con l’inquietudine che solo lui è in grado di far calare sulle cose, presenta, quasi sbatteinfaccia al visitatore. Dopotutto, l’obiettivo di tutti loro e di tutti coloro che hanno operato nel loro importante e profondo solco artistico-culturale, hanno questo obiettivo: sbattere in faccia alla gente quello che succede.
E no, non esiste, nell’America degli anni che vanno dal 1960 al 2001 (e nemmeno dopo, forse) un modo “carino” e “delicato” di farlo.
La verità è questa, la verità è l’espressionismo di Mark Rothko e la sua tragicità dei colori che rifiutano un segno a cui sottostare, la verità è quella di Louise Nevelson e delle sue cassette/reliquiari assemblate con il legno, quello stesso legno a cui diceva di parlare. La verità è quella di Carolee Schneemann, l’artista che voleva essere chiamata pittrice ma che rimase famosa soprattutto per le sue performances, l’artista che con le sue opere, mai prive di uno sfondo di denuncia, ha raggiunto enormi traguardi in termini di consapevolezza e dialogo con un pubblico sui temi della sessualità e dell’erotismo, del femminismo e delle questioni di genere.
Eugenio Giani, Presidente della Regione Toscana ha dichiarato: “Quello di oggi è un evento simbolico: la ripartenza della cultura in presenza a Firenze con questa mostra che ci fa percorrere un itinerario di grande rilevanza non solo sul piano artistico ma anche sociale. Quest’anno è” (il ventesimo) “anniversario del dramma delle torri gemelle. Con le torri gemelle è nato il terrorismo internazionale che ha fortemente condizionato il mondo. In 15 anni di attività la Fondazione Palazzo Strozzi fondata nel 2006 è riuscita ad esprimere la vitalità e la centralità dell’arte e questo è molto importante perchè alterna la storia del ‘Rinascimento senza fine’ alla contemporaneità con artisti come JR. La mostra che presentiamo oggi aiuterà sicuramente a rilanciare il turismo di Firenze e di tutta la Regione”.
La mostra prosegue anche online attraverso la piattaforma American Art On Demand: grazie a un progetto in collaborazione con il Cinema La Compagnia-Fondazione Sistema Toscana e MYmovies, i possessori del biglietto di ingresso alla mostra potranno entrare nella sala virtuale “Più Compagnia”, che consta di una selezione di opere video fruibili in streaming che testimoniano il lavoro di artisti come Vito Acconci, Nam June Paik, Dara Birnbaum e Dan Graham. Questi artisti hanno utilizzato le immagini in movimento nell’ambito della performance, dell’arte concettuale e dell’estetica che caratterizza il periodo postmoderno.
La mostra, secondo Arturo Galansino, vuole dare un segnale di ripartenza per la vita sociale e culturale di Firenze e della Toscana (…) celebrando l’arte americana affrontando anche importanti temi come le lotte per i diritti civili e il ruolo della donna nell’arte. Per questa mostra si devono ringraziare come sostenitori: il Comune di Firenze, la Regione Toscana, la Camera di Commercio di Firenze, la Fondazione CR di Firenze, il Comitato dei Partner di Palazzo Strozzi, l’intesa Sanpaolo, l’Enel, e infine come premium sponsor Gucci.
A quasi 50 anni dall’indimenticabile mostra tenutasi al Forte di Belvedere nel 1972, Henry Moore torna a Firenze. Maestro della scultura inglese, questa nuova mostra vuole mettere in luce le sue produzioni grafiche, legate indissolubilmente alle sperimentazioni formali e linguistiche delle avanguardie storiche (con particolare attenzione a Brancusi e a Picasso) e con la tradizione dell’arte e dei maestri italiani dei secoli precedenti. Moore aveva incontrato Firenze già da giovanissimo: negli anni ‘20 del ‘900, infatti, non si era certo sottratto al “rito di passaggio” del Grand Tour in Italia, grazie al quale ogni artista anglosassone veniva iniziato all’arte classica e rinascimentale. È probabilmente in questi anni che si innamora di Giotto, di Donatello, di Masaccio. Del resto, come biasimarlo.
Foto 1: “The Artist’s Hand” photo by Nigel Moore
Ruolo importante nella sua evoluzione è ricoperto anche dalla realtà manifatturiera della Versilia, con cui entra in contatto e da cui rimane affascinato; il litorale fra Forte dei Marmi e Carrara, le Alpi Apuane e le zone limitrofe rimangono nel suo cuore come un substrato artistico di cui non si libererà mai.
La mostra “Henry Moore. Il disegno dello scultore” è curata da Sebastiano Barassi, Head of Henry Moore Collections and Exhibitions e Sergio Risaliti, Direttore artistico del Museo Novecento. In occasione del ritorno di Moore a Firenze, il Museo Novecento vuole porre attenzione principalmente sul valore dell’infinita ricerca del maestro inglese attraverso i suoi disegni, ricerca che, auspicabilmente, sarebbe arrivata alla genesi della sua arte. Organizzata in team con la Henry Moore Foundation, con il contributo di Banca Monte dei Paschi di Siena, la mostra sarà visitabile fino al 18 luglio 2021 e ospiterà circa 70 opere fra disegni, grafiche e sculture esposte nei tre livelli del Museo.
Sebastiano Barassi, curatore, ha dichiarato che “Henry Moore. Il disegno dello scultore”, vuole essere un dono alla città che ha sofferto una crisi pandemica drammatica e che sta uscendo a fatica ma con coraggio e orgoglio da questa situazione così difficile. La presenza in questo momento storico delle opere di Henry Moore a Firenze è anche un richiamo alla forza dell’arte nelle massime difficoltà umane e sociali.
Il percorso espositivo si sviluppa seguendo diversi orizzonti tematici, partendo dal repertorio illimitato di forme e di ritmi che ha la natura, come affermato da Moore stesso, per arrivare alla narrazione tipica dell’artista che ruota intorno a motivi iconografici come rocce, ossa, alberi, animali.
Foto 2: Henry Moore a Firenze nel 1972, foto di Enrico Ferorelli, fonte Art Tribune
Punto cruciale del progetto è evidenziare il legame tra lo scultore e la Toscana: questo obiettivo è raggiunto attraverso l’esposizione di sculture e fotografie che rimandano (fra le altre) al periodo di fine anni Cinquanta in cui Moore visitò per la prima volta Querceta, vicino Forte dei Marmi. Motivo del suo viaggio fu la produzione di una grande scultura commissionata dall’UNESCO nel 1957, destinata alla sede centrale di Parigi. Sono anni in cui l’artista occupa la maggior parte del suo tempo a opere in bronzo, ma per quest’opera opterà per il travertino, essendo la stessa pietra utilizzata nella decorazione della sede UNESCO. La monumentale Reclining Figuresarà frutto del lavoro di Moore e degli artigiani delle cave carraresi della società Henraux.
Nelle sale sono esposti bronzetti (molti sono modelli preparatori di sculture monumentali) che fanno riferimento ad alcuni soggetti molto cari all’artista, soggetti che hanno caratterizzato la sua ricerca di una genesi dell’arte: lo studio della figura umana, delle vertebre; la rappresentazione di donne sdraiate, di mani. Il punto di arrivo (o di inizio?) è certamente un equilibrio unico delle forme fra pieni e vuoti, aspetto caratterizzante della grande opera di Henry Moore.
Foto 4: Le opere di Moore a Firenze: Giulio Carlo Argan scriveva che “Le forme archetipe della mitologia di Moore sono l’osso che il tempo ha pulito, il sasso che la corrente ha trapanato e levigato.” Fonte: Il Giornale
Saranno presenti delle immagini d’epoca che ritraggono l’artista nelle estati passate tra la Versilia e le cave di marmo di Carrara con amici e intellettuali: attraverso queste preziose fonti si traccia una storia fatta di legami e affetti continuativi.
La mostra sarà anche l’occasione per la realizzazione di un mediometraggio volto a raccontare, mediante una raccolta di testimonianze provenienti dal pubblico, il ricordo della mostra tenutasi nel 1972 al Forte di Belvedere. Allora, il 20 maggio, si teneva la prima grande personale interamente dedicata a Henry Moore: oltre 345 mila persone sfidarono il sole a picco per guadagnarsi un posto sugli spalti del Forte. Fra il pubblico c’erano Giovanni Leone, sesto Presidente della Repubblica Italiana e Edward Heath, allora Primo Ministro inglese.
In cosa consiste la chiamata pubblica al ricordo del ‘72?
Sostanzialmente, chiunque abbia partecipato all’evento è invitato a spedire via e-mail all’indirizzo del Museo Novecento i ricordi che si possiedono legati a quel momento: fotografie, cartoline, autografi dell’artista. Questa raccolta verrà pubblicata nei canali social del museo e confluirà in un libro che verrà pubblicato nel 2022, vero anniversario della mostra al Forte di Belvedere.
Qual è la tua pittrice preferita? Forse stai avendo delle difficoltà e non ti viene in mente nemmeno un nome. Non hai tutti i torti effettivamente… la nostra memoria è affollata di così tanti nomi maschili che sembra non esserci spazio per l’altra metà del genere umano: le donne. E le poche di cui ricordiamo il nome spesso sono note più per la loro biografia tragica o per il loro aspetto fisico piuttosto che per i loro lavori artistici.
La critica dell’arte stessa, disciplina che dalla fine dell’800 fino agli anni 70 del Novecento ha ignorato, espulso e persino cancellato le testimonianze sulle artiste e sulla loro presenza ottocentesca e novecentesca, facendo calare il sipario anche sui secoli precedenti. La grande cancellazione delle artiste è avvenuta all’inizio del 900 e le ragioni di questa relegazione all’oblio sono da ricercare nella modernità.
Firenze è la culla del rinascimento, questo lo sappiamo bene: libri e musei sono pieni delle opere d’arte che la nostra città ospita e che ha visto dare alla luce ma… solo di uomini!
E invece di pittrici ed artiste ce ne sono eccome. La protagonista di oggi è Antonia Doni.
Ma prima, facciamo il quadro della situazione.
Il contesto storico: la donna come parte attiva nel mondo dell’arte
Abbiamo già notizie delle prime pittrici greche e romane come Timarete, Kaliypso, Iaia e Eirene. Nel Medioevo invece, gli artisti, sia uomini che donne, raramente erano menzionati personalmente. Erano considerati degli artigiani e sporadicamente firmavano le loro opere. I manoscritti del “De mulieribus claris”, un testo di Giovanni Boccaccio composto nel 1361-62 che descrive le vite di 106 donne dell’Antichità e del Medioevo attraverso i loro vizi e virtù, erano decorati con preziose miniature raffiguranti donne intente a scolpire, cucire, dipingere, scrivere ecc. Le miniature reinterpretano in chiave medievale la figura della donna testimoniando così l’attività artistica femminile del periodo.
Nel Rinascimento, per primi in Italia e nelle Fiandre, i pittori iniziarono ad essere riconosciuti come veri e propri artisti. Ed è in questo periodo che anche le donne cominciarono, a fatica, ad essere riconosciute come tali; sebbene non sappiamo effettivamente quante fossero perché le condizioni erano loro decisamente avverse, ed inoltre il genere femminile è stato dimenticato dalla critica per troppo tempo, quindi ancor meno delle già poche artiste esistenti al tempo sono quelle di cui abbiamo notizie.
Il pittore, lo scultore erano considerati lavori maschili e per svolgere queste professioni era necessaria una preparazione che richiedeva lo studio della figura umana, copiata dal vero da modelli che abitualmente posavano nudi. E questo era ritenuto decisamente scandaloso per una donna agli occhi degli uomini dell’epoca.
Le donne per secoli non hanno avuto accesso ad una formazione pittorica paragonabile a quella riservata agli uomini, costrette ad una femminilità borghese-aristocratica dipendente e rinchiusa nella dimensione domestica. Basta pensare che fino al 1893 le ragazze non erano ammesse alla scuola di nudo della Royal Academy di Londra. La stessa RA inaspettatamente trova tra i suoi membri fondatori due donne, le pittrici Mary Moser e Angelica Kauffman (1768), le quali ricevevano un trattamento differente rispetto a quello riservato agli uomini. Nel dipinto “The Academicians of the Royal Academy” di Johan Zoffany vi sono ritratti trentaquattro dei primi membri della Royal Academy che si preparano per una lezione di disegno dal vivo con due modelli maschili nudi. In esso Angelica Kauffmann e Mary Moser non sono state raffigurate come gli altri membri partecipanti alla lezione, bensì vengono mostrate sotto forma di ritratti appesi alle pareti poiché sarebbe stato per loro inappropriato trovarsi in quella stanza.
Le donne erano tenute fuori da più di una classe dell’Accademia ed era dato per scontato che non avrebbero avuto alcun ruolo attivo nella gestione dell’istituzione stessa fino a Novecento inoltrato. Il 1860 è stato l’anno in cui venne ammessa la prima studentessa alla Royal Academy, Laura Herford, la quale inviò furbescamente un disegno per l’approvazione nella scuola firmandolo solo con le sue iniziali, e così questo fu accettato prima che qualcuno capisse che era stato realizzato da una donna. Herford fu seguita da altre studentesse, ma furono escluse dalle classi dal vero fino appunto al 1893, ed anche dopo questa data i modelli che posavano per le ragazze dovevano avere i genitali coperti, non mostrandosi mai in nudo integrale. L’ammissione delle donne fu strettamente controllata per assicurare che non superassero il numero degli uomini.
Nella seconda metà dell’Ottocento si vede dunque aumentare la popolazione delle donne artiste. Ufficialmente le donne furono ammesse nel Corpo Accademico dai tempi ben più antichi, ma erano quasi sempre affiancate da padri o mariti artisti, loro maestri e compagni di vita.
Nel XIX secolo però questo incremento dell’attività artistica femminile nel mondo accademico è dovuto a una crescente alfabetizzazione artistica che si svincola dall’apprendimento familiare o parentale, insieme all’aumento di richiesta di partecipazione nelle scuole d’arte da parte delle donne dettata dall’urgenza di ricoprire ruoli superiori, che senza una adeguata istruzione non potevano essere loro assegnati.
Johann Zoffany RA, The Academicians of the Royal Academy, 1771-1772 Vediamo come in questo dipinto Mary Moser and Angelica Kauffman sono rappresentate sulla destra in forma di quadri poiché per loro sarebbe stato disdicevole trovarsi nella stanza insieme ai due modelli nudi.
In Italia le donne sono state ammesse nelle Accademie di Belle Arti con date diverse a seconda delle sedi delle scuole. Ad esempio nel 1897 all’Accademia Albertina di Torino, su centosettantuno iscritti, trentacinque furono le allieve donne. Beh… meglio di niente! Nel tempo, questi numeri saranno destinati ad aumentare. Il problema è che nonostante si registri, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, una cospicua presenza di donne che si dedicano alle arti visive, l’attività artistica femminile continuava a rimanere un fenomeno quasi ignorato, come evidenziato dal diffuso disinteresse della pubblicistica.
All’Accademia di Belle arti di Firenze è stato proibito l’accesso alle donne per lungo tempo, anche quando ormai dal 1869 le leggi italiane concedevano per diritto alle donne l’accesso agli Studi Superiori. Il pittore Giovanni Fattori fu uno degli insegnanti della Sezione femminile della scuola di Disegno di Figura fino al 1907, anno nel quale vennero riunite le classi maschili e femminili.
A Torino, si ha la prima manifestazione artistica internazionale riservata esclusivamente alle donne con le Esposizioni internazionali femminili di Belle Arti del 1910-11 e 1913, mentre all’estero già da tempo esisteva una tradizione in materia. La manifestazione fu organizzata dal primo magazine femminile italiano del Novecento, “La donna” (diretto da soli uomini).
Prima di questo evento ci fu a Firenze l’Esposizione Beatrice,una serie di eventi ed esposizioni dedicati ai festeggiamenti per il seicentenario della morte di Beatrice Portinari, l’amata di Dante Alighieri. Grazie all’iniziativa della poetessa e compositrice musicale Carlotta Ferrari, che per onorare il ricordo di Beatrice organizzò una grande fiera artistica improntata alla valorizzazione della creatività del modo femminile.
La figura della donna, che tanto piace raffigurare agli artisti, non riveste per secoli il ruolo di raffigurante, e se lo fa, come abbiamo visto, sovente è in una condizione di forzata segretezza. La donna per molto tempo non ha avuto le possibilità e gli strumenti per opporsi al tipo di rappresentazione che la società le ha costruito addosso, non avendo così il diritto di potersi rappresentare da sola e di mostrare la propria visione del mondo. Gli storici italiani hanno continuato a concentrare le proprie attenzioni sulle figure maschili, che sebbene necessitino le attenzioni che da sempre abbiamo loro dedicato, riportano solo un quadro parziale del mondo e dell’arte.
Antonia Doni
Nel Cinquecento la donna, se decideva di intraprendere la carriera artistica, perdeva la propria identità sessuale svolgendo un lavoro considerato “da uomo”, e per questa ragione le prime pittrici e miniatrici appartenevano al mondo ecclesiastico. Le religiose inoltre ricevevano un’istruzione, che non era affatto scontata. Negli scriptoria delle abbazie le suore colte e dotate di capacità grafiche e pittoriche si dedicavano all’arte della calligrafia, della decorazione, della copiatura e al disegno, per illustrare i libri con preziose miniature.
Spesso le artiste cinquecentesche erano figlie d’arte, poiché era l’unico modo per imparare il mestiere: confinate nel ruolo di procreatrici, le donne potevano decorare la casa, la propria persona, cucire e ricamare ma le libertà finivano qui. Al loro tempo, le artiste erano persino conosciute tra la popolazione, ma poi sono state messe in un angolo dalla critica.
A Firenze sono ben più di 2.000 le opere di artiste rintracciate e censite nei musei e nelle chiese. Antonia Doni è la prima delle artiste Fiorentine dimenticate di cui parleremo, in attesa del giorno nel quale non ci sarà più bisogno di dedicare sezioni apposite per celebrare l’estro delle donne e per farne conoscere le loro opere.
Antonia Doni (1456 – 1491) è la figlia di Paolo Uccello, ha dipinto “Vestizione di una monaca”, una miniatura ad oggi collocata presso il gabinetto Disegni e stampe degli Uffizi.
Per i motivi già citati, le notizie su questa donna, a suo modo rivoluzionaria, non sono molte: sappiamo fosse fiorentina, primogenita del celebre pittore quattrocentesco Paolo Uccello, presso la cui bottega si formò, che fu una suora carmelitana e che divenne una suora di clausura nell’ultimo decennio della vita. Tutto torna, la nostra Antonia era figlia d’arte ed ecclesiastica. Pacchetto completo.
Vasari, nelle sue Vite, scrive di Paolo Uccello e fa riferimento ad una “sorella che aveva la conoscenza del dipingere” si tratta di Suor Antonia. La sua produzione fu così prolifica da farle guadagnare il titolo di “pittoressa” sul certificato di morte, perciò questa era la sua vera e propria occupazione, oltre a quella di suora, se così si può dire. È la prima volta che la forma femminile della parola “pittore” appare nei registri pubblici fiorentini.
Grazie alle commissioni interne all’ordine religioso, come miniature e tavolette votive, ebbe modo di lavorare con una libertà che mai avrebbe avuto se fosse stata laica.
Non sono note opere firmate o documentate di Antonia. La miniatura conservata agli Uffizi che rappresenta la vestizione di una monaca è stata attribuita a Suor Antonia ma non ne abbiamo la certezza.
Per quanto riguarda la scena rappresentata, che si svolge nella chiesa di S. Donato in Polverosa, si pensa che si tratti della monacazione di Costanza Vecchietti del 1481. È stata avanzata anche la proposta che il dipinto rappresenti la vestizione di Suor Antonia e che sia opera di un ignoto miniatore fiorentino della fine del XV e l’inizio del XVI secolo.
Il repertorio artistico di Santa Maria Nuova possiede un inedito gioiello, si tratta del Crocifisso di Francesco da Sangallo (Francesco Giamberti; Firenze, 1494 – Firenze, 1576) che finalmente può essere ammirato da parte del pubblico, dopo il restauro terminato nel 2009. Infatti, dopo il ripristino del suo originario splendore, solo nel 2013 è stato mostrato al pubblico per la prima volta, dopo due secoli, in occasione della mostra I Sangallo – Una famiglia di scultori, presso il Palazzo Municipale di Pontassieve.
L’opera fu realizzata tra il 1515 e il 1525 per l’ospedale di Santa Maria Nuova. Il complesso architettonico fu fondato da Folco Portinari nel 1288, il padre di Beatrice Portinari, quest’ultima tanto amata sia in vita che in morte da Dante Alighieri.
Alto 184 centimetri e largo 178, l’artista è riuscito a cogliere Cristo nella sua bellezza sofferente, trattenuta e accettata; nel candore ancora vivo e pulsante nelle vene del corpo; oltre che nella sua potenza, vista la sua evidente resa muscolare, nel momento in cui esala l’ultimo respiro.
Quest’ultima caratteristica anatomica, resa perfettamente dall’artista, si ipotizza derivi dalla sua possibilità di attingere agli spazi dell’ospedale. Come spiega Esther Diana, responsabile Settore Biblioteca, Ricerca ed Editoria della Fondazione Santa Maria Nuova Onlus: “Già a partire dal Quattrocento l’ospedale di Santa Maria Nuova è frequentato da molti artisti. Il nosocomio offriva loro la possibilità di studiare da vicino il corpo umano ricavandone conoscenze fondamentali per le opere. Anche Francesco da Sangallo, come Leonardo da Vinci, deve aver passato molte ore qui, a studiare. La perfezione dei dettagli anatomici di questo Crocifisso ne è la dimostrazione. L’immagine del Cristo sulla croce, in un ospedale, aveva finalità ben precise in un’epoca in cui la malattia era considerata la punizione per un peccato commesso: doveva ispirare umiltà, trasmettere conforto e indicare la giusta strada verso la redenzione. Inoltre, le predicazioni di Girolamo Savonarola avevano contribuito ad accrescere il culto del Crocifisso. La sua raffigurazione si diffonde quindi all’interno dell’ospedale, sugli altari e in corsia. A Santa Maria Nuova se ne contano almeno 13, in legno o cartapesta, a dimensione naturale, provenienti da importanti botteghe o di autori anonimi”.
Prima di operare il restauro su un manufatto si attuano degli esami diagnostici, così detti perché volti a ricavare una diagnosi dell’oggetto, ovvero constatarne le parti in ‘salute’ e quelle ‘malate’ al fine di capire come operare nella fase di restauro. Le indagini hanno confermato la modalità con cui Francesco realizzò l’opera, attraverso l’assemblaggio di tre blocchi di tiglio, materiale che secondo Giorgio Vasari era il migliore tra tutti i legni. In seguito, il restauro ha permesso il rafforzamento della struttura lignea, tramite iniezioni di resina acrilica.
Tra le numerose operazioni che si sono susseguite nella fase di ripristino, curioso è notare che prima di questo intervento il crocifisso presentava uno strato di pittura scura. Probabile che sia stata stesa nel corso dell’Ottocento, quando la maggior parte dei crocifissi lignei erano sottoposti a questo trattamento per renderli di aspetto bronzeo, perché all’epoca era molto più apprezzato del legno.
È grazie al lavoro e all’impegno di due borsiste dell’Università degli Studi di Firenze, Dottoresse Romina Origlia e Francesca Maria Bacci, che il Crocifisso di Francesco da Sangallo è stato ricollocato. Il Salone di Martino V diviene così tappa fondamentale nel percorso museale di Santa Maria Nuova, inaugurato nel 2016. Questa monumentale stanza venne creata nel 1720 dallo Spedalingo Giuseppe Maria Martellini, e oggi ha lo scopo di accoglierci per permetterci di contemplare le opere artistiche esposte, tra cui il tanto atteso Crocifisso di Francesco Da Sangallo.
In Piazza della Signoria a Firenze è stata installata una torreggiante creazione di Giuseppe Penone, uno dei massimi esponenti dell’Arte Povera contemporanea. L’opera in questione porta il nome di “Abete” e si inserisce tra le numerose iniziative svoltesi per celebrare il settecentesimo anniversario della morte dell’Alighieri.
È un’anticipazione della mostra monografica di arte contemporanea “Alberi Inversi” dedicata a Dante e visitabile nelle Gallerie degli Uffizi dal 1 giugno al 12 settembre 2021, ospitante i lavori di Giuseppe Penone. L’opera è un albero di 22 metri il cui tronco ed i rami sono stati realizzati in acciaio inossidabile mediante lavorazioni complesse, disposti a spirale ascendente. Gli elementi cilindrici appoggiati sui rami metallici dell’abete sono stati modellati in bronzo, realizzati da calchi di bambù. L’ispirazione proviene dalla terzina del canto diciottesimo del Paradiso che recita: “l’albero che vive de la cima / e frutta sempre e mai non perde foglia” perifrasi che indica il Paradiso stesso. L’albero a cui è paragonato il Paradiso riceve vita dalla sommità e non dalle radici, ed i suoi rami indicano il grado di ascesa a Dio attraverso i cieli.
Nel nostro caso il misticismo non è stato abbandonato ma ha mutato di significato; il sottotitolo dell’opera è infatti: “La spirale della crescita vegetale, la spirale della conoscenza”. I frutti non sono anime come nella Commedia, ma pezzi di metallo, e l’ascesa è verso una divinità laica: il sapere. Lo stesso autore ha commentato: “Abete in Piazza della Signoria indica lo sviluppo del pensiero che è simile alla spirale di crescita del vegetale“.
Vedendo l’opera però, il collegamento col paradiso sembra sfuggirci. Tipica dell’Arte Povera è infatti la celebrazione del ritorno alla natura come via di fuga dalla razionalità del sistema capitalistico di cui la quotidianità della fine degli anni 60 era intrisa (e lo è oggi ancora di più), anni in cui il movimento ebbe origine. L’Arte Povera “celebrava (…) il ritorno alla natura e ai processi corporei come via d’uscita dalla razionalità borghese repressiva e dal sistema capitalista” racconta Germano Celant. È un’avanguardia che risente l’influenza del ’68 e mette in crisi il rapporto tra significato e significante. Proprio a causa di questo cortocircuito l’opera risulta di difficile comprensione. Il direttore degli Uffizi Eike Schmidt ha sottolineato come Abete sia un ponte tra la Divina Commedia e la contemporaneità. Quest’ultima non deve esentarsi dalle riflessioni che l’opera in sé suggerisce, come gli aspetti ambientali dell’arte, soprattutto nello spazio urbano antropomorfo. Impossibile non pensare all’impatto dell’uomo sulla natura e di come questo minacci l’Eden paradisiaco sostituendolo con una natura metallica.
La collocazione in una piazza non è casuale: tra il tempo della storia e quello della vita, tra passato e presente. Non è stata la prima opera accolta in Piazza della Signoria che ha fatto discutere l’opinione pubblica. Ricordate nel 2017 Big Clay di Urs Fisher? Forse vi tornerà in mente con le parole di Sgarbi che la definì una “mer** gigantesca”. Quest’anno, il Sindaco Nardella, preparato alle critiche, all’inaugurazione dell’installazione ha affermato: “Quando l’arte fa discutere è arte vera, quando sono tutti d’accordo non è più arte, è marketing”
Cos’è l’arte Povera?
Le vicende dell’Arte Povera sono legate alla figura sopra citata del critico d’arte Germano Celant. È proprio Celant, sul finire degli anni Sessanta, a coniare questa definizione e a redigerne il manifesto. L’Arte Povera è un corrente artistica italiana, settentrionale, di stampo sostanzialmente concettuale… Esatto, l’arte del: “ma questo lo sapevo fare anche io!”.
Il movimento è in aperta polemica con le ricerche della Pop Art e si contrappone alla cultura dei consumi, al conformismo, alla mercificazione dell’artista e alla riduzione dell’opera d’arte ad oggetto commercializzabile.
Contrapposizione resa evidente dagli alberi di Penone che sono il simbolo antitetico del consumo immediato.
L’Arte Povera promuove il rinnovamento e l’ampliamento dei materiali impiegati dagli artisti: materiali vivi, elementi naturali, legno, metalli, tessuti organici sono affiancati da materiali di origine industriale. Questa duplicità evidenzia la divaricazione tra il mondo naturale e quello del progresso che caratterizza l’Italia dell’epoca. Siamo di fatto negli anni portati in scena da Antonioni in Deserto Rosso, film la cui poetica, per certi aspetti, riporta alla mente l’Arte Povera, con la sua attenzione ai processi di urbanizzazione del panorama urbano.
L’Arte Povera si fa beffa del mercato dell’arte e gioca con il concetto di prezzo e valore dell’opera artistica, nonostante ciò non riesce a sfuggirgli, ed i lavori dei suoi esponenti oggi valgono cifre esorbitanti. Basti pensare che tra le personalità che hanno ispirato il movimento vi sono Piero Manzoni e Duchamp.
Ma la carica rivoluzionaria di questa avanguardia è data dalla spiritualità, dall’esistenzialismo di cui le opere si fanno carico, mostrando l’artificio dell’arte per mezzo di illusioni. Infatti, essa rigetta il concetto d’arte così come era conosciuto fino a quel momento e lo rivoluziona. La fruizione delle opere pone interrogativi: questa è la genialità del movimento. Il fruitore si chiede perché stia osservando una determinata opera. L’Arte Povera compie una dichiarazione fortissima ma silente sul concetto di rappresentazione, del tutto nuova. Nel silenzio che lascia una tela dipinta interamente di un solo colore rimbomba la voce della propria coscienza. Il fruitore ha un ruolo attivo e risponde alle domande che l’artista gli pone attraverso le opere. “Cosa sono? Chi sono? Di cosa posso fidarmi? L’Abete di Penone è reale o è finzione?”
L’Arte Povera riconfigura l’idea del ruolo della natura nell’arte in un modo del tutto diverso dalla Land art (le famose spirali di Robert Smithson e le installazioni di Christo e Jeanne-Claude, celebri per “impacchettare” paesaggi, alberi, e monumenti).
La Land art esce prepotentemente dai musei, si libera dalla galleria e si inserisce intrusivamente nel panorama. Il suo scopo non è comprendere la natura, anzi, è un arte antropocentrica in cui l’artista stravolge il paesaggio. L’Arte Povera al contrario si interroga con umiltà su cosa sia la natura. Predilige le modalità espositive effimere come la performance e l’installazione.
E tu cosa ne pensi di “Abete” ? Qual è il suo significato?
Ci sono alcune città come Firenze, Roma, Venezia, Milano… in cui ogni volta che si sposta un mattone o si iniziano dei lavori, esiste la probabilità che si stia per trovare qualcosa di inaspettato. Qualcosa che potrebbe cambiare le carte in tavola, o qualcosa che spesso porta le Soprintendenze a cambiare le regole del gioco. Diciamo la verità: forse è un aspetto che caratterizza proprio tutto il Bel paese.
Andiamo per ordine: agli Uffizi è periodo di lavori, di restauri e di riarrangiamenti vari in vista della tanto attesa riapertura.
La panoplia ritrovata al centro del soffitto Fonte: 055 Firenze
Questi lavori hanno interessato principalmente l’ala di Ponente del museo, per un totale di circa 2000 metri quadrati finora inaccessibili: sono 8 le sale di Ponente restaurate, 14 le sale al piano terra nell’area di Levante, oltre ad altre 21 nella zona dell’interrato. I “nuovi” spazi disponibili presentano una doppia valenza: da un lato sono da inserire nell’ambito dei lavori per la realizzazione dei Nuovi Uffizi portati avanti dalla Soprintendenza insieme alle Gallerie, condotta dall’architetta Chiara Laura Tettamanti (direttrice dei lavori) e dell’architetto Francesco Fortino; dall’altro lato questi lavori comportano anche un importante riordinamento dell’accesso al complesso, infatti dalla riapertura in poi l’entrata sarà spostata dal lato più vicino all’Arno.
Sono stati anni, come dichiarato da Eike Schmidt, di “progresso nel recupero degli spazi, progresso che permette ora un accesso al museo più razionale e sicuro, e punti di accoglienza organizzati in modo più efficiente. A breve, quando saranno risistemate le sale a pianterreno dell’ala di Levante, la visita agli Uffizi potrà avere una gloriosa introduzione: nelle sale a pianterreno verrà infatti esposta la statuaria classica, con opere dai depositi e altre recentemente acquistate.”
Il giovane Cosimo II de’ Medici con le allegorie di Firenze e Siena, da attribuire al contesto del pittore Bernardino Poccetti Fonte: ANSA
Ma veniamo alle scoperte: proprio nell’area di Ponente sono riaffiorati due affreschi del Seicento. Uno di questi vede all’interno di un clipeo protagonista il granduca Ferdinando I; l’altro – che si presenta in condizioni di conservazione nettamente migliori – mostra un giovane Cosimo II de’ Medici, ritratto a figura intera e a grandezza naturale con intorno le allegorie di Firenze e Siena, da attribuire all’ambito del pittore Bernardino Poccetti (1548-1612), conosciuto e apprezzato nella Firenze dell’epoca per le sue opere figurative.
Negli spazi del piano terra sono inoltre venute alla luce numerose decorazioni presumibilmente settecentesche e ascrivibili al periodo del regno di Pietro Leopoldo di Lorena. Queste decorazioni sono caratterizzate da motivi vegetali e si sviluppano fra pareti e soffitto; al centro del soffitto trionfa una panoplia con dei fasci littori.
Questi affreschi saranno visibili al pubblico in quanto facenti parte della zona di ingresso del riordinato museo, le cui opere di restauro e riassestamento, come spesso accade, non iniziano e terminano in loro stesse, ma piuttosto agiscono come una sorta di richiamo dal passato glorioso (e per molti aspetti ancora sconosciuto) del complesso vasariano, che mantiene la capacità di sorprenderci ogni giorno di più.
Firenze ha una storia secolare nella pratica sartoriale, tutt’oggi coltiva quest’arte senza aver perso la nota e mirabile accuratezza manifatturiera. Infatti, questa attività viene ancora coltivata negli atelier della città, i quali cercano di stare al passo con la moda contemporanea e al tempo stesso guardano alla storia, soprattutto artistica, del capoluogo fiorentino che ne ha cristallizzato l’identità nel cuore di molti.
Nei riguardi di Firenze, i ritratti Medicei sono un ammaliante viaggio alla riscoperta della storia della moda oltre che una dimostrazione della versatilità sartoriale nei secoli.
Agnolo di Cosimo Tori detto il Bronzino Ritratto di Bia de’Medici 1542-1545, olio su tavola Galleria degli Uffizi sala 65 ( Fonte: galleria degli Uffizi)
I quadri più celebri che ritraggono i membri della famiglia portano la firma di Agnolo di Cosimo Tori, detto il Bronzino, che con catalettica visione immortala l’eleganza della figura, la raffinatezza dal tessuto prezioso e la sua accurata lavorazione. Il tutto accompagnato da gioielli di inaudita bellezza su cui il nostro sguardo si adagia nella contemplazione dell’insieme. Il volto non va in secondo piano ma si eleva in una cornice dettata dalla capigliatura rigorosa e luminosa, che ne sublima lo sguardo e con esso la sua anima nell’eterno.
Numerose sono le figure medicee che il Bronzino dipinse e con esse i loro incantevoli e impeccabili abiti, che ce ne evocano l’amorosa e attenta manifattura. Per citarne alcuni: Bia de’ Medici; Eleonora di Toledo e il figlio Giovanni; Maria di Cosimo de’ Medici; Cosimo I de Medici, Garzia de’ Medici ecc..
Tiziano Vecellio, “La Bella” 1536 olio su tela Galleria Palatina Firenza ( Fonte: wikipedia )
Tiziano Vecellio è un altro dei ritrattisti più noti del secolo, protagonista dell’arte veneziana assieme a Jacopo Sansovino e l’Aretino. ‘La bella’ è uno dei ritratti più enigmatici dell’artista veneto, perché ancora oggi, nonostante le ipotesi proposte, l’identità della donna raffigurata è sconosciuta. Il ritratto fu commissionato dalla famiglia della Rovere, e grazie a Vittoria della Rovere, quinta Granduchessa di Toscana, giunse a Firenze dove tutt’oggi è conservato presso la Galleria Palatina.
Sicuramente appartenente a una famiglia di alta estrazione sociale, la ‘bella’ è colta nel passaggio dalle tenebre alla luce –dall’ impotenza all’atto– così recuperando la teoria di Aristotele, cara al suo tempo. Abbandona la malinconia giorgionesca, e ad essa Tiziano sostituisce un prolungamento del tempo, che provoca un senso di serenità nel vivere la vita, come mostra il leggero sorriso della bocca. Particolarmente efficace è la resa estetica del soggetto e le componenti psicologiche che trasmette: nobiltà d’animo, risolutezza, intelligenza, candore. Inoltre, nel quadro immaginativo è riuscito a cogliere la varietà attimale dell’istante, si nota la rapidità delle pennellate che non rifiniscono nelle sue forme la figura, con l’obiettivo di cogliere la verità del momento nella sua trascorrenza.
Come Tiziano stesso scrisse in una delle lettere inviate a Ludovico Dolce: “la natura, della cui semplicità son segretario, mi detta ciò che compongo”. La natura è dunque immediatezza del sentire e quindi l’arte deve essere trascrizione immediata e diretta della ‘semplicità della natura’ senza rifinire o calcolare.
Lo scorso mese, l’abito raffigurato nel quadro ha acquisito consistenza materica grazie al corso di sartoria tenutosi a Firenze (il laboratorio è stato promosso da Fondazione CR Firenze e Associazione OMA – Osservatorio dei Mestieri d’Arte- con il patrocinio del Comune di Firenze). Acclamata è stata la donazione della sontuosa veste al Corteo Storico Fiorentino, la cui presentazione si è svolta la mattina del 23 marzo, a Spazio NOTA.
La sua realizzazione è stata dettata dall’usurato stato in cui si trovava il precedente abito, destinato alla capogruppo, oltre che essere un’ideale opportunità per attualizzare la veste di oltre trent’anni fa. L’abito non è una copia, ma una rivisitazione fedele dell’originale, che tende ad una maggiore agevolezza, con un tessuto traspirante e con decorazioni non rimovibili, e ad una maggiore armonia rispetto al resto del Corteo.
Orecchini, ideati dal designer Riccardo Penko (Fonte: gonews)
Per l’occasione, il designer Riccardo Penko ha progettato gli orecchini in argento dorato, anch’essi su ispirazione di quelli raffigurati nel dipinto. Realizzati completamente a mano, richiamano le antiche tecniche della tradizione orafa fiorentina.
Olivia Scaramuzzi, Consigliera di Fondazione CR Firenze, afferma a riguardo: “La donazione di quest’abito acquista oggi un significato importante di valorizzazione delle tradizioni popolari in un momento in cui la pandemia ha limitato le manifestazioni rievocative che rappresentano il cuore pulsante della memoria storica. Questa iniziativa è stata un’occasione importante di specializzazione sul tema della sartoria che siamo lieti abbia riscontrato un grande interesse. È anche il segnale di un efficace lavoro di squadra fra le varie realtà del territorio per dare opportunità lavorative ai giovani. Siamo infatti consapevoli che il valore del nostro passato unito alla creatività propria delle nuove generazioni riescono a tramandare quella bellezza del fatto a mano che è una delle grandi risorse per la rinascita del Paese”.
Natascha Ferrucci, Capogruppo delle Madonne fiorentine nel Corteo Storico. Nella foto, indossa la veste prodotta a mano dal corso di sartoria della città. (Fonte: gonews)
CORTEO STORICO
Il Corteo Storico Fiorentino è un evento a cui sono molto legati i suoi cittadini. Inizia la sua celebrazione in occasione dei festeggiamenti per il quarto centenario della Partita dell’Assedio. La Partita si svolse il 17 febbraio del 1530, al tempo si festeggiava la ricorrenza del Carnevale, in un momento di grande importanza storica, ovvero l’Assedio militare di Firenze ad opera delle armate di Carlo V.
Epilogo di questo periodo drammatico fu la Battaglia di Gavinana, che si consumò il 3 agosto 1530 presso l’omonimo paese del Pistoiese, determinando la restaurazione dei Medici al governo della città, e la morte di Francesco Ferrucci.
Statua di Francesco Ferrucci (1489-1530) , condottiero della Repubblica di Firenze (Fonte: wikipedia)
Quest’ultimo oggi viene ricordato come eroe fiorentino e italiano, il quale dedicò la sua vita al servigio della Repubblica di Firenze, e che per essa morì. Oggi rivive tra noi attraverso le numerose commemorazioni che si sono susseguite nei secoli e che ne hanno lasciato ricordo, per esempio, viene citato nella quarta strofa dell’Inno di Mameli:
“Dall’Alpi a Sicilia
Dovunque è Legnano,
Ogn’uom di Ferruccio
Ha il core, ha la mano,
I bimbi d’Italia
Si chiaman Balilla,
Il suon d’ogni squilla
I Vespri suonò”
Inoltre non posso non citare il suo ritratto statuario posto in una delle nicchie che affacciano verso l’Arno nella loggia della Galleria degli Uffizi, vigile e armato mentre mira l’orizzonte più lontano.
Il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze ha riscontato e ufficializzato un’intesa molto promettente con il Museo delle Terre Nuove. Si tratta di una cooperazione che vedrà i due Enti collaborare su vari fronti: nell’ampliamento della ricerca universitaria e nelle attività museali, per consentire il progresso della comunità cittadina, trattando anche il tema dello sviluppo urbanistico in un’ottica ecosostenibile. Una sinergia, che avrà durata di tre anni, che guarda al futuro urbanistico e al progresso della ricerca, in poche parole alla salute culturale e infrastrutturale di tutta la comunità.
A riguardo di questa iniziativa entusiasmante, Fabio Franchi, Assessore della cultura del Comune di San Giovanni, afferma alla stampa: “Il Museo delle Terre Nuove ha da sempre una mission molto articolata che lo pone non solo come custode della storia di San Giovanni e delle Terre Nuove, ma anche come centro di riflessione sulla contemporaneità e lo sviluppo delle città. La collaborazione, finalizzata allo studio con il dipartimento di Architettura, rientra proprio in questo ambito e prevede l’organizzazione di iniziative per riflettere sul funzionamento della città, sul significato della pianificazione e sul nuovo volto delle realtà contemporanee, tra sostenibilità e le recenti necessità portate dalla pandemia”.
Oltre all’istituzionalizzazione di questa collaborazione hanno annunciato anche attività parallele, ovvero la partecipazione a progetti firmati MiBACT, ed una rigenerazione urbana a sfondo culturale, che come afferma l’Assessore è: “tema importante e non solo di stretta competenza degli Architetti”.
Insomma, notizia che ci lascia nell’attesa di scoprire quali saranno le novità che investiranno direttamente l’università e la città di Firenze, per ora ne possiamo trarre l’insegnamento che l’unione fa la forza soprattutto quando si parla del bene di tutta la comunità.
DIPARTIMENTO DI ARCHITETTURA
‘Museo Italia- Allestimento e museografia’ così si intitola il nuovo master di secondo livello annunciato dal DIDA. Corso che ha l’obiettivo di formare figure specializzate nel settore dell’allestimento e della museografia, capaci di operare consapevolmente nell’ambito della valorizzazione del nostro patrimonio culturale materiale, immateriale e paesaggistico fino all’exhibit design di tipo fieristico ed espositivo.
Paolo Zermani, coordinatore del master, richiama a sé Architetti, Ingegneri e Storici dell’Arte in questa partecipazione didattica, della durata di dodici mesi.
Gli ammessi apprenderanno, inoltre, come progettare spazi museali, allestimenti espositivi, e installazioni temporanee e svilupperanno un approccio multidisciplinare al tema della conservazione e fruizione dei beni culturali.
Le candidature per l’ammissione alla prima edizione del master hanno chiuso il 12 febbraio. Ogni anno saranno previste tra gennaio e febbraio l’apertura alle candidature, ma non temere se sei interessato, ho una buona notizia: Il master ha un massimo di trenta posti (la scelta viene fatta in base ai titoli di studi conseguiti) ma quest’anno, a seguito del notevole numero di candidati, il comitato ordinatore ha deliberato di aumentare i posti disponibili di cinque unità portandoli quindi a trentacinque. Un anno molto fortunato per chi si è candidato, mai dire mai che possa capitare anche l’anno prossimo.
MUSEO DELLE TERRE NUOVE
Museo delle Terre Nuove sorge nell’antico e cosiddetto Palazzo di “Arnolfo” in piazza Cavour, a San Giovanni Valdarno, Arezzo. L’appellativo del Palazzo si diffonde all’indomani della seconda guerra mondiale, e già dal 1909 era stato dichiarato monumento nazionale. Le sale del museo sono allestite negli spazi che tra il XIII e XIV secolo erano adibite all’amministrazione della giustizia e allo stoccaggio dei cereali. Dunque, una fonte di vita essenziale per l’intera popolazione di San Giovanni Valdarno. Lo sapevano bene i rappresentanti fiorentini più in vista del tempo, che affissero i loro stemmi familiari sul paramento murario, determinando così un trionfo di elementi araldici sul fronte, che conferisce una valenza plastica, oltre che memoriale alla struttura architettonica.
Il Museo delle Terre Nuove ultimamente è ricco di iniziative che ci mediano telematicamente la loro passione per la cultura e la ricerca. Il sito web del museo è ottimo per rimanere aggiornati sulle numerose conferenze e le novità museali.
A proposito di ciò vi consiglio Venerdì 23 Aprile, alle ore 17.30, di seguire la conferenza a cura di Michel Feuillet che interesserà l’Annunciazione di San Giovanni Valdarno dipinta dal celebre pittore Beato Angelico negli anni ‘30 del 400.
E’ possibile seguirla in streaming sulla pagina Facebook del Museo Basilica S. Maria delle Grazie.