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Siamo sull’orlo della catastrofe, non c’è più tempo. Secondo il sesto e ultimo rapporto dell’IPCC (Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico) la maggior parte dei cambiamenti già in atto è irreversibile, ed è improbabile che riusciremo a restare entro i parametri dei recenti accordi sul clima se non ci saranno ingenti spese di denaro pubblico (si parla di migliaia di miliardi di dollari di investimenti). Poche decine di gradi in più rispetto alla media globale fanno la differenza per milioni di specie, anche se l’incremento ci sembra insignificante. E fanno la differenza anche per noi.
Gli oceani stanno già morendo, gli animali soffocando, le tempeste e i fenomeni atmosferici rari diventano sempre più estremi e violenti (è stato stimato che solo durante i devastanti incendi in Australia tra la fine 2019 e l’inizio del 2020 siano morti 3 miliardi di animali). Fenomeni che prima accadevano solo una volta ogni 1000 anni, come le ondate di caldo estreme, ora accadono in media ogni 100, ed entro il 2040 potrebbero diventare comuni. Un recente rapporto della NOAA statunitense ha rilevato che il 2021 è stato il quarto anno più caldo per gli Stati Uniti dal 1895, da quando è iniziata la raccolta dati, e sei degli anni più caldi sono stati registrati negli ultimi dieci.
I recenti accordi climatici, da quello di Parigi del 2015 a quello dell’anno scorso a Glasgow impongono che, per mantenere la temperatura globale media ben al di sotto di 2 ℃ sopra i livelli pre-industriali, sia necessario non solo completamente fermare le emissioni di CO2 (il diossido di carbonio, comunemente noto come anidride carbonica) ma addirittura cercare di ottenere «emissioni negative». Secondo studî sempre più numerosi questo bisogno di «emissioni di carbonio negative» è sempre più impellente. Sempre l’IPCC stima che dovremmo rimuovere dall’atmosfera tra 100 e 1 000 Gt («gigatonnellate» = miliardi di tonnellate) di CO2 entro il 2100 per evitare effetti catastrofici (al momento ne emettiamo 51 miliardi ogni anno). Il problema è che nessuno ha una buona idea di come riuscirci esattamente.
La soluzione ovvia sarebbe piantare un sacco di alberi, per convertire la CO2 in legno (è ciò che fanno tutte le piante grazie alla fotosintesi, restituendo come prodotto di scarto il tanto gradito ossigeno). Ma questo significherebbe rimboschire un’area con una dimensione intermedia tra quella dell’India e del Canada (circa 5 milioni di km2), secondo le più recenti stime. Ciò non è chiaramente fattibile.
Si potrebbe anche provare a fertilizzare l’oceano, il più grande «polmone» terrestre (il 50–80% di tutto l’ossigeno che respiriamo sulla Terra proviene dagli oceani!) stimolando la crescita del fitoplancton, che restituisce ossigeno come scarto attraverso la fotosintesi, come le piante. Ma anche in questo caso, la vastità del progetto e i costi da sostenere fermerebbero un tale progetto prima che abbia modo di partire.
E fino a oggi altre soluzioni alternative sono sempre state prese poco in considerazione a causa dei costi stratosferici, o perché poco efficaci, o per entrambi i motivi. La tecnologia della cattura del carbonio (carbon capture and storage, CCS) promette di rivoluzionare questo paradigma.
Come i vaccini a mRNA contro la COVID-19 e gran parte delle tecnologie avanzate che hanno del fantascientifico, la tecnologia CCS non è saltata fuori dal nulla. È da decenni che gli scienziati parlano di bilanciare le emissioni di gas serra catturando CO2 e immagazzinarla da qualche parte, e di conseguenza sperimentano questo tipo di tecnologia nelle più remote aree del pianeta terra e nei più avanzati progetti di ingegneria.
Il primo problema è la cattura del CO2 stesso. Una soluzione, e la più intelligente quando disponibile, è la «cattura diretta dall’aria» (direct air capture, DAC): si installano attrezzature per il filtraggio per la cattura delle emissioni direttamente alla fonte, sulle ciminiere di centrali elettriche o fabbriche. Il vantaggio è che non solo possono lavorare giorno e notte, ma soprattutto non richiedono la conversione dell’intera centrale o fabbrica a un tipo di energia più pulita, abbattendo sensibilmente i costi di transizione energetica per la relativa filiera.
Lo svantaggio è legato principalmente al costo di una tale operazione, sia in termini di denaro, sia in termini di energia spesa per tenere in funzione suddette macchine. Ipotizzando però di riuscire ad alimentarle con energia pulita e a basso costo (sempre più fattibile considerando che il fotovoltaico e l’eolico sono ormai di gran lunga le forme di energia a più basso costo per kWh prodotto, con prezzi intorno a 0,04–0,12€/kWh), i costi potrebbero scendere intorno ai 100–200 dollari a tonnellata. È comunque più del costo schemi di negoziazione delle emissioni, ma non troppo distante dal prezzo di 100$ che la maggior parte degli economisti climatici ritiene sia necessaria per richiedere la transizione a un’economia mondiale più verde (a oggi i prezzi nell’UE sono intorno agli 80€ per tonnellata).
Sono già attivi alcuni impianti di sperimentazione dell’azienda canadese Carbon Engineering e da quest’anno dovrebbe avviare la costruzione del più grande impianto per la DAC in Texas, che prevede di completare nel 2025, e con una capacità di cattura stimata di 1 milione di tonnellate l’anno; l’azienda è confidente di riuscire a catturare carbonio a un costo medio stimato di 300 dollari per tonnellata. ClimeWorks, un’impresa svizzera, ha già aperto un impianto DAC in Islanda nel 2021 chiamato Orca, che seppellisce CO2 catturato in forma minerale a un tasso di 4 000 tonnellate l’anno.
Una volta catturato, il diossido di carbonio dev’essere immagazzinato da qualche parte, e definitivamente: non possiamo permetterci che esso abbia modo di scappare e ritornare nell’atmosfera. Per questo ci viene in aiuto la geologia.
Conoscenza solida
Una delle osservazioni più straordinarie e fondamentali del secolo scorso proviene da alcuni piccoli laboratori universitari di geologia sparsi per il globo e da una valle sperduta tra i monti Al Hajar, in una nazione non molto conosciuta, a est dell’Arabia Saudita: l’Oman. La valle è un deserto brullo, marrone, con solo qualche cespuglio qua e là, formato prevalentemente da una roccia chiamata peridotite, segnata dagli agenti atmosferici. Eppure questo luogo desolato potrebbe custodire un processo chiave per la nostra sopravvivenza.
Quando piove, l’acqua piovana percola dalle crepe nella roccia, e porta con sé ossigeno e diossido di carbonio disciolti nell’aria. Acqua e gas reagiscono con la roccia formando vene solide di nuovi minerali (carbonati) che, come radici di alberi, scavano sempre più in profondità nella pietra. E come per magia, l’anidride carbonica si trasforma in roccia. Questo processo di carbonatazione è probabilmente il miglior modo di immagazzinare CO2: è un processo che la natura già attua, non occupa spazio in superficie, non c’è bisogno di gestire bombole con CO2 sotto pressione e a temperature criogeniche che rischierebbero di esplodere, e i sottoprodotti sono rocce stabili che possono essere usate anche per altre applicazioni industriali. Ma il punto fondamentale è che non c’è modo per la CO2 di «sfuggire»: il carbonio è chimicamente incastrato nella roccia tra atomi di ossigeno e altri minerali. E l’acqua carbonata iniettata è più densa dell’acqua circostante nella formazione geologica e quindi ha la tendenza ad affondare dopo che è stata iniettata, contribuendo alla permanente fissazione del carbonio senza necessitare ulteriori “tappi”.
Peter Kelemen, geologo della Columbia University, e suoi colleghi, stimano che le rocce in Oman assorbano e pietrifichino ogni anno fino a 100 000 tonnellate di CO2, circa un grammo di gas serra per metro cubo di roccia. Questo avviene in modo del tutto naturale già da milioni di anni! Un piano proposto da Kelemen prevede di accelerare le reazioni naturali trivellando il terreno per alcuni chilometri (fino a 3000 metri di profondità), dove le rocce sono più calde, e pompare acqua di mare satura di CO2 estratta dall’aria con la DAC. A quelle profondità le rocce hanno una temperatura media di 100 ℃, che accelera le reazioni di carbonatazione (anche di migliaia di volte, secondo le simulazioni) e vaporizza l’acqua aiutandola a tornare in superficie senza l’ausilio di pompe artificiali.

Ma è possibile costruire l’infrastruttura necessaria per attuare un simile piano, in tempi brevi e con costi quanto più possibile ridotti?
Una corsa contro il tempo
Il basalto è una roccia grigio-nera e densa, derivata dal mantello, punteggiata di piccole bolle. Contiene meno minerali della roccia dell’Oman, ma comunque più rispetto ad altre rocce della superficie terrestre. Il vantaggio però è che il basalto è uno dei principali componenti della crosta terrestre, coprendo circa il 5% dei continenti e la maggior parte del pavimento oceanico. Per cercare di sfruttarlo, la società islandese Reykjavík Energy ha dato il via a un esperimento di iniezione di CO2, chiamato Carbfix, presso l’impianto geotermico di Hellisheiði. Dal 2012 alcuni macchinari hanno separato CO2 dagli scarichi della centrale e li hanno iniettati nel basalto sottostante attraverso pozzi a una profondità di 400 e 800 metri. Nel corso di due anni, il 95% era stato correttamente immagazzinato nei carbonati. Da allora, il progetto ha permesso di immagazzinare circa 10 000 tonnellate di CO2 all’anno. L’obiettivo della società è riuscire ad accumulare un miliardo di tonnellate entro il 2030. E è stato stimato grazie al solo basalto presente in Islanda, potrebbero essere immagazzinate 400 Gt di CO2.
Un’altra azienda con sede in Oman, la 44.01 (che prende il nome dal peso molecolare medio del CO2) dovrebbe iniziare le operazioni commerciali già da quest’anno. Useranno acqua dolce, o anche acque di scarico trattate, per portare ogni anno 10 000 tonnellate di gas in un singolo pozzo, con l’obiettivo di arrivare fino a 100 000 tonnellate l’anno e 1 Gt complessiva entro il 2030.
Per immagazzinare 1 Gt di CO2 l’anno in Oman, Kelemen e i suoi colleghi hanno calcolato che, sotto opportune condizioni di concentrazione del gas dell’acqua di mare facilmente ottenibili con i macchinari odierni, sarebbero necessari 5 000 pozzi di iniezione. Insieme pomperebbero un totale di 23 km3 d’acqua ogni anno, circa l’1,5% della portata media del Po, o il 21% di quella dell’Arno. Sembra un’operazione di un’entità sconvolgente, ma l’emergenza climatica richiede interventi drastici, e non possiamo permetterci di scartarne nemmeno uno. E il costo dell’inazione potrebbe essere decine di volte più elevato, senza contare quello inestimabile della perdita di vite umane, specie viventi e distruzione ambientale. Solo negli Stati Uniti gli eventi estremi del 2021 (gelo e siccità estremi, incendi boschivi, uragani e cicloni) hanno causato perdite stimate per 145 miliardi di dollari. È stato il terzo anno più costoso nella storia del paese, e il numero di eventi catastrofici da più di 1 miliardo di dollari è cresciuto in maniera sostenuta nell’ultimo decennio.
Con i suoi 15 000 metri cubi di roccia il deserto dell’Oman potrebbe diventare uno dei più grandi bacini naturali di immagazzinamento del diossido di carbonio. E dalla superficie terrestre emergono affioramenti simili in Alaska, Canada, California, Islanda, Nuova Zelanda, Giappone. Kelemen stima che in tutto il mondo queste rocce possano immagazzinare da 60 000 a 600 000 Gt di CO2: da 25 a 250 volte la quantità emessa in atmosfera dall’umanità a partire dal 1850.
Il costo del disastro
Come spesso accade nella storia delle azioni umane, i ricchi fanno i disastri e i poveri ne pagano le conseguenze. II paesi con meno risorse hanno meno capacità di quelli più sviluppati di adattarsi al cambiamento dei movimenti meteorologici, e tendono inoltre a essere più vicini all’equatore, dove il clima sta diventando più instabile che da altre parti. Mentre il mondo si scalda, saranno loro a soffrire di più, e ad avere meno risorse per difendersi. Il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) stima che entro il 2030 i paesi poveri dovranno spendere 140–300 miliardi di dollari all’anno per misure di adattamento, come le difese costiere e i progetti di riforestazione, se vogliono evitare i danni causati dai cambiamenti climatici.
Attualmente, la Carbfix mineralizza CO2 a un costo di circa 25 dollari per tonnellata, in linea con la fascia di prezzo per la riforestazione. Uno studio dell’Università della Pennsylvania ha stimato che i costi complessivi di cattura e immagazzinamento di CO2, inclusi gli stipendi degli operatori e le spese di costruzione e manutenzione delle attrezzature per vent’anni variano tra 120–220 dollari per tonnellata eliminata. Questa però è una stima che non considera l’innovazione: attualmente gli impianti sono di modeste dimensioni, e se questa tecnologia verrà adottata su larga scala, i costi potrebbero abbattersi drasticamente.
Non è necessario però arrivare a mineralizzare gigatonnellate di CO2 entro i prossimi cinque anni però: come per ogni tecnologia all’inizio della sua evoluzione, servono una serie di strutture gradualmente più grandi da cui imparare, per migliorare l’efficienza e i costi. È solo così che riusciremo ad abbattere gradualmente il prezzo e scalare la tecnologia a livello mondiale.

Operazione fumo negli occhi
Non dobbiamo però lasciarci abbindolare da una tecnologia al limite del fantascientifico come questa e usarla come scusa per non aumentare i nostri sforzi di riduzione delle emissioni e transizione a un’economia verde e circolare.
ENI ha di recente proposto lo «sviluppo del primo hub [sic] di decarbonizzazione nell’Europa meridionale costruendo a Ravenna un sistema di cattura, trasporto e iniezione del carbonio, prodotto dal distretto industriale di Ravenna-Ferrara-Porto Marghera, nonché dalla produzione di idrogeno decarbonizzato e di energia elettrica, negli esistenti giacimenti esauriti nel mare Adriatico», con un finanziamento da 1,35 miliardi di euro dal PNRR e altri milioni dalla Commissione Europea.
In Italia, decine di personalità del mondo accademico si oppongono fermamente a questa proposta. In una lettera aperta denunciano la non accettabilità socio-economica e industriale di questi progetti per come sono stati condotti fino a ora. «Proporre lo stoccaggio e l’uso della CO2 rappresenta un alibi straordinario per continuare a produrre anidride carbonica contribuendo all’attuale trend di crescita esponenziale del disastro ambientale. E perseverando scelleratamente a privatizzare utili e socializzare i costi» si legge nell’appello sottoscritto da cinquantatré accademici indirizzato al presidente della Repubblica Mattarella e al presidente del Consiglio Draghi.
In particolare, i firmatari sostengono che la tecnologia CCS si candida a essere una comoda scorciatoia e rischia di compromettere seriamente un percorso di decarbonizzazione del sistema di produzione e consumo che dovrebbe avere invece nella sua razionalizzazione il taglio selettivo dei consumi energetici.
Tra i firmatari c’è anche Ugo Bardi, docente di Chimica Fisica presso l’Università di Firenze. «I risultati sono chiari—commenta Bardi—: per ogni combinazione ragionevole dei parametri, l’energia rinnovabile vince sul “sequestro” del carbonio. Il vantaggio, non solo monetario, suggerisce che dovremmo impegnarci al massimo in questa direzione per combattere i cambiamenti climatici».
E anche Bruxelles ha dato il suo no, sostenendo che per avere un’Unione Europea a emissioni zero nel 2050 si possa e si debba fare a meno della CCS.
Luce (e roccia) in fondo al pozzo
La proposta di ENI è però sostanzialmente diversa da quella esemplificata in questo articolo. Essa prevederebbe, infatti, l’iniezione e l’immagazzinamento del CO2 nei pozzi di idrocarburi in via di esaurimento o già esauriti, e questo darebbe nuova linfa alle attività estrattive di gas e petrolio, contribuendo ulteriormente all’arricchimento di ENI e della cancerogena industria di cui fa parte. Il carbonio così immagazzinato, inoltre, non sarebbe fissato in modo permanente attraverso la carbonatazione, presentando quindi un maggior rischio di fuoriuscite nel tempo.
Per di più ENI è una compagnia petrolifera tra le principali responsabili delle emissioni di gas climalteranti, e un punto di vista morale suggerisce che gli ingenti profitti che una tecnologia come la CCS porterebbe non dovrebbero andare in mano ai soli privati, e per di più a uno dei principali fautori dell’ambiente tossico in cui il Pianeta adesso si trova. E ENI sa perfettamente che questa tecnologia costituisce un’arma formidabile per sviluppare un nuovo mercato, con potenzialità e profittabilità come pochi altri.
Sia l’IEA (Agenzia Internazionale dell’Energia) che l’IPCC sono tuttavia favorevoli in qualche misura all’adozione della tecnologia CCS. Essa non è di certo la soluzione ai problemi enormi e drastici del cambiamento climatico. Né dovremmo investire più risorse in questa tecnologia di quante ne investiamo per la vera produzione di energia pulita, di materie prime pulite (cemento e acciaio in primis), per efficientare le nostre case e per transitare verso una mobilità sostenibile su scala globale.
L’industria delle emissioni negative è appena nata: si trova al punto in cui era il settore petrolifero a metà Ottocento, quando ancora a dominare era l’industria dell’olio di balena. Via via che nuove ricerche e nuovi finanziamenti verranno effettuati, essa migliorerà, e arriverà a poter essere considerata un’arma efficace e pulita per combattere il cambiamento climatico da affiancare a quelle che già abbiamo, soprattutto durante questo primo periodo di transizione a forme di energia più verde. E i deserti dell’Oman e i fondali oceanici potrebbero rivelarsi alcuni tra i nostri migliori alleati.
Andrei Florea