L’uomo dei dolori

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L’ammirazione verso la pittura ‘celestiale’ di un artista quale Sandro Botticelli è difficile da obliterare o soffocare. Più recentemente, la sua reputazione è stata al centro di vivaci discussioni culturali, ed il suo nome è risuonato nell’attesa impellente degli esiti dell’asta di Sotheby’s. 

Ma facciamo un passo indietro con l’aiuto di uno dei massimi critici d’arte del nostro tempo: Jerry Saltz, classe 1951 il quale nasce a Chicago, dopo aver conseguito una formazione accademica, negli anni 90’ si trasferisce a New York per potersi dedicare all’arte da un punto di vista “teorico”. 

Dal 2006 inizia a scrivere in veste di critico d’arte per la famigerata rivista americana New York, e ha diffuso numerosissimi beni culturali con la sua arguta e perspicace scrittura fino a colpire il cuore di molti americani, e non solo. Ricordo inoltre che nel 2018 si è aggiudicato il premio Pulitzer per un corpus di opere che inquadravano l’arte visiva Americana come mai prima. 

Nel 2020 Jerry Saltz scrive un articolo pubblicato sulla testata New York ed intitolato This is the saddest picture i have ever seen (Questo è il dipinto più triste che abbia mai visto).

Si riferisce ad una tavoletta quattrocentesca, Il pianto di Mardocheo (Roma, Palazzo Pallavicini – Rospigliosi) attribuita variamente nel corso degli anni a Filippo Lippi, da altri a Sandro Botticelli, oppure ad una collaborazione fra i due fiorentini. 

PIANTO DI MARDOCHEO 

La tavoletta, era, assieme ad altre, tassello fondamentale di uno dei due cassoni con le Storie di Ester datate 1475.

Di seguito vi riporto delle righe che discutono dell’opera, il resoconto critico è stato trattato nel corso di storia della critica d’arte all’Università degli Studi di Firenze, e per mio conto direi essere lo scritto critico più bello che abbia mai letto:

“Il piccolo e quasi sconosciuto capolavoro quattrocentesco di Sandro Botticelli ci mostra un essere umano spogliato di ogni speranza. Il dipinto è un crogiolo metafisico pieno delle disgrazie del mondo esterno, di emozioni invisibili, di vergogna, del pianto delle cose ultime, di perdite cataclismiche, di silenzio, di viaggi finali, della cessazione della vita, di intensità demoniaca e della ritrazione del sé. Spesso chiamato, con aderenza perfetta, La Derelitta (ossia “The Desperate One” ) è il dipinto più triste che abbia mai visto, benché io non l’abbia mai visto dal vivo. Lo vidi per la prima volta quando avevo vent’anni. A forza di chiacchiere mi ero fatto assumere presso la School of the Art Institute of Chicago, dove proiettavo le diapositive nelle lezioni di storia dell’arte. Il pomeriggio in cui lo proiettai, rimasi stravolto.”

“Non c’è modo per entrare visivamente in questo quadro né per uscirne: non c’è spazio. È tutto muro, una sorta di brutalismo premoderno o di rigido minimalismo. Tutto è spoglio di ornamentazione, reso come in basso rilievo, irreale, onirico, sminuito ma concreto, realistico. Botticelli creò The Desperate One a Firenze mentre si avvicinava ad un momento di crisi nella propria vita.The Desperate One, dipinto in anticipazione profetica di tutto ciò…

(Ovvero, le vicende fiorentine di Girolamo Savonarola: l’affermarsi della sua influenza, il declino, il supplizio.)

“ …ci fa intravvedere la desolazione interiore che Botticelli provava. Questo è un mondo bruciato, impoverito. La figura addolorata è piegata su sé stessa. Il suo volto è nascosto: sono visibili soltanto i fluenti capelli maschili. È scalzo come quei danzatori dionisiaci e quelle ninfe che Botticelli aveva dipinto in precedenza e di cui ora si disperava. (…) Tranne che per alcune visioni mistiche, Botticelli trascorse i suoi ultimi anni in un improduttivo esilio emotivo. Visse per vedere il suo stile quattrocentesco soppiantato dai tre grandi del Rinascimento: Michelangelo, Leonardo e Raffaello. Botticelli fu quasi dimenticato fino al XIX secolo, quando i preraffaelliti se ne riappropriano (…)”

“Mi soffermo su l’unico particolare del quadro, una piccola porta di legno a due ante sormontata da una struttura in ferro che chiude un atrio stretto e poco profondo. Questa porta è importante, lo so. Appena sopra di essa si scorge l’unica tregua visiva del quadro: una macchia di cielo blu. Mi struggo dalla voglia di sapere cosa c’è di là di quella porta, e mi balza in testa una strana domanda: La porta si aprirà mai?”

“Ora la vedo: alla porta manca qualcosa e questa assenza finalmente svela il segreto del quadro. L’ho sempre saputo ma non l’avevo mai notato prima: su quella porta non c’è né pomo, né maniglia, né chiavistello, né leva.”

“Anche se alcuni studiosi ritengono che il dipinto raffiguri Mardocheo del Libro di Ester, io vedo la figura come quella di Botticelli. Potrebbe stare all’Inferno, ma siccome non ci sono porte non ne ho la certezza. Suppongo piuttosto che stia fuori alle porte chiuse del Paradiso. La porta che gli sta davanti può essere aperta soltanto dall’interno, da San Pietro, che ci pesa i peccati, le azioni, la vita. Le credenze e le azioni di Botticelli lo hanno condannato, e lui lo sa. Non è l’Inferno questo. È un purgatorio terribile di dolore consapevole. Questo piccolo quadro emette un grido incessante.” 

“Non il detto di Sartre, con quel suo sorrisetto da esistenzialista, “L’inferno sono gli altri”; ma piuttosto qualcosa che sento ogni giorno sempre di più da chi sta uscendo dal proprio isolamento: L’inferno è la mancanza degli altri.”

Scritto che sottolinea anche la forza evocativa e in alcuni casi logorante delle opere di Botticelli, sentimenti molte volte celati dietro ad una bellezza trascendente, definita dagli storici dell’arte ‘ botticelliana ‘. 

Questo è il caso del L‘Uomo dei Dolori di Sandro Botticelli, è una delle opere su cui si sono rivolti i proiettori dei giornali e le aspettative degli studiosi nell’ultima asta di Sotheby’s di New York ,svoltasi lo scorso 27 gennaio. 

E’ una raffigurazione essenziale e drammatica che ritrae Cristo su sfondo nero circondato da angeli, questi ultimi sono privati dei colori celestiali tipici della gioia botticelliana, al contrario sono resi grigi come la pietra con cui è stato lapidato il loro Signore, e tengono i segni della Passione. Le mani del salvatore sono legate da corde, altrettanti simboli della Passione, e la Corona di spine che cinge la testa di Dio. Il volto è privo di dolore seppur questo sia trasmesso dal solo sguardo languido e profondo che tiene l’osservatore in balia di cordoglio taciuto.

 Botticelli lo dipinse quando aveva oltre cinquanta anni e fu una delle ultime opere da lui concepite, ecco che è stato definito da Sotheby’s “un capolavoro assoluto degli ultimi anni di Botticelli” 

La storia del quadro ha inizio nell’Ottocento quando era di proprietà di Adelaide Kemble Sartoris, famosa cantante lirica britannica. In seguito, ereditato dalla pronipote Lady Cuninghame che lo vendette all’asta nel 1963, acquistato da una collezione privata fu visibile al grande pubblico solo nel 2009, anno in cui fu esposto come una delle ‘rare gemme’ di una retrospettiva dedicata a Botticelli dallo Städel Museum di Francoforte.

L’attenzione sul dipinto si è accentuata ulteriormente dalla scoperta dell’immagine di una Madonna con Bambino celata sotto lo strato di colore brillante. Conclusione a cui si è giunti in seguito ad un’analisi a raggi infrarossi condotta su l’Uomo dei Dolori di Sandro Botticelli, conquista che la rende ancora più interessante e affascinante. Si tratta di una pratica consueta delle botteghe rinascimentali, perché il supporto è una tavola di pioppo, materiale raro e pregiato al tempo, dunque anche nel caso di un dipinto incompiuto, in questo caso la versione della Madonna col Bambino, non si sarebbe scelto di buttare via la tavola. La scelta migliore era conservare il supporto pregiato e ricominciare da capo, con un nuovo strato di colore.

Interessante che l’iconografia sia’ quella della “Madonna della Tenerezza”, elemento che attesta lo sguardo del pittore rivolto alle icone greco-bizantine, raffigurazione che convenzionalmente vuole la Vergine tenere la testa di Gesù bambino, guancia a guancia contro la sua.

L’UOMO DEI DOLORI 

Alcuni studiosi ritengono che il pittore abbia adottato uno stile intriso di simbolismo e spiritualità cristiana, essendo stato dipinto nel periodo in cui l’artista era sotto la sfera di influenza di Girolamo Savonarola, il celebre frate domenicano i cui scritti si diffusero enormemente nella città del Rinascimento. Se ne deduce che il dipinto ne diverrebbe riflesso delle teorie e del fervore religioso che alimentava gli animi dei fiorentini alla fine del 400 inizio 500. Era un clima di predizioni apocalittiche, scatenatesi dopo la cacciata dei Medici, e le speranze di salvezza personale avevano raggiunto livelli di particolare intensità. 

Ma come afferma Chris Apostle, responsabile dei dipinti rinascimentali e barocchi di Sotheby’s : “Quello che trovo commovente è che Cristo è un po’ fuori centro. Botticelli ha inclinato leggermente la testa” accorgimento che secondo l’esperto dona al dipinto una carica emotiva e umana. 

“È un dipinto metafisico di una persona matura che affronta la propria mortalità, ed è questo che lo rende così commovente: man mano che qualcuno invecchia, diventa più introspettivo, più metafisico, più spirituale. E penso che si veda molto profondamente in questa immagine”.

Sandro Botticelli: particolare di 'Giovane che tiene in mano un tondello'
GIOVANE UOMO CON UNA MEDAGLIA IN MANO

Il grande entusiasmo che ha condotto il dipinto fino al giorno dell’asta si è spento in una risentita ‘delusione’ provata da molti, perché l’opera è stata battuta per una cifra poco superiore alla base d’asta. Infatti, dai 40 milioni di partenza l’opera è stata venduta alla cifra di 45,4 milioni di dollari. Questa insoddisfazione trova ragione alla luce dell’ultima vendita del dipinto di Botticelli Giovane uomo con in mano una medaglia che poco più di un anno fa era stato venduto, sempre dell’asta di Sotheby’s, per la cifra di 92,2 milioni di dollari. Cifra record per il maestro rinascimentale. 

Ad alleviare questa insoddisfazione vi è una buona notizia: L’Uomo dei Dolori prenderà parte alla grande mostra retrospettiva dedicata a Sandro Botticelli presso Minneapolis, assieme ad altre opere della nostra amata Galleria degli Uffizi. 

Beatrice Carrara

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Il calcio fiorentino: perché parlarne a febbraio?

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Una delle motivazioni per le quali è particolarmente stimolante affrontare il percorso universitario a Firenze è legata al fatto che spesso ci si ritrova a tu per tu con ciò che si studia, si possono percepire al 100% tanti aspetti spiegati durante le lezioni; student* di lettere possono passare per le stesse vie percorse da Dante, così come student* di storia dell’arte possono godersi ogni giorno le meraviglie studiate in aula. Questo accade anche per coloro che affrontano un corso di antropologia culturale, disciplina quanto mai vasta, che nell’anno accademico 2020/2021 è stato condotto dal professor Nardini, specializzato in antropologia dello sport.

Vista sul lato più vicino alla chiesa con gli spalti per i numerosi tifosi
Fonte: florence on the line

Branca dell’antropologia culturale relativamente giovane (rispetto alle altre), dagli ultimi decenni del secolo scorso inizia a farsi spazio in un panorama che come sappiamo bene ha visto lo sport prendere sempre più importanza a livello collettivo, senza essere dunque considerata un’attività elitaria come un tempo, ma che crea e subisce fenomeni non trascurabili su diversi livelli, basti pensare all’ampio seguito che ha oggi il calcio, ma anche il tennis, o il basket. Queste attività, con le loro numerose sorelle, possono essere buone per pensare in quanto offrono una lente su loro stesse e su tutto l’ambiente che intorno vi si crea, ambiente che diventa così portatore e veicolo di significato, di cultura: questi sono solo alcuni dei prerequisiti che devono sussistere per far sì che certe attività possano entrare a far parte di quelle tutelate dall’UNESCO, che dal 2003 tutela i beni culturali intangibili, ossia tutte quelle attività (danze, giochi, aspetti linguistici, tradizioni artigianali…) che hanno un significato rilevante e che concorre a creare senso di identità per le comunità in cui queste attività si realizzano.

I calcianti che si sfidano: rossi contro verdi
Fonte: Cultura comune

Questa definizione, seppur superficiale, porta con sé dei potenziali problemi che non possono essere affrontati in questa sede, ciononostante è importante rilevarne almeno uno, per provare a meglio comprendere la complessità stante dietro questo tipo di dinamiche: si parla quanto mai spesso di concetti quali la “collettività”, la “società”, ma davvero esiste una sola società? Una sola collettività? In un panorama eterogeneo come quello fiorentino (e sfido a trovare un panorama non eterogeneo, oggi) non è così semplice e “matematico” avere una società che si trovi d’accordo su un dato tema, aspetto che però è fondante ai fini della candidatura di un determinato bene (sia esso intangibile o tangibile) nella lista dei beni UNESCO. La storia del riconoscimento del calcio storico fiorentino è dunque una storia che si lega alle disposizioni date dall’UNESCO e dalla Convenzione di Faro, aspetti che comunque viaggiano sui binari “nuovi” dell’intangibilità, ancora privi di una prassi consolidata dal tempo, con tutte le difficoltà del caso, storia che si lega inoltre sul senso di appartenenza a un dato quartiere storico, alla città fiorentina e al senso di profonda capacità ironica stante dietro all’immaginario del “fiorentino”. Ma perché?

Il calcio fiorentino è una realtà poliedrica che è stata in grado di rimanere cifra caratteristica di una società che, da sempre, è molto attenta a rivendicare il senso di appartenenza alla città: quella fiorentina. Per lungo tempo gli abitanti dei quartieri storici di Firenze -Santa Croce, San Lorenzo, Santo Spirito, Santa Maria Novella- si sono ritrovati, in diversi momenti dell’anno, a rincorrere la vittoria del calcio fiorentino attraverso le cacce in Piazza Santa Croce, al cospetto della chiesa. 

Si deve notare che il calcio fiorentino appartiene a quella sfera di pratiche tradizionali che nell’immaginario collettivo ha assunto una dignità anche in ragione del tempo e della risalenza nei secoli: ma è davvero una pratica così antica?

Si trovano notizie della pratica del calcio fiorentino già nel XVI secolo, come attività svolta inizialmente dalle parti subalterne; durante il XVI secolo si assiste a una sorta di elevazione del gioco, che arriva a essere praticata dai figli dei signorotti fiorentini che potevano così fare pratica per le attività militari, e mettevano in scena le partite in momenti importanti come per le visite di alleati, per i matrimoni dell’alta società, dunque per festeggiare momenti di coesione sociale e per celebrare il potere. Perché parlarne a febbraio? 

Ne parliamo a febbraio perché è proprio una partita giocata in questo mese, nel lontano 1530, che costituisce il modello per le partite poste in essere ancora oggi: nel 1530 fu giocata infatti una partita, passata alla storia come la partita dell’assedio, nel febbraio che vedeva le mura fiorentine assediate da Carlo V. Questo contesto diventò per gli abitanti un’occasione per dimostrare che lo spirito fiorentino, quello sarcastico, divertente e giocoso, non poteva soccombere; nonostante la sconfitta militare, i fiorentini avevano ancora qualcosa da dimostrare. Così, il 17 febbraio, sotto lo sguardo incredulo delle truppe di Carlo V (che vedevano la piazza di Santa Croce dalle colline circostanti dove si trovavano ormai prossimi a concludere l’assedio) si svolse la partita dell’assedio, che si sarebbe svolta come d’uso all’epoca, in occasione del carnevale. 

L’evento che oggi si rievoca è dunque un evento di scherno verso un nemico che sì, sta per vincere, ma che non vincerà in tutto, perché lo spirito ironico e sbeffeggiatore fiorentino non si piega. Questo è il vero soggetto della rievocazione che, grazie all’apporto dato dal celebre Corteo Storico fiorentino, trova espressione ogni anno. 

Il campo di sabbia visto dal lato della Chiesa di Santa Croce
Fonte: visit-italy

Dopo questa partita del 1530 si continuò a giocare ma, curiosamente, ci sono sempre meno fonti che testimoniano il proseguimento della pratica; in questo senso assume valore la riscoperta del gioco da parte di Pietro Gori, che nel 1898 inizia una ricerca a tratti filologica atta a ritrovare questo gioco che, dall’arrivo dei Lorena in città, scomparve gradualmente dalla memoria cittadina. I frutti della ricerca da lui effettuata portano, nel 1902, a una prima rievocazione storica del gioco e dei costumi tradizionali: di grande impatto a livello sociale e collettivo, questo evento (ripetutosi nello stesso anno), non venne istituzionalizzato come pratica annuale. Alla sua istituzionalizzazione pensò Pavolini una ventina di anni dopo (sounds familiar?), che con un gruppo nutrito di persone, creò un comitato per la ricostruzione del gioco fiorentino: il fascismo, come ben sappiamo, era solito andare a recuperare aspetti rimasti impolverati nel passato storico di una città per riesumarli, modificarli e piegarli per ottenere aderenza e forza per la propaganda, nella “prassi della dittatura”. Questo è avvenuto: per volere di questo comitato iniziarono ricerche ancora più profonde di quelle portate avanti da Gianluca Gori, che portarono anche a un’analisi capillare degli affreschi del Salone dei ‘500 a Palazzo della Signoria atti a ricostruire nel modo più verosimile l’evento, i costumi, l’atmosfera. Il fascismo fu dunque un momento in cui il calcio fiorentino vide una strumentalizzazione che lo portò ad assumere anche il nome “storico”, proprio per evidenziare la sua natura rievocativa: la prima partita si tenne nel 1930, a 400 anni dalla morte di Francesco Ferrucci. Non a caso, nel 1926 nasceva l’AC Fiorentina, perciò si stava creando una dimensione sportiva peculiare della città, cui gli abitanti potevano fare riferimento per costruire e tessere il senso di appartenenza. Il calcio storico subì un’interruzione per la guerra, ma venne reintrodotto nel ‘47 in un contesto politico stravolto, ma se ne mantenne la stessa narrazione. In una Firenze distrutta, il calcio storico venne reintrodotto dall’amministrazione locale che possedeva segno politico inverso, ma che decise comunque di re introdurlo grazie alla presa che aveva avuto sulla cittadinanza. C’erano motivazioni radicate nelle logiche sociali del periodo: la riscoperta delle tradizioni, il turismo che si avviava ad assumere il suo ruolo fondamentale… l’amministrazione del dopoguerra spinse per reintrodurla anche per le possibilità che portava di rinascita e spinta economica per la città. Si fece pressione facendo leva sulla stessa narrazione della partita dell’assedio, ma assumendo un’accezione radicalmente diversa: questo è importante perché pone in luce come sia possibile dare allo stesso racconto significati diversi, anche opposti.

Oggi il calcio fiorentino si celebra con  il Torneo di San Giovanni, a giugno, con la finale il 24, giorno in cui si rende omaggio al santo patrono di Firenze. I 4 quartieri storici si sfidano in un gioco di palla in cui lo scopo è piazzare la palla in una rete per fare punteggio: per perseguire tale obiettivo sono usate tecniche di lotta e pugilato. Ogni partita è introdotta da una sfilata del corteo storico che termina in piazza Santa Croce, composto da ben 530 partecipanti i cui costumi sono stati riconosciuti per la loro raffinatezza artigianale. Attualmente, se il corteo è rimasto lo stesso sia nel percorso che nei personaggi, il gioco si è evoluto in funzione del contesto sportivo. Inizialmente c’erano atleti di diversa estrazione sociale a partecipare, e venivano estremizzati gli aspetti più violenti di ogni pratica sportiva praticata all’esterno. Oggi, i facenti parte sono atleti professionisti, e oltre al loro sport di riferimento praticano anche il calcio fiorentino: questo ha scremato la possibilità di accedere al gioco, perché il livello atletico si è alzato di molto. Si è alzata anche la violenza del gioco, considerando che si tratta di atleti tecnicamente a livelli altissimi che si interfacciano inoltre a livelli di mediatizzazione molto grandi, essendo stati oggetto di documentari per canali internazionali; Netflix ha prodotto un documentario. 

Questa scenografia si crea nel centro storico di Firenze, che è l’essenza della storia gloriosa che il calcio storico si incarica di rievocare. Questo perché il centro storico di Firenze è la rappresentazione emblematica del Rinascimento italiano (periodo storico che rimane comunque fuori dalla rievocazione del calcio); è diventato patrimonio UNESCO nel 1982, e oggi torna a essere centro d’interesse per le nuove declinazioni del patrimonio, ossia quelle intangibili. 

I costumi sono stati riconosciuti come portatori di valore artigianale e artistico, e la Soprintendenza aveva avviato il procedimento per la salvaguardia dei beni secondo il concetto classico di patrimonio, legato al valore artistico e materiale degli oggetti. A tal punto è intervenuto il Ministero per avviare un progetto che riguarda aspetti più immateriali circa il corteo e la manifestazione del calcio storico. Il progetto di salvaguardia verte sulle linee guida dell’UNESCO e della Convenzione quadro di Faro, e si pone come obiettivo la salvaguardia e il riconoscimento del valore del palio di Siena e del calcio storico, con il loro grande impatto sulla/sulle collettività dei luoghi in cui si svolgono.

Daria Passaponti

 

Uno scrigno di artigianato

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L’Opificio delle pietre dure è noto per il centro di restauro che sorge nella città di Firenze. La sua fama l’ha conquistata grazie ai numerosi restauri che ha svolto in tutta Italia, con l’intento di riportare le opere al loro originale splendore nell’ottica del progetto originale dell’artista. Un esempio recente è il Nano Morgante di Agnolo Bronzino, la cui particolarità ce la tramanda lo stesso Giorgio Vasari, nell’essere dipinta sia sul fronte sia sul retro: «Ritrasse poi Bronzino, al duca Cosimo, Morgante nano, ignudo, tutto intero, et in due modi, cioè da un lato del quadro il dinanzi e dall’altro il didietro, con quella stravaganza di membra mostruose che ha quel nano: la qual pittura in quel genere è bella e meravigliosa» (Vasari, Vita del Bronzino). 

La tela è datata 1553 in base al numero di inventario Mediceo, che in quell’anno la collocava presso il Guardaroba dei Granduchi a Palazzo Pitti. Nell’Ottocento fu soggetta a pesanti ridipinture volte a dare l’aspetto del Dio Bacco al Nano Morgante. Ecco dunque che furono coperte le nudità con grappoli di vite; nelle mani vennero poste un’anfora e una coppa e oscurata la ghiandaia sullo sfondo. Queste aggiunte furono rimosse solo nel 2010 grazie ad un lavoro di restauro delicatissimo condotto dall’Opificio, che ha permesso di ripristinare l’originale intento di Agnolo Bronzino nei confronti di Cosimo I de’ Medici, e al Nano Morgante per la sua dignità di abile cacciatore di uccelli, celebrata dalle fonti storiche.

La storia dell’Opificio la possiamo ripercorrere passo dopo passo nel suo Museo in Via degli Alfani, dove si colloca anche una delle tre sedi di laboratorio di restauro (le altre due rispettivamente a Palazzo Vecchio e alla Fortezza da Basso), oltre alla storica Biblioteca e l’archivio dei restauri compiuti. L’attuale percorso museale è frutto della ristrutturazione architettonica avviata nel 1995 su progetto di Adolfo Natalini, e del riordino della raccolta a cura di Anna Maria Giusti. Il progetto finale diviene un riflesso della vita e delle vicende della secolare attività produttiva di questo luogo.

CENNI STORICI

L’Opificio sorge nel 1588 per il decreto del Granduca Ferdinando I de’ Medici, con la volontà di portare a termine il sogno della Basilica di San Lorenzo, di ricoprirla di marmi pregiati. Dunque, coloro che si formavano presso l’Opificio dovevano diventare abili artigiani nella lavorazione delle pietre.

L’interesse verso queste tecniche di lavorazione vi era già al tempo di Lorenzo de’ Medici e continua spassionata con Cosimo I de’ Medici, interessato soprattutto al porfido in quanto materiale nobile e duraturo, legato alla tradizione della Roma Imperiale. 

È proprio nel periodo di Cosimo che si posero le basi per la fioritura del “commesso” fiorentino, tecnica di lavorazione di marmi e vetri colorati che si sviluppa sin da subito nell’Opificio, destinata a diventare tecnica identificativa di Firenze e dei suoi manufatti artigianali. Infatti, l’attività e il successo internazionale della manifattura fiorentina proseguirono ininterrottamente per oltre tre secoli.

IL COMMESSO 

Il commesso è una tecnica raffinatissima e abilissima che si può definire pittura di pietra, si avvale delle cromie naturali di pietre e vetri colorati, tagliate sapientemente e accostate a formare l’immagine di insieme. L’acutezza tecnica e il pregio dei materiali contribuirono all’immediata e durevole fortuna di questo genere di mosaico, che in sé fa trionfare la meraviglia della natura e dell’arte tecnica.

Un esempio eccelso di questa tecnica lo possiamo ammirare presso la Cappella dei Prìncipi nella Basilica di San Lorenzo. La costruzione si avvia nel 1604 per volontà del granduca Ferdinando I. L’intento era di costruire una grandiosa cappella funebre destinata a perpetuare la memoria della dinastia dei Medici. Tutt’oggi continua a lasciare senza parole e forse anche senza fiato ogni visitatore, che diviene spettatore del bagliore e della ricercatezza di pietre e metalli pregiatissimi. 

Tanto era ambizioso il progetto che i Medici non ebbero la fortuna di vederla finita: si concluse solo nel secolo successivo sotto la dinastia degli Asburgo Lorena. 

In una sezione del Museo dell’Opificio delle Pietre dure sono raccolte parte dei progetti e delle opere di questa plurisecolare impresa della Cappella, tra i quali la serie di dieci pannelli destinati all’altare. 

O ancora il busto monumentale di Cosimo I de’ Medici, concepito da Bernardo Buontalenti e Lorenzo Latini. Dovete sapere che, secondo l’iniziale progetto, le attuali statue funerarie dei Granduchi nella Cappella dei Prìncipi dovevano essere scolpite in marmi policromi; solo successivamente furono eseguite in bronzo. 

Nel Seicento si affermarono nei mosaici fiorentini soggetti naturalistici di fiori, frutta e uccelli che predominano nella decorazione dei manufatti fino al tardo Settecento. Questo motivo si ritrova anche nell’acceso dialogo tra pittori, scultori, orafi, ebanisti e maestri di pietre dure nella creazione di opere. Questa peculiarità senza tempo permette alle loro finezze tecniche ed inventive di combinarsi nella creazione di oggetti unici, anche grazie alla meditata scelta del materiale prezioso.

Molte volte utilizzavano il commesso e il rilievo di pietre dure in abbinamento con altri pregiati materiali, quali il bronzo dorato, l’ebano, l’argento nel concepimento di tavoli, stipiti, cornici, reliquiari, orologi e cassette, insomma negli oggetti d’uso più svariati e ricercati al tempo.

Un nome da non dimenticare è Giovan Battista Foggini eccelso scultore e architetto del periodo barocco che lascia la sua firma nella città di Firenze. Il Foggini a fine Seicento diresse la manifattura con un nuovo impulso, volto a utilizzare le tecniche di maggiore pregio fino ad allora sviluppatosi, nella creazione di opere nuove, inimitabili e sbalorditive.

Nel piano sopraelevato del Museo è esposta la vastissima gamma di pietre preziose in cui la Casata Medicea investì enormi ricchezze e sconfinata passione nella ricerca delle pietre più pregiate che confluirono a Firenze da tutto il mondo allora conosciuto. Per coloro che amano i materiali poter vedere le venature e le tonalità di queste pietre è un vero divertimento, e vi do la certezza che vi lasceranno senza parole.

Sempre in questa sezione, dedicata alle tecniche di lavorazione, sono presenti i banchi da lavoro ottocenteschi. Ebbene sì, perché l’elevatezza e la ricercatezza di questa lavorazione non poteva essere ottenuta con banchi da lavoro qualsiasi. Ecco dunque i banchi studiati e creati appositamente per operare questa tecnica: sono dotati di raschietto e seghetto con cui si tagliavano le pietre con la precisione analitica che solo l’artigiano poteva determinare.

Dal 1737, con il sorgere del governo Lorenese del Granducato di Toscana, si abbandonarono gradualmente i tradizionali temi naturalistici su sfondo nero a favore di vedute paesaggistiche, spesso su ispirazione di pitture su tele. Infatti, molti pittori collaborarono con la manifattura, e le loro opere furono un punto di ispirazione nuovo per creare le opere a commesso.

Presso il museo possiamo ammirare l’accuratezza del commesso che riesce a reinterpretare con le pietre le pennellate pittoriche sulle tele, quasi da non credere.

Nel periodo post-unitario la Manifattura iniziò a conoscere una crisi irreversibile, l’Opificio dovette autofinanziarsi vendendo le sue produzioni recenti e antiche. 

Inoltre, i riconoscimenti internazionali conquistati dalle Esposizioni Universali non determinarono una conquista dal punto di vista economico per l’Opificio a causa della concorrenza agguerrita degli artigiani Fiorentini, che vendevano mosaici più scadenti ma meno costosi. Fu proprio allora che al direttore del tempo Edoardo Marchionni, nell’intento di cercare nuovi sbocchi per il patrimonio di risorse tecniche e manuali ormai secolari dell’Opificio, venne il colpo di genio: dare il via ad un’attività di restauro delle opere artistiche!

Allora il restauro era una pratica nascente, e fu grazie a quella brillante idea, che possiamo affermare che il restauro, ancora prima di salvare le opere d’arte, ha saputo mantenere viva e funzionale fino ai giorni nostri l’antica istituzione medicea.  Iniziò dunque quell’evoluzione dell’Opificio da manifattura artistica a laboratorio di restauro che oggi tanto abbiamo a cuore. 

Beatrice Carrara

L’inferno a Roma

Tempo di lettura: 10 minuti.

Le Scuderie del Quirinale: una certezza ormai, in fatto di mostre.

Dopo la ricca esposizione su Raffaello, in occasione dei 500 anni trascorsi dalla scomparsa dell’Urbinate, che aveva visto un’affluenza notevole nonostante le difficoltà legate allo scoppio della pandemia, questo luogo si offre ancora una volta come dimora temporanea per un’altra importante mostra: Inferno.

Certo è, che in fatto di centenari e ricorrenze, le Scuderie del Quirinale possono considerarsi ormai leader: in questo 2021 si celebra infatti il 700enario dalla morte di Dante Alighieri. Un’altra commemorazione a Dante, dunque. Un’altra lode lunga 10/11 sale, piena di storia e nozioni sulla situazione politica fiorentina, ravennate, italiana dunque, con excursus sulle sue doti poetiche.

E invece no.

Qui entra in gioco Jean Clair, pseudonimo di Gerard Régnier: l’accademico francese, storico e critico d’arte di fama internazionale, può vantare l’aver ricoperto ruoli importanti quali direttore del Musée Picasso, Direttore della sezione arti visive della Biennale di Venezia dal 1994 (l’anno successivo diresse l’edizione in toto), membro dell’Académie française dal 2008.

Jean Clair è riuscito a realizzare un’esposizione che non è su Dante, ma tratta ovviamente anche Dante. Questo è fondamentale perché in una mostra a tema Inferno è chiaro che Dante sia un perno del discorso; la difficoltà, affrontata in modo eccezionale dal curatore, è insita nel tentativo di non rendere Dante una presenza troppo importante, soffocante. Si può dire che Jean Clair sia riuscito in questo, e abbia reso Dante il nostro Virgilio nell’Inferno creato nelle Scuderie del Quirinale.

La mostra trova le sue ragioni d’essere non solo nel 700enario dantesco, ma anche in un profondo desiderio del curatore: come dichiarato nel 2020 in un’intervista al “Giornale dell’Arte” con Luana de Micco, Jean Clair aveva già proposto nel 2006 a diversi musei francesi e al Prado di Madrid questo tipo di progetto, sentendosi poi rispondere negativamente, “come se fosse incongruo all’epoca interessarsi all’Inferno”.

È stato certamente anche alla luce di ciò che lo studioso ha accettato volentieri la proposta delle Scuderie del Quirinale: l’organizzazione di questa esposizione, inserita nel più ampio programma di celebrazioni dantesche a livello nazionale gestito da Carlo Ossola, è stata per lui l’occasione di concludere (a suo dire) il lavoro di curatore su un tema spettacolare e che gli sta molto a cuore.

Immagine del curatore
fonte: wikipedia, Jean Clair nel 2003

Nella prima sala della mostra l’occhio del visitatore si trova già a dover compiere una scelta molto difficile riguardante la prima opera cui porre attenzione. La Porta dell’Inferno di Rodin (nel suo modello del 1989 in fusione a gesso in scala 1:1) gentilmente concesso in prestito dal Musée Rodin di Parigi oppure, a destra, la scultura La caduta degli angeli ribelli (1725-1735) attribuita a Francesco Bertos?

Porta dell’Inferno, Rodin, fusione a gesso 1:1, 1989
Caduta degli angeli ribelli, marmo di Carrara, 1725-1735, attr. Francesco Bertos

L’aver posto La caduta degli angeli ribelli nella prima sala della mostra mette in luce quanto sia importante ricordare “l’antefatto”, e per questo tema addirittura si è scelto anche di esporre La Caduta di Andrea Commodi, prestata dagli Uffizi. Le due opere (una scultorea, l’altra pittorica) dialogano dunque per restituire al visitatore una sorta di prequel, una dimostrazione di quanto è avvenuto prima. Prima di cosa? Prima della creazione di questo concetto immenso e caratterizzante per la nostra cultura, ma non solo: come viene brillantemente spiegato, in toni chiari ma mai banali dalle didascalie presenti a muro e in prossimità delle opere, la questione legata alla morte e all’Aldilà trova la sua centralità in qualsiasi realtà religiosa, sin dal principio. Effettivamente, è da sottolineare la puntualità di ogni descrizione presente in mostra, che accompagna il visitatore nel suo viaggio infernale rimanendo fondamentale punto di riferimento.

Nella prima sala, oltre a Rodin, Commodi e Bertos (?) , trovano spazio anche Gil de Ronza, con la sua Morte (1522 ca.) che strizza certamente l’occhio alla Maddalena donatelliana, e il Giudizio universale (1425) di Beato Angelico, direttamente dal Museo di San Marco fiorentino.

La Porta dell’Inferno di Rodin sbarra la strada verso i successivi gironi, quasi intimando al visitatore di non proseguire attraverso le terrificanti immagini con cui è decorata: la decorazione non reca però un’illustrazione letterale della Commedia (da cui certo prende le mosse soprattutto nelle sue sezioni più antiche), ma vede collaborare ai fini di realizzare un’immaginario quanto più tremendo e totalizzante anche un altro poeta: Baudelaire e i suoi Fleurs du mal. Accanto alla porta in gesso è presente anche una sezione che mostra al visitatore alcuni studi, bozzetti vari, realizzati dall’artista che si accingeva a compiere questo incredibile lavoro.

Foto: all’apice della porta troviamo il celebre pensatore. Accanto all’opera, il celeberrimo verso dantesco.

 Dettaglio della Porta dell’Inferno, scattata da Daria Passaponti
 Versi danteschi, scattata da Daria Passaponti

Proseguendo la nostra discesa nell’Inferno, le sezioni che seguono sono un’ottima dimostrazione di quanto questa mostra voglia mettere insieme, oltre che diversi messaggi, anche diversi medium attraverso i quali trasportarli: troviamo infatti quadri, fotografie (con la foto della Bocca della Verità nel suggestivo Parco di Bomarzo), codici medievali e rinascimentali, sculture… Il tutto atto a mostrare quanto, effettivamente si sia cercato di descrivere questo inferno, di trovarlo, di renderlo in qualche modo “comprensibile”. Ma come afferma Laura Bossi, che ha avuto ruolo fondamentale nell’organizzazione della mostra insieme a Jean Clair, “l’Inferno è impensabile, indicibile, infigurabile”.

La seconda sala, di forma ellittica con apertura sulla terza, accompagna (o forza?) lo sguardo del visitatore al centro, verso l’uscita da questa ellisse: qui troviamo Satana che convoca le sue legioni, una tela di Sir Thomas Lawrence del 1796-1797, prestata dalla Royal Academy of Arts di Londra.

Foto della sala, scattata  da Daria Passaponti

Compiendo lo sforzo di non avvicinarsi immediatamente a quest’ultima, ma dandosi il tempo per osservare come il curatore ha voluto accompagnarci da Satana, si possono ammirare le fotografie scattate da Herbert List nel Parco di Bomarzo, codici come “Il cavaliere errante” o La città di Dio di Sant’Agostino, e la Medusa di Ivan Theimer. L’opera di Theimer è accompagnata da un focus sulla bocca dell’inferno: il tema è legato alla figura metaforica che trova le sue radici agli inizi dell’anno Mille in zona anglosassone, diffusasi poi nell’Europa occidentale attraverso miniatura e scultura e arrivando a rappresentare autonomamente l’inferno e le sue sofferenze. Questo aspetto risponde alla necessità umana di dare un volto a ciò che spaventa, in quanto siamo sempre più inquieti rispetto a ciò che non comprendiamo, che non possiamo vedere nitidamente.

Foto Medusa di Ivan Theimer scattata da Daria Passaponti

Proseguendo verso Satana che convoca le sue legioni, ci si accorge concretamente dell’ottimo effetto che le luci di allestimento compiono esaltando il petto di questo Satana che sembra convocare noi visitatori, ormai parti integranti delle sue legioni. L’opera, che anche grazie alle dimensioni resta impressa nel ricordo della visita come se ne fosse la “copertina”, è stata realizzata fra 1796 e 1797 da Sir Thomas Lawrence sotto il segno di Fuseli.

Satana che convoca le sue legioni, Sir Thomas Lawrence, 1796-1797, scattata da Daria Passaponti

La mostra continua trattando i temi del viaggio nell’inferno, trattando naturalmente la figura di Caronte, presentata al visitatore attraverso l’opera di José Benlliure realizzata nei primi decenni del ‘900 e attraverso i versi 82-87 del III canto dell’Inferno.

Altra opera di spicco presente in mostra è la tela di Bouguereau, Dante e Virgilio del 1850, in prestito dal Musée d’Orsay: l’opera, di 280,5×225 cm, si staglia con una potenza impressionante legata al candore di queste superfici umane così finemente descritte dall’artista, con una luce che mette in evidenza la violenza dell’atto, della punizione che spetta a coloro che si fingono qualcun altro per ingannare il prossimo. Un passo indietro rispetto alle figure che lottano, notiamo Dante e Virgilio che osservano la scena in penombra, sotto lo sguardo (di chi è ormai abituato a tali scene) del demone alato alla loro sinistra.

Foto di Dante e Virgilio, Bouguereau, 1850 scattata da Daria Passaponti

Avventurandosi ancora oltre in questa serie di rappresentazioni infernali, ci si perde in alcuni degli episodi più celebri: l’incontro di Dante con il Conte Ugolino e le varie interpretazioni dell’amore di Paolo e Francesca.

Qual è, giunti a questo punto, il valore davvero aggiunto a questa mostra? Il quid che non la rende assimilabile a tutte le altre celebrazioni dantesche? La “seconda” sezione.

Questo perché la seconda sezione, volendo creare una distinzione che a chi ha visitato la mostra verrà naturale forse fare, non parla di Dante, ma parla di noi.

Partendo, o arrivando, dalla celebre frase di Camus, secondo cui l’inferno siamo noi, l’esposizione prosegue trattando i temi più infernali del mondo moderno, passando anche per un’analisi in senso etnografico e folkloristico del tema con le sue attestazioni nella cultura popolare. In questo modo trova senso l’installazione con i pupi, direttamente dal Museo Antonio Pasqualino che testimoniano un sistema di pensiero magico creato dagli esseri umani per potere credere (o illudersi) di poter sconfiggere questo male. In questa parte ad accompagnare il visitatore non è un verso di Dante, bensì una citazione presa da Des fleurs du mal di Baudelaire:

È il diavolo a tirare i nostri fili!

Dai più schifosi oggetti siamo attratti;

e ogni giorno nell’Inferno ci addentriamo d’un passo,

tranquilli attraversando miasmi e buio.

Analizzando la figura del diavolo nelle sue declinazioni più terrene, viene naturale pensare ai concetti di peccato e di tentazione: proprio questo è il titolo della sala successiva, che vuole mostrare al visitatore la volontà di unire, sia a livello cronologico che stilistico, una miriade di artisti che bene o male hanno rappresentato l’inferno o una sua caratteristica.

E questi sono, nella maggior parte dei casi, facenti parte della contemporaneità.

Perché?

Perché l’inferno ha avuto un ruolo fondamentale nell’immaginario comune e nell’arte del passato, è sempre stato (o quasi) un protagonista importante nella sua concezione dantesca e cristiana; ma nella contemporaneità invece? Nel XXI secolo?

Nel XXI secolo, come affermato dallo stesso Clair Jean, è stato il secolo stesso a diventare inferno.

Il secolo breve ha visto infatti un susseguirsi impressionante di inferni in terra (analizzati puntualmente nella mostra), come quello della fabbrica (che vede ovviamente le sue radici nel secolo precedente), in cui troviamo dei veri e propri dannati, le megalopoli, le miniere, le prigioni e i manicomi costruiti sul modello delle architetture panoptiche: non sono stati forse anche questi, quanto quelli di Dante, dei gironi infernali?

Ecco che la mostra, avvicinandosi alla conclusione, si fa sempre più cruda, con una violenza espressionista nei modi e per niente simbolista nei termini: questa parte fa più impressione della prima, perché la prima parte è tratta dopotutto da un libro. Un capolavoro, certo, ma comunque un libro, che si può pur sempre chiudere e smettere di leggere per tornare alla nostra vita, nelle nostre tiepide case.

L’inferno del XXI secolo invece non è un racconto, è verità, è passato che non deve essere dimenticato.

Clair Jean si pone dunque un altro obiettivo, quanto mai gravoso: ricordare al visitatore che l’essere umano può crearlo questo inferno, e lo ha fatto. Ce lo dimostra attraverso opere come quella di Previati, Gli orrori della guerra: L’esodo(1917) che racconta attraverso le tecniche divisioniste uno dei tanti aspetti tremendi dei conflitti mondiali, ovvero la fuga dal luogo che, fino a poco tempo prima, si era percepito come casa, come nido sicuro. La guerra ha spazzato via, insieme a molte altre cose, anche questa certezza, anche la sensazione di possedere un luogo dove potersi fermare senza rischiare nulla; rischiano molto invece, le folle straziate rappresentate con le pennellate filamentose che descrivono l’urgenza, la fretta di allontanarsi, quasi volendo uscire dallo spazio della tela.

Previati, Gli orrori della guerra: l’esodo, 1917, scattata da Daria Passaponti

Altro ospite fondamentale è Giacomo Balla, con La pazza (1905), in prestito dalla GNAM di Roma: la follia è presa in esame in quanto le malattie mentali siano state spesso descritte dai medici ottocenteschi con termini presi in prestito dal campo della demonologia: così le convulsioni diventano ossessioni diaboliche, i disturbi isterici attacchi demoniaci etc.

Una sezione è appositamente dedicata alla guerra.

 L’inferno in terra: la guerra

La guerra è stata la dimostrazione assoluta di quanto l’essere umano sia in grado di non essere umano.

Questo concetto è letteralmente lanciato in faccia al visitatore, che non può sottrarsi alla vista dei volti deformati dalle armi, alla vista delle immagini tremende che rappresentano, con un senso della verità spaventoso, quello che è accaduto praticamente l’altro ieri. La forza di questa sezione si trova nel fatto che accende nel visitatore qualcosa, ci si rende conto della concretezza di questo inferno in terra.

In dialogo con lo scritto di Primo Levi troviamo l’opera di Boris Taslitzky, Piccolo campo a Buchenwald, (1945): il colore è qui piegato sotto il peso del dolore che vuole rappresentare, in un affollamento di persone che non sembrano più nemmeno tali, sotto un cielo che si tinge dello stesso dolore che ricopre. Le opere in questa sezione ci parlano di morte, di sterminio, di quanto l’uomo, “quando tenta di immaginare il Paradiso in terra, il risultato immediato è un molto rispettabile inferno”

Paul Claudel, Conversazioni nel Loir-et-Cher

Il colpo di scena, all’avviso di chi scrive, si trova nell’ultima sezione: una volta arrivati allo sterminio, all’inferno per eccellenza creato dall’uomo in terra, cos’altro si potrebbe mai trovare dopo? Il nulla, giusto?

Sbagliato.

Jean Clair permette al visitatore, in una sorta di ultimatum etico, di uscire a riveder le stelle, nonostante le atrocità commesse in passato. Jean Clair, come un demiurgo gentile, ci permette di godere dopotutto ancora di qualche stella, di qualche piccolo sputo, come le chiamò Majakovskij.

Le opere che troviamo in questa sezione sono rappresentazioni di costellazioni: una in particolare, è una “ripresa effettuata dal Telescopio HUBBLE Ultra Deep Field della NASA”, che dà al visitatore l’occasione di osservare migliaia di galassie situate a molti miliardi di anni luce di distanza.

Una volta usciti dall’ultima sala si percorrono le scale per arrivare all’uscita di questo Inferno, con la consapevolezza di non essere gli stessi di prima e anzi, di essere notevolmente arricchiti.

E con la necessità concreta di uscire a riveder le stelle.

Daria Passaponti

Intervista a Luigi Trenti

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Da poco si è conclusa la XIII edizione della Florence Biennale, con un focus incentrato sulle donne e parallelamente con una sezione dedicata al Design, con la mostra Eccellenze di serie dove MuDeTo (Museo del Design Toscano) ha lasciato la sua firma. MuDeTo è il primo museo di design online al mondo, concepito da Luigi Trenti e fondato con Umberto Rovelli e Gianfranco Gualtierotti nel 2013. Beatrice Carrara intervista Luigi Trenti, architetto, designer, professore in Design del Sistema Prodotto presso l’ISIA di Firenze, oltre che presidente di MuDeTo.

1. L’idea di fondare MuDeTo da cosa nasce?

«Tutto nasce quindici anni fa quando in Toscana non c’era quasi niente dal punto di vista associativo relativo al mondo del Design. Io ero socio dell’ADI, Associazione per il Disegno Industriale, e assieme ad altri associati, professionisti e imprenditori del territorio eravamo tutti un po’ insoddisfatti di come la nostra qualità veniva proposta.

Nel bilancio generale di questo paese ha un peso evidente il nord, Milano, perché parliamo di Milano come capitale del Design con quello che gravita attorno a questa città, per esempio il Compasso D’oro che ora ha aperto un museo, o la Triennale.

E l’immaginario generale, anche a livello internazionale, è verso questa città, e in generale il nord d’Italia accentra un po’ tutto ciò che riguarda la cultura del Design. Noi invece, eravamo fortemente consapevoli di quanto è stato fatto, detto e quanto si continua a dire sul nostro territorio riguardo al Design. Quindi, decidemmo all’epoca, di fondare la Delegazione Toscana dell’ADI, riportando in Toscana premi e Compassi D’oro che non si vincevano più da tanti anni. L’ultimo che si era vinto era nel ’98 quando io ero responsabile Design della Targetti. Quindi, da allora per circa un decennio non erano più tornati premi importanti. Dopo aver riportato questi risultati sul territorio, mi sono domandato insieme agli altri colleghi se era sufficiente fare questo. Perché non è sufficiente vincere qualche premio e far conoscere qualcosa, quando hai la consapevolezza che in realtà c’è tutto un mondo che è sconosciuto. Io porto sempre l’esempio del Design Toscano come un grande iceberg, che come tale ha solo una piccola parte che emerge ed è conosciuta. Però c’è una parte enorme sottostante che è ugualmente “di ghiaccio”, di rilievo,  ed importante, e di cui nessuno parla.

Rendendoci conto di questo fatto, ho lanciato l’idea di fondare un museo (che ADI non aveva accolto) autonomamente assieme a due colleghi, Umberto Rovelli e Gianfranco Gualtierotti, con la volontà di raccontare meglio i prodotti, le esperienze, i protagonisti di cui normalmente non si parla e che vengono dimenticati ma che non è detto siano trascurabili, anzi hanno un’importanza notevole. Quindi nasce per rivendicare e far conoscere al mondo una realtà sconosciuta di cui non si parla. Molti dei nostri prodotti non li trovi nella collezione permanente della Biennale o nella collezione del Compasso D’oro, sono stati dimenticati in buona o cattiva fede. Ma se vai a leggere le loro storie ti rendi conto di quanta importanza abbiano avuto per il mercato e la storia del Design in generale.»

2.  MuDeTo ai giovani cosa può offrire?

«Dato che a livello associativo abbiamo dovuto cambiare lo statuto per la nuova legge sul terzo settore, (per cui l’associazione da culturale è diventata un APS, Associazione di promozione sociale) abbiamo inserito anche membri onorari. Come primo membro onorario abbiamo deciso di nominare l’ISIA, Istituto Superiore per le Industrie Artistiche, come primo istituto formativo per il design. In seguito al Design Campus che è la scuola dalla quale provengo, perché sono laureato in disegno industriale. Ai tempi non c’era lo spin-off di Calenzano, c’era la facoltà di Architettura a Firenze, mi sono laureato a San Niccolò. Quindi, con questo tipo di sinergie che stiamo creando vogliamo coinvolgere i giovani, nella ricerca, fargli sviluppare tesi di ricerca, fargli capire soprattutto la ricchezza che c’è nel territorio. Per chi viene in Toscana a studiare Prodotto, Comunicazione, Fashion Design, deve avere la consapevolezza che una volta ottenuto il titolo di studio c’è già qui un patrimonio a livello produttivo dove poter trovare sbocco professionale. Questo è molto importante perché non si deve avere la convinzione che una volta preso il titolo di studio in una bella città, dove c’è un’ottima qualità della vita, puoi scappare via. C’è un mondo da scoprire e noi possiamo essere i Virgilio che accompagnano gli studenti in questo viaggio.»

ANAKONDA KAN200

3 A tutti coloro che ambiscono a creare un oggetto di Design, cosa si sente di consigliare?

«È importante calarsi nel mondo della produzione, ma non è assolutamente facile. Io insegno anche all’ISIA, sono docente da 12 anni, agli studenti chiedo innanzitutto di immaginare che tipo di attività professionale possono andare a svolgere quando avranno il loro titolo di studi. Perché oggi giorno non è così scontato prendere un titolo di studi da designer e poi andare a svolgere la professione. Spesso la professione va progettata, inventata, e capire cos’è che potrà funzionare fra qualche anno. Come il lavoro che c’è oggi sui social di questi influencer, dieci anni fa non si poteva immaginare che potesse accadere questo. Quindi bisogna ipotizzare un panorama in cui esisteranno delle professioni che ad oggi non si possono immaginare. Il ruolo del Progettista di prodotto probabilmente esisterà ancora ma si sta ampliando fortemente quel panorama. Ad esempio le attività produttive oggi tendono a portare dentro i creativi e ad avere uno staff interno, anziché appoggiarsi a professionisti esterni o freelance. Questa è una tendenza consolidata, su cui metto in guardia i miei studenti, perché per esempio tutto il polo del lusso che gravita intorno a Firenze, alla Toscana, è un polo estremamente promettente a livello professionale. Però chiede che il lavoro sia svolto all’interno, come dipendenti, che non è assolutamente negativo, perché se uno riesce a inserirsi e ha talento può fare una carriera eccellente. Ed è una realtà aperta ed estremamente promettente.»

Luigi Trenti, presidente di MudeTo

4 MuDeTo ha preso parte alla XIII edizione della Biennale di Firenze arte + design con la mostra Eccellenza di serie. Tra queste, quale si sarebbe portato a casa? 

«La più ambita dai visitatori era la supercar prodotta dalla Mazzanti Automobili, un’eccellenza che abbiamo scoperto lavorando e confrontandoci tra colleghi. Questo produttore è indipendente e ha fondato la sua attività nei primi anni del decennio scorso. Colui che ha creato questa supercar era un allestitore e restauratore di automobili che sognava di produrre la sua auto; è un oggetto incredibile da collezione con mille cavalli di potenza. Ha presentato alla Florence Biennale due modelli : il primo già in commercio, che è stato esposto all’Expo di Dubai; e la versione nuova in anteprima mondiale che si chiama EVANTRA PURA. Quest’ultima decorata con un “wrapping”, (pellicole applicate sulla carrozzeria) realizzata in fibra di carbonio, sostanzialmente la rappresentazione grafica del nome dell’automobile. Si chiama Evantra, nome di una divinità etrusca, dunque, si ancora alla cultura storica del territorio, e Eventra ha come significato eternità. Gli abbiamo proposto di partecipare alla Florence Biennale, perché era l’occasione perfetta per presentare questa esperienza, di decorare l’automobile il cui effetto finale è simile ad un vaso etrusco. È una risoluzione grafica che parte dal frontale e arriva al posteriore perfettamente centrata. Tutti la sognavano ad un prezzo esorbitante di un milione e mezzo di euro. È la rappresentazione della velocità sartoriale, di qualcosa che viene prodotto per pochi fortunati in cinque esemplari l’anno. 

Parallelamente c’era un oggetto piuttosto odiato, che si può definire il controllo della velocità, l’autovelox. Oggetto odiato dagli automobilisti ma che ha permesso di ridurre gli incidenti mortali del 30%. L’autovelox nasce in toscana come misuratore di velocità, ed è diventato una parola che nell’immaginario comune ha un’accezione non del tutto positiva. 

Parola che trovi nei vocabolari, ed è stato inventato dal Signor Fiorello Sodi, della Sodi Scientifica, trenta, quaranta, anni fa ed è diventato di uso comune. Quindi si usa la parola autovelox anche per altri apparati tecnologici che servono a rilevare la velocità. E anche questa è una realtà che nessuno conosceva e che è stato divertente raccontare agli spettatori.   

AUTOBOX 106

EVENTRA PURA

5. Alla Biennale un oggetto che personalmente mi ha lasciato senza parole è Anakonda Kan200, sono sicura che possa affascinare anche i nostri lettori, ce ne vuole parlare?

«Si tratta di un’eccellenza produttiva del territorio. In Toscana esistono vari produttori abbastanza nascosti, non si mettono mai in mostra, forse per l’indole tipica, l’atteggiamento territoriale. Tramite lo scambio di informazioni tra colleghi abbiamo scoperto questo produttore a San Piero a Sieve, specializzato nella produzione di sistemi audio. Loro nascono come installatori di impianti, per manifestazioni, concerti ecc., dopodiché i fondatori hanno deciso di mettere in pratica la loro esperienza tecnica per produrre degli oggetti nuovi. Dunque, nasce questa produzione con l’intento di creare oggetti performanti come casse o speaker, con la caratteristica di avere una riduzione del volume, per ciò sono estremamente piccoli.

ANAKONDA KAN200

Sono sorprendenti perché hanno un’efficienza notevole pur avendo un ingombro molto ridotto. Uno dei due fondatori con una forte anima creativa, Alessandro Tatini, ha creato questa tipologia di diffusore lineare. Si chiama “anakonda” perché come una sorta di grande serpentone composto da moduli di due metri ciascuno che hanno giunzioni veloci, se ne possono congiungere trentadue così da creare un diffusore lineare lungo fino a sessantaquattro metri.

Con la caratteristica anche di svanire perché dematerializzato, se lo poni su un prato per una festa o un concerto non ti accorgi dove sono gli altoparlanti. Senti la musica di alta qualità, puoi calpestarlo, e se c’è un temporale nessun problema perché è impermeabile. 

Quando lo abbiamo scoperto lo abbiamo subito acquisito virtualmente per il Museo perché è un’invenzione eccezionale, e in effetti tutti rimangono a bocca aperta quando lo vedono.

6. La XIII edizione della Florence Biennale ha riflettuto sul binomio arte e design, secondo lei qual è il punto di forza nell’unire l’arte e il Design? Glielo chiedo alla luce di ciò che dice Bruno Munari nel suo libro Artista e Designer, ovvero che sono l’opposto

«Io questa differenza non la vedo: molti produttori attingono dall’arte. Di sicuro c’è un flusso creativo dall’arte verso il design piuttosto che dal design verso l’arte. Ma anche l’attuale mostra di Jeff Koons in centro a Firenze ti fa capire che l’artista può diventare un po’ designer. Perché è presente un’idea di industrializzazione dell’oggetto molto vicina al modo di agire dell’industrial design, quindi i due punti si compenetrano in modo molto intimo. È importante soprattutto per il territorio toscano, perché con le realtà che abbiamo come la Sodi Scientifica e tutto il mondo della pelletteria e del lusso, siamo sicuramente vincenti nell’ottica della produzione di serie limitate e di alto artigianato. Se iniziamo una competizione dal punto di vista quantitativo, in cui sono forti i produttori dell’estremo oriente, siamo perdenti perché il nostro lavoro costa molto all’industria con un costo del lavoro elevato.

Quindi spingersi verso una produzione di alto artigianato, alla fine non è arte? Secondo me sì! si va verso l’unicità. Molti di questi marchi si rivolgono ad un’utenza alto spendente proponendogli versioni uniche degli oggetti. Come Evantra della Mazzanti Automobili, è un’automobile con una forma abbastanza consolidata, ma se qualcuno vuole qualcosa di unico allora fa al caso suo. E in questo caso, è design che diventa forma d’arte. Evantra è decorata con un wrapping che ricorda la Dea etrusca, è una forma d’arte ed anche per questo è stata esposta alla Florence Biennale. Era una tela appoggiata su quattro ruote.»

Beatrice Carrera

L’arte che dà voce all’Afghanistan

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In Afghanistan molti artisti stanno nascondendo il loro lavoro e chiudendo i loro studi per paura di essere presi di mira dalle autorità.

L’arte e gli artisti del paese sono messi a dura prova dai talebani, i quali non perdono occasione nel tentativo di eliminare la storia e l’arte afgana. 

In quest’ottica i talebani hanno cancellato il murale più iconico di tutta Kabul imbiancandolo. L’opera ritraeva Zalmay Khalilzad, inviato speciale di Trump, mentre porgeva la mano al mullah Abdul Ghani Baradar. 

Graffito che era divenuto simbolo e testimonianza degli accordi di Doha del febbraio 2020, e sanciva la fine al conflitto armato in Afghanistan del 2001. A sua volta la scelta e l’atto di imbiancare il muro da parte dei talebani diviene ricordo del totale ritiro delle forze armate statunitensi dal paese.

A rendere noto l’accaduto è Omaid H. Sharifi, che ha lasciato l’Afghanistan con la sua famiglia nei mesi scorsi, ed è il fondatore del collettivo ArtLords, che ha ideato e dipinto l’opera. 

“Hanno cominciato. I talebani hanno cominciato a dipingere sopra i nostri murales. Hanno cominciato con quello storico che ha segnato la firma degli accordi di Doha. Il murale Baradar Khalilzad non c’è più. Al suo posto una scritta in bianco e nero che dice ‘Non ti fidare della propaganda del nemico’, una citazione del mullah Haibatullah”. Così l’artista descrive al pubblico di twitter l’evento doloroso, accompagnato dalla foto del murale prima e dopo l’irruzione dei talebani nel paese. 

Se si parla di street art non si può non citare Shamsia Hassani, prima donna afgana a cimentarsi in questa tecnica artistica. I suoi murales portano speranza, coraggio e cruda verità per le strade di Kabul, e non solo. Infatti i suoi graffiti ispirano migliaia di donne tutti i giorni sui muri dell’Afghanistan, Stati Uniti, Italia, Germania, India, Vietnam, Norvegia, Danimarca, Svizzera ecc…

Shamsia utilizza le pareti di edifici danneggiatio o distrutti da bombardamenti come tele per le sue opere, dove le donne afgane ottengono il volto che si sono guadagnate lottando. Sono donne orgogliose, forti, coraggiose, libere di muoversi nello spazio e capaci di apportare cambiamenti positivi alla società con la loro bontà. Su di esse non mancano i segni della società patriarcale; non hanno la bocca perché molte volte devono tacere, e hanno gli occhi chiusi per non vedere la morte e la brutalità che le circonda.  

Ali Subotnick, curatore dell’Hammer Museum di Los Angeles, ha affermato nel 2015 al Los Angeles Time: “È incredibilmente stimolante il fatto che sia una donna che va in strada a dipingere, dove è pericoloso camminare da sola all’aperto a Kabul, è così fiera, indipendente e forte. Sta dando voce alle donne in Afghanistan”.

Shamsia Hassani ci insegna una cosa molto importante che: “L’arte cambia la mente delle persone e le persone cambiano il mondo”

Anche la città di Firenze è onorata di custodire la poetica dell’artista afgana. Sto parlando del murale che copre una parte del muro esterno dell’Istituto Tecnico Leonardo Da Vinci, in via del Terzolle. Concepito quattro anni fa dalla coraggiosa artista, mentre era ospite del comune di Firenze e della Biennale di Arte Contemporanea, in occasione della Giornata Europea della Giustizia.

Nel murale vediamo sullo sfondo il profilo della città di Firenze, mentre in primo piano campeggia l’immagine di una donna afgana il cui vestito raffigura alcune delle strade di Kabul. Anche qui il volto non ha la bocca, perché le donne afgane non hanno la libertà di parola, e ha gli occhi chiusi per evitare di vedere il dolore che affligge il suo paese. Infine è colta nel momento in cui congiunge due dita della mano, omaggio a Michelangelo Buonarroti e al suo celebre affresco Creazione di Adamo, nel controsoffitto della Cappella Sistina.    

L’Afghanistan è da tempo bacino di ispirazione e sperimentazione degli artisti, anche italiani. Alighiero Boetti si recò a Kabul negli anni 50 del 900’ rimanendovi innamorato, pathos che testimonia in un famoso ciclo di opere Mappe, divenute icone del suo modo di operare e di pensare. Per realizzare le sue Mappe – oltre 150 in un ventennio –   si ispirò ai tappeti afgani e agli stessi artigiani locali. Gli arazzi nelle mani dell’artista torinese divengono planisferi politici, che mostrano i cambiamenti globali agli occhi dell’osservatore.

Questa mappa è incorniciata con la frase ALIGHIERO E BOETTI A KABUL AFGHANISTAN NELL’ANNO MILLENOVECENTOOTTANTA’, proprio da quell’anno, il 1980, l’ingresso nel paese è vietato.

“Il lavoro della mappa ricamata è per me il massimo della bellezza. Per quel lavoro io non ho fatto niente, non ho scelto niente, nel senso che il mondo è fatto com’è e non l’ho disegnato io, le bandiere sono quelle che sono e non le ho disegnate io, insomma non ho fatto niente assolutamente: quando emerge l’idea di base, il concetto, tutto il resto non è da scegliere”, afferma l’artista.

Non solo artisti come Carla Dazzi e Carlo Carli operano in Afghanistan divenendo interpreti e diffusori della sua storia, ma le stesse città sul territorio italiano programmano eventi sociali di riflessione sul tema attuale.

A Firenze si è appena chiuso il Middle East Now, festival cinematografico, che quest’anno ha avuto un focus proprio sull’Afghanistan. Fondato nel 2010, ha l’obiettivo di mostrare ai visitatori il cinema, l’arte e la cultura del Medio Oriente in tutte le sue sfaccettature. 

Dal 28 settembre al 3 ottobre si è svolta la proiezione presso il Cinema La Compagnia e il Cinema Stensen di innumerevoli film, cortometraggi e anteprime ad opera di registi internazionali e soprattutto afgani.

Dunque, Firenze si è resa palcoscenico di storie orientali che si sono susseguite e richiamate nelle sale dei cinema arrivando fino ai nostri cuori, portandoci alla commozione.

Un esempio A JOURNEY INTO ZERO SPACE film di Dawood Hilmandi, giovane talento afgano, che è stato proiettato nelle sale del Cinema La Compagnia. Il Film è un trittico, così definito perché è il montaggio di tre cortometraggi che il regista ha selezionato dagli archivi del passato, allo scopo di far riflettere su di essi e sull’attualità. E’ un lavoro cinematografico che mette in discussione le nozioni di casa, storia, autorità e immaginazione. Prima della proiezione del film, Hilmandi ha parlato telematicamente agli spettatori presenti in sala da Qom, in Iran. Ha affermato quanto per lui sia importante diffondere un’autocoscienza e un apprendimento individuale, al fine di concretizzare una coscienza collettiva. Inoltre, definisce il suo film una lettera d’amore verso tutti, aggiungendo per ultimo che non importa l’entità del danno, ma che è importante continuare a fare film, scrivere, raccontare affinché tutto ciò non venga dimenticato.

Questa presa di coscienza e di riflessione in occasione del Middle East Now non termina qui, perché presso il MAD (Murate Art District) di Firenze si tiene la mostra fotografica del giovane Tabit Rida, fino al 20 novembre. Fotografo autodidatta, che scende in strada con la macchina fotografica, avendo l’obiettivo di testimoniare i profondi cambiamenti e la realtà, spesso trascurata, della sua città natale, Marrakech . 

Per Rida, la fotografia è un mezzo finalizzato a una migliore conoscenza del mondo, delle persone e di sé stesso. In questa mostra Marrakech- In times of stillness, ci porta mano nella mano nelle strade marocchine, narrandoci che il tempo non si è davvero fermato con la pandemia e che l’uomo è atto alla resistenza per natura. 

Beatrice Carrara

Jeff Koons a Palazzo Strozzi

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La Fondazione Palazzo Strozzi prosegue il suo percorso di mostre ed eventi di arte contemporanea di straordinario valore: dopo American Art, abbiamo adesso Jeff Koons, lo stesso che nel 2015 si fece promotore di quella new wave che investì una Firenze che, nolente o volente, non poteva fare altro che accoglierla. Questa ondata di contemporaneità, partita con l’installazione di Pluto e Proserpina di Koons alla Biennale dell’Antiquariato di Firenze del 2015 (seguita ovviamente da tutte le polemiche del caso) e proseguita con mostre che hanno portato a Firenze artisti dalla caratura di Andy Warhol, Cindy Sherman, Tomás Saraceno, JR, Weiwei, solo per citarne alcuni, si infrange nuovamente contro una Firenze che timidamente si riaffaccia alla normalità di una vita culturale in ripresa. 

Il titolo della mostra è Shine: l’obiettivo è sottolineare l’ambivalenza esistente fra una lucentezza e uno splendore che spesso è, ma ben più spesso appare

Realizzata in stretto dialogo con l’artista (aspetto che è ormai cifra stilistica delle più importanti mostre alla Fondazione) la mostra si sviluppa permettendo al visitatore di entrare gradualmente nel mondo di Koons, un mondo allestito e illuminato perfettamente secondo modalità che inducono il visitatore a cercare un contatto con l’opera, fisico, tattile, minimo, ma percepito come necessario. Uno degli elementi che emerge dalla ricerca di Koons è certamente il contrasto fra la natura in origine economica dei materiali e il loro effetto dirompente e lussuoso alla vista; l’eccentricità dei colori, la loro vivacità, vuole arrivare a definire e sottolineare la vivacità stessa del capitalismo nelle sue varie declinazioni, portando addirittura alcune sue opere a entrare nell’immaginario collettivo. La sua produzione, che si alterna fra una citazione raffinata alla storia dell’arte e una menzione al mondo consumistico e capitalistico, unisce così cultura alta e popolare. 

Le opere dell’artista pongono l’osservatore davanti a uno specchio in cui riflettersi e lo collocano al centro dell’ambiente che lo circonda: sounds familiar?

L’osservatore, oggi come nei primi esperimenti dell’arte volti allo stesso obiettivo, è parte integrante dell’opera, che così cambia e si evolve a seconda di chi ha davanti. Ripercorrendo quel solco già tracciato da diversi artisti prima di lui, come Duchamp e Warhol, che pone al centro la volontà di privare l’arte contemporanea di quella veste fatta di elitarietà e snobismo, Koons porta il visitatore della mostra a essere parte delle superfici quanto mai splendenti delle sue opere, essendo queste talmente lucide da riflettere anche il più piccolo dei dettagli di ciò che vi si trova davanti, arrivando così a dare estrema importanza anche all’ambiente in cui queste sono inserite. 

Foto riguardo opere di Tintoretto e Gazing Balls, scattata da Gloria Passaponti

L’ambiente in cui troviamo la serie delle Gazing balls è uno solo dei tanti partecipanti a questo dialogo in cui sono incluse anche le opere di Tintoretto e statue appartenenti al mondo antico: queste sono le coordinate disorientanti ma contemporaneamente puntuali in cui l’osservatore, compiendo la semplice azione di osservare un’opera, vi si inserisce. Koons è in dialogo con artisti del passato tramite

la sua celebre palla blu, protagonista indiscussa che attira l’occhio dell’osservatore. Quando è posta sulle tele, questa si appoggia su una mensola in alluminio verniciato attaccato alla parte anteriore del dipinto. 

L’arte, dice Koons, è un accadimento che si verifica nella relazione fra l’artista e l’osservatore: partendo da questo pensiero possiamo ben comprendere come alla base di certe sue opere ci sia quella volontà di inclusione dell’osservatore stesso.

“L’arte è un veicolo che connette tutte le discipline umane: la mia vita è stata trasformata dall’arte, che mi ha consentito di continuare a vivere in un contatto con i nostri predecessori. Quando ci si rende conto di questo, ci si apre di più anche agli altri, c’è la rimozione del giudizio e delle segregazioni. Mi piace tantissimo, amo Michelangelo, Verrocchio; Rubens si rifaceva a Leonardo, Verrocchio e Masaccio: è questo amore che ci consente di divenire. Shine riguarda l’accettazione di sé e degli altri per una vita più significativa.”  

 – Koons

Foto sempre della serie gazing balls con statua classica (dialogo con l’antichità), Gloria Passaponti

Il titolo “Shine” è stato oggetto di riflessione durante la conferenza stampa che è stata organizzata in occasione dell’apertura, il 30 settembre, al Cinema Odeon di Firenze. La conferenza ha visto realizzarsi un dialogo fra l’artista, che con la sua presenza ha rimarcato la sua gratitudine verso la città di Firenze, e altri importanti personaggi, fra cui ricordo in particolare la Professoressa di Lingua Sanscrita, Letteratura e Tradizioni Culturali Indiane dell’Università degli Studi di Firenze Fabrizia Baldissera, Arianna D’Ottone, Professoressa di Lingua e Letteratura Araba dell’Università della Sapienza di Roma, Donatien Grau, Head of Contemporary Programs del Musée d’Orsay e Professore all’Ecole Nationale Supérieure des Art Visuels di Bruxelles, Alberto Legnaioli, (Post-doc research fellow in Ebraico presso l’Università degli Studi di Firenze, e Monsignor Timothy Verdon, il Direttore del Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore. L’incontro ha visto la moderazione da parte dei curatori della mostra Arturo Galansino e Joachim Pissarro, Professore di Storia dell’Arte dell’Hunter College di New York. Il focus è stato quello di riflettere partendo da più punti di vista sul significato della parola shine, cui si legano concetti spesso fra loro anche in antitesi, ma sempre in stretto legame con la storia dell’arte, la spiritualità e la filosofia.

Il presidente della Fondazione Palazzo Strozzi, Giuseppe Morbidelli durante l’evento di apertura ha invitato i presenti a soffermarsi sul fatto che il verbo riflettere sia allo stesso tempo un verbo transitivo e intransitivo. Le opere di Koons a suo avviso hanno questa doppia portata, doppio significato: da un lato, per il loro materiale brillano e riflettono e trasmettono la luce, ma dall’altro il motivo di fondo delle opere artistiche è quello di invitare lo spettatore/visitatore a un dialogo con l’opera, a una riflessione. Il visitatore concorre all’opera d’arte che è così un’opera d’arte condivisa, non unilaterale e calata dall’alto. Lo spettatore completa la narrazione, e partecipa così al suo significato e al suo messaggio. 

L’artista ha riproposto le forme archetipiche di uomo e donna ma sotto la lente dei materiali
e delle ricerche della mdoernità.
Gloria Passaponti

“Firenze è sempre stata grande quando è stata anticamente moderna e modernamente antica”. Citando Giorgio Vasari, è stato ricordato durante la conferenza stampa che la vera modernità non è la rilettura del passato, non è un maquillage di ciò che siamo stati, la modernità è il mettere in discussione lo status quo: questa è la forza del rinascimento come oggi è quella dei nostri artisti. 

Koons ha potuto affermare che non c’è niente di più gioioso nella vita che seguire le cose che ci incuriosiscono; e allora lo ringraziamo Koons, per averci dato nuovamente la possibilità di essere curiosi, di appassionarci e di affascinarci.

Daria Passaponti

L’arte che nasconde il dolore

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Piangere: un’azione necessaria quanto spesso inappropriata, oggi. 

Ma non è sempre stato così. 

Scrive Matteo Nucci, nel suo Le lacrime degli eroi, che la storia dell’uomo ha conosciuto le lacrime di coloro che ai nostri occhi sono invincibili. Come è possibile questo? È possibile perché in un tempo lontanissimo le lacrime, il pianto, la manifestazione dell’emozione, non avrebbero inciso negativamente su nessuno. O meglio, su nessun eroe. Platone stesso sapeva benissimo che gli eroi piangevano, e non degli eroi qualunque, ma quelli omerici, gli Eroi. Odisseo, che pianse al cospetto di Alcinoo, o di Circe, Achille per l’amato Patroclo; il sacerdote Laocoonte, che più di ogni altro rappresenta nella storia dell’arte il dolore


Dettaglio del gruppo scultoreo Laocoonte, da una copia di Agesandro, Atenodoro di Rodi e Polidoro, eseguita fra I secolo a.C. e I d.C., oggi nel Cortile del Belvedere, Musei Vaticani

L’Antico e nel Nuovo Testamento, altri incrollabili pilastri che sorreggono la nostra cultura, vedono diversi esempi di pianti di dolore, di gioia, di liberazione: il pianto di Pietro dopo il rinnegamento, il pianto di Davide per i suoi figli, per il neonato gravemente malato; nella Genesi piange Giuseppe, alla vista del fratello Beniamino in Egitto quando da schiavo diventa governatore e riaccoglie i fratelli che lo avevano venduto.

Perché oggi gli eroi non piangono? Perché nella storia dell’arte piano piano si sono creati escamotage atti a nascondere il pianto, il dolore? Platone sapeva bene, quando scrisse la sua Repubblica che le lacrime degli eroi appartenevano ormai a un’epoca passata, lontana perfino per egli stesso. 

Si iniziò a prendere distanza dal pianto, dal dolore, e questa distanza si declinò in diverse forme: nell’arte, la distanza dal dolore ha il nome di aposiopesi. Essa non consiste in una presa di posizione avversa all’atto del piangere (come si era posto Platone, amando e allo stesso tempo uccidendo gli Eroi che per ultimi, a suo avviso, si erano potuti permettere di piangere per saziarsi del pianto), ma ha una funzione diversa, di “aiuto” verso il fruitore dell’opera. Perché spesso si dice che il ‘900 ha portato l’attenzione verso il pubblico dell’arte, ma questa è una visione estremamente superficiale che non prende in considerazione le grandi (grandissime, alla luce della lontananza cronologica) attenzioni poste in essere dai cosiddetti “antichi”.

Aposiopesi

Si definisce così la figura retorica che prevede che il discorso venga sospeso, lasciando all’immaginazione del lettore la percezione del senso: fra gli autori antichi, Cicerone, Valerio e Quintiliano si soffermarono spesso sul parallelismo tra questa figura retorica e lo stratagemma utilizzato nell’arte per mantenere il decorum anche nei momenti più struggenti.

Si narra che il celebre artista Timante, detto di Cipro, avesse realizzato un’opera raffigurante il Sacrificio di Ifigenia e rendendosi conto che la mano umana non era in grado di rappresentare un dolore disumano come quello provato dal padre Agamennone, avrebbe messo “al sicuro” quel dolore, nascondendolo dietro ad un velo, e lasciando così all’osservatore l’arduo compito di immaginare la profondità di quello sguardo, di quella passione.

Solo 𝐌𝐚𝐬𝐚𝐜𝐜𝐢𝐨, molto tempo dopo, si permise di mostrare il dolore senza coprirlo con apparati esterni: allora il volto di quella Eva diventava così pesante, materico, devastato e devastante.


Masaccio, Cacciata dei progenitori dall’Eden, dettaglio della Cappella Brancacci, Firenze, 1424/1427

𝐋𝐨𝐭𝐭𝐨 invece si pone nel solco inizialmente tracciato quando il limite tra leggenda e storia era una sottile linea beige, ovvero fra V e IV secolo a.C. 

Lotto realizza la tavola con il Compianto come cimasa per il Polittico di San Domenico; grazie al contratto sappiamo che la commissione risale al 20 giugno 1506.

 L’effetto di grande drammaticità è acuito da una luce fredda e da una composizione serrata che lascia però spazio alla ricchezza di gesti e tensioni, resi ancora più espressivi da una leggera sproporzione delle mani. 


L’atmosfera è così dolorosa ma non completamente cupa, proprio grazie a questa luce che è sì fredda, ma al tempo stesso si espande morbida lungo tutta la composizione, probabilmente come conseguenza della frequentazione giorgionesca.

Dettaglio della Vergine nel Compianto di Lotto, 1506/1508

Giuseppe d’Arimatea, rappresentato come un vecchio calvo dai lunghi baffi spioventi, sostiene il Cristo sotto l’ascella sinistra e dietro la nuca, quasi accarezzandolo, affinché il capo senza vita non caschi all’indietro.


Dettaglio di Giuseppe d’Arimatea che sorregge il capo del Cristo, Compianto di Lotto. L’opera è firmata e datata “Laurent[ius] Lotus MDVIII”

Smembrato a un’altezza cronologica che non conosciamo, è documentato nel 1861 grazie all’opera di censimento sistematico degli oggetti d’arte di proprietà ecclesiastica (voluta dal Ministro dell’Istruzione Francesco de Sanctis) effettuata sul territorio umbro-marchigiano dal neo deputato Giovanni Morelli e dallo storico e critico d’arte Giovan Battista Cavalcaselle.

Daria Passaponti

Marc Chagall: più di un pittore

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Il 7 luglio del 1887 nasce a Vitebsk, in Bielorussia, Marc Chagall.

In gioventù vive nelle zone più povere della città, la madre gestisce una bottega di alimentari e il padre commercia aringhe. È stata la sua dedizione alla pittura che lo ha portato alla fama e alla notorietà in eterno.

Nel 1911 si trasferisce a Parigi, nel quartiere di Montparnasse, che gli apre le porte dell’amicizia di molti intellettuali, scrittori, e poeti come Apollinaire grazie al quale incontra il mercante d’arte Herwarth Walden. Quest’ultimo affascinato dalle sue opere ne darà molta visibilità nella Parigi degli anni ‘10, procurandogli un guadagno sia materiale che emotivo.

Del rapporto tra Chagall e Apollinaire abbiamo una traccia scritta nel diario dell’artista: “Non oso mostrare i miei quadri ad Apollinaire. Lo so voi siete l’ispiratore del cubismo. Ma io preferisco qualcos’altro. Che altro? Sono confuso […] Un pianerottolo rotondo; una decina di porte numerate. Apre la mia. Apollinaire entra con prudenza […]. Personalmente non credo che la tendenza scientifica sia una cosa buona per l’arte. Impressionismo e cubismo mi sono estranei […] Apollinaire si siede. Arrossisce, inspira, sorride e mormora “Soprannaturale”

 Nel frattempo, è scoppiata la guerra, e Chagall riesce a scampare dall’orrore delle trincee con un incarico d’ufficio al Ministero della Guerra. Nonostante il periodo turbolento espone comunque le sue creazioni, e ne concepisce di nuove grazie alle prime grandi commissioni che lo riguardano: per il mercante Ambroise Vollard disegna le illustrazioni della Anime morte di Gogol e le Favole di La Fontaine. Avranno molto successo le raffigurazioni testuali di Chagall, fresche, luminose e oniriche, un prestigio che lo porta ad ideare le illustrazioni per un’edizione della Bibbia, pubblicata nel 1930.

Marc Chagall è stato un grande viaggiatore, giunse nella maggior parte dei paesi Europei, richiamato dalle numerose commissioni, oltre che dal piacere personale di viaggiare e di farsi emozionare, ma si rivelò anche un insaziabile amatore.

Ha avuto tre mogli nella sua vita, tutte molto amate e coccolate dall’artista. La donna più celebre nella sua vita così come nella sua pittura è Bella Rosenfeld che conobbe appena ventenne e con cui si fidanzò nel 1909, poco prima di partire per Parigi, città in cui Bella giungerà solo nel 1923 assieme alla figlia Ida. La morte dell’amata moglie, sopraggiunta a causa di una malattia improvvisa nel 1944, lasciò l’artista nella totale disperazione.

 Commoventi, intime e travolgenti si rivelano le parole di Bella scritte nel suo diario

 : “Tu, ti getti sulla tela, che trema fra le tue mani, afferri il pennello, premi il colore dei tubetti:

rosso, azzurro, bianco e nero. E mi trascini nel torrente dei colori. Improvvisamente mi sollevi dal suolo e tu stesso ti dai lo slancio con un piede come se la piccola stanza fosse troppo angusta per te. Tu balzi su, ti stendi in tutta la tua lunghezza e voli verso il soffitto. Ti pieghi al mio orecchio e mi mormori qualcosa …. e tutti e due insieme voliamo leggeri… e voliamo via tenendoci per mano… giungiamo alla finestra e vogliamo passare fuori. Dalla finestra ci chiamano una nuvola ariosa e un pezzo di cielo azzurro. Le pareti, addobbate con i miei scialli variopinti, ondeggiano intorno a noi e fanno girare la testa. Noi voliamo sui campi variopinti, e case di legno con le persiane chiuse, su campagne e chiese…”

Fra le tante opere che Chagall ha dedicato alla sua prima moglie, rendendola perpetua nei secoli, Compleanno è una delle più poetiche, e risale ai primi anni di matrimonio. Il titolo fa presumere che il dipinto risalga al genetliaco di Bella, che era nata a Vitebsk il 15 novembre 1895. Si dice che il pittore abbia considerato il matrimonio con Bella come un’emancipazione dalla solitudine, vedeva il rapporto coniugale come una benedizione e mai come una prigione.

Questo puro sentimento è quello che l’artista rimarca nei dipinti che presentano la donna, dunque la sua immensa felicità quando è con lei. Infatti, vediamo come i due innamorati dominano la scena e ne diventano perno visivo. Chagall nel baciare Bella inizia a fluttuare e nel tentare di rendere l’atto d’amore più duraturo si contorce in una posa del tutto innaturale, quasi ad affermare che la forza dell’amore supera ogni legge naturale/ fisica. Da questa forza sentimentale viene condizionata anche Bella, la quale dimentica tutto e viene immersa nell’atmosfera fiabesca creata dal marito col pennello.

COMPLEANNO 1915: olio su cartone. New York, MoMa- Museum of Modern Art

Con l’avvento del nazismo la situazione si complica, le sue opere vengono esposte nel 1937 presso la mostra di Arte Degenerata promossa dal regime nazista, secondo cui le opere degli artisti esposti erano frutto di una mente malandata che determinava la distorsione della realtà sulla tela. Nonostante questo durante la seconda guerra mondiale Chagall riesce a sfuggire alle leggi antisemite sbarcando a New York.

Alla fine della guerra Chagall perde Bella (morta nel ‘44) ma non la necessità viscerale di creare. Ritorna sul palcoscenico con i costumi che disegna per il balletto l’Uccello di fuoco sulla musica di Stravinskij, tenuto dal Ballet Theatre al Metropolitan Opera.

Dalla fine della guerra fino alla sua morte avvenuta il 28 marzo del 1985 nel suo studio a Saint Paul-de Vence, le istituzioni di maggior spicco culturale celebrano il suo creato. A partire dal Museum of Modern Art di New York, che nel 1946 gli dedica una retrospettiva con le opere di oltre quarant’anni di attività.

Ci ha lasciato un corpus di opere che inducono a far sognare, dal più piccolo, all’uomo più maturo, cattura la nostra essenza nell’immensità del trascorrere evocato dalle pennellate. Colori che fanno lievitare la nostra immaginazione conducendoci oltre la tela, oltre la stanza in cui si trova il dipinto, portandoci a volare nel cielo con lui. Con le sue opere fa credere all’umanità che tutto è possibile, anche sopravvivere nell’eternità.

 André Breton nel saggio La metafora in pittura del 1941 afferma:

 “Non c’è stato niente di più risolutamente magico delle sue opere, in cui gli stupendi colori fondamentali portano in sé e trasfigurano il tormento moderno, pur conservando l’antica ingenuità nel raffigurare ciò che la natura proclama il principio del piacere: i fiori e l’espressione dell’amore”.

LE FAVOLE DI LA FONTAINE

Marc Chagall oltre ad essere determinante nella storia della pittura è una figura da rimembrare anche per le sue superbe illustrazioni, di cui purtroppo si parla troppo poco. In quest’ottica si rivelano fondamentali le illustrazioni ideate per le Favole di La Fontaine, maestro delle favole moderne, la cui arguzia nello scrivere trova un connubio perfetto, tre secoli dopo, con il tocco onirico del pennello di Chagall.

Felice e avventuroso dialogo in cui il mondo popolato da animali e oggetti vocianti, che incarnano vizi e virtù esplicitamente umani, si tinge di una vena sognante che cattura i lettori di ogni età. Ecco che ad ogni pagina corrisponde un trionfo di freschezza e vivacità dettato dal sapiente uso del colore dell’artista.

Quando Ambroise Vollard, grande gallerista ed editore-mecenate del ‘900, diede il compito a Marc Chagall di disegnare cento gouaches per illustrare le Favole, la critica del tempo non esitò a manifestare le sue forti perplessità.

Nelle intenzioni di Vollard l’idea di affidare alla mano di Chagall un nuovo ciclo di illustrazioni dell’opera testuale rappresenta una provocazione, lucida e consapevole alle illustrazioni concepite fino ad allora delle Fables. In un articolo del 1929 Vollard dichiara che è giunto il momento di dare: “un’interpretazione meno letterale, meno frammentaria dell’opera di La Fontaine: qualcosa che sia insieme più espressivo e più sintetico. Una simile trascrizione non può che essere affidata a un pittore di temperamento, dotata di immaginazione creativa, e fertile nell’invenzione dei colori”

Ecco il perché la scelta cade su Chagall, di religione ebraica, Russo aperto alla radicale modernità, capace di tradurre in un debutto di colori la vicenda delle favole, e condurle al limite del sogno. Pare naturale che la critica di allora, tradizionalista, nazionalista, xenofoba e anti-ebraica si scagliò contro questo lavoro. Nonostante questo le cento gouaches di Chagall disegnate fra gli anni del 1926 e 1927 fanno la loro veloce comparsa in pubblico nel 1930. Furono esposte in 3 rispettive mostre, a Parigi, Bruxelles e a Berlino per essere immediatamente vendute a collezionisti privati. Nel frattempo, l’idea originale di stampare un’edizione delle gouaches viene interrotta a causa di una deludente riuscita delle prove a colori. Negli anni successivi l’opera di Chagall è stata oscurata alla vista del pubblico. Solo nel 1995, Didier Schulmann decise di organizzare una mostra dedicata al tema, sotto l’egida della Réunion des Musées Nationaux, nella quale esporre il maggior numero possibile delle cento gouaches di Marc Chagall ideate sull’opera di La Fontaine. Negli anni si è verificata una dispersione delle opere originali, in tutto 30 delle 100 gouaches non si è potuto sapere più nulla, a partire dal momento in cui furono vendute all’esposizione di Berlino del 1930. Vi propongo un piccolo soffio rispetto al grande respiro che l’opera conclusiva e originale doveva prevedere nel dialogo fra la scrittura di La Fontaine e la pittura di Marc Chagall.

L’UOMO E LA SUA IMMAGINE

Un uomo innamorato di sé stesso

era convinto che nel mondo intero,

in tutto l’universo,

nessuno fosse bello come lui.

E se vedeva il viso suo riflesso

dentro uno specchio, trovandolo diverso

da quello che credeva, si arrabbiava

con l’innocente oggetto, e lo accusava

di non essere affatto veritiero.

Per sua disgrazia,

di specchi, consiglieri di ogni grazia,

ce n’erano dovunque: nei salotti

in tutte le dimore,

nelle borsette di tutte le signore,

persino in tasca a tanti giovanotti,

e ogni specchio rifletteva il vero.

Allora, cosa fa il nostro Narciso?

Abbandona l’umana società,

Si rifugia in un angolo remoto,

dove non ci sia specchio che rifletta

l’ingrata verità.

E anche qui, cosa trova?

Un lago calmo, limpido e tranquillo,

che gli ributta in faccia la realtà.

Lui si infuria, vorrebbe allontanarsi,

ma il lago è così bello

che l’uomo non riesce a distaccarsi.

Avrete già capito

dove voglio arrivare.

Lo strano male

di cui soffriva quel Narciso affligge

tutta l’umanità, senza eccezione.

L’anima nostra, come quel Narciso,

vede in sé stessa ogni perfezione.

I vizi altrui, che abbiamo sotto gli occhi,

sono soltanto specchi

dei vizi nostri che non vogliam vedere.

Quanto allo specchio d’acqua che riflette

inesorabilmente la realtà

di una difettosa umanità,

quel lago è il vostro libro, signor Duca.

Gouache di Marc Chagall per la favola  IL MUGNAIO, SUO FIGLIO E L’ASINO

Gouache di Marc Chagall per la favola  IL CAVALLO E L’ASINO

Beatrice Carrara

La macchina nelle mani di César

Tempo di lettura: 60 secondi.

César Baldaccini, meglio noto come César, nasce nel 1921 a Marsiglia da una famiglia di emigrati toscani.  Il suo impeto verso l’arte lo condusse a studiare Belle Arti prima nella sua città natale poi a Parigi; quest’ultima è stata la città che ha acceso la fiamma del suo genio artistico e che lo ha reso celebre nel panorama internazionale. La sua prima mostra risale al 1954 presso la galleria parigina Lucien Durand, suggella anni e anni di dedizione nel lavorare il ferro, e determina la rottura dall’immagine dello scultore accademico che investe la sua figura. Questo si legge chiaramente nella sua affermazione “il marmo di Carrara era troppo costoso, la vecchia spazzatura era ovunque. Sono diventato uno scultore perché ero povero”. Attenzione: non afferma di essere disperato e di aver scelto di diventare un artista perché senza alternative, ma, la sua affermazione denota la sua indomabile necessità di creare che con il suo genio è riuscito a saziare in modo rivoluzionario e magistrale, nonostante le scarse risorse materiali e di denaro. 

Inoltre, è da collegare alla fatidica data del 1961, anno in cui César si unisce al movimento del Nouveau Réalisme guidato da Pierre Restany. Il Nouveau Réalisme è uno dei grandi movimenti sovversivi del ‘900 che vuole dare risalto all’attività dell’artista e a tutte le azioni che si avvicendano prima di arrivare all’opera conclusa formalmente. Molto spesso impiega oggetti utilizzati, distrutti e rovinati, ma riassemblati e reinterpretati così da dargli un’altra vita e funzione, diventando simbolo di una generazione che distrugge i vecchi valori per crearne di nuovi.

E’  l’azione quindi dell’artista e non l’oggetto in sé a dare senso e significato all’opera d’arte. Dunque, si comprende come la sua scelta di usare rottami come mezzo per animare le sue idee non sia solo dovuto al fatto che non aveva a sua disposizione materiali pregiati, ma anche per il pensiero dominante alla fine del secolo, che vede l’idea più importante dell’aspetto formale nell’opera d’arte. 

“Quando si vede il mio lavoro, ci si rende conto che è puramente fisico, istintivo, ma vi è anche un uomo dietro, con un cervello. Poiché il mio cervello comunica con tutto il resto. E’  il tatto che mette tutta la meccanica dello scultore in movimento: è la materia che guida lo sviluppo dell’immaginazione. A me, una ragazza non mi eccita se non le tocco il posteriore, se non tocco, non succede nulla”.

L’affermazione di Cesar porta una maggiore chiarezza sul perché la maggior parte delle sue opere sono compresse, premute da forze plasmanti esteriori, perché se lui non tocca “non succede nulla”, non gli conferisce vita. 

Negli anni 70’ si innamora di una gigante pressa industriale importata dagli Stati Uniti con cui César inizia a schiacciare le vecchie automobili, nasce così la fortunata serie delle Compressioni. La tecnica è più veloce rispetto a quella delle sculture in ferro saldato, ma il risultato non lascia meno stupefatti. L’artista raccoglie e seleziona oggetti in base a criteri estetici, da queste riflessioni inizia a lavorare con le macchine usate. Oggetti che sono compressi non solo nella forma ma anche nella loro storia, annulla la loro funzione per ricrearla e contestualizzarla, così da far nascere nuove vicende ed emozioni nella mente di chi le mira e ammira. 

Dauphine 1959, 1970 Automobile compressa