Savinien Cyrano de Bergerac

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La storia, certe volte, con il suo andare antidemocratico, innalza nasconde o cancella uomini, donne e le loro azioni solo per uno squisito gusto personale e casuale.

Però, esistono esseri umani ripescati dall’inferno letterario in cui erano caduti e riabilitati a favore dei moderni. Questo è il caso di Savinien Cyrano de Bergerac.

Più volte nel corso della nostra vita avremo sicuramente sentito parlare di questo Cyrano, del suo naso enormemente lungo e del suo disprezzo verso il potere.

Ma, in tutte le occasioni che il suo nome ha risuonato nel nostro cervello, non facciamo riferimento alla persona reale bensì al personaggio principale della tragedia di Edmond Rostand, drammaturgo francese del XIX.

Nell’opera teatrale, il povero Cyrano è un uomo terribilmente coraggioso ma scisso in due dal suo amore per Rossana e dal suo odio verso il suo corpo e, in particolare, il suo naso abnorme. 

Rostand plasmò il protagonista sulla figura del celebre attore Constant Coquelin e sulla vita del vero Cyrano de Bergerac.

 Savinien Cyrano de Bergerac nacque nel 1619 a Parigi in un periodo brulicante di nuove teorie astronomiche e filosofiche.

 Savinien non fu un uomo qualunque: soldato, libertino filosofico e primo scrittore a realizzare il prototipo del romanzo fantascientifico.

In una delle opere sopravvissute alla censura, “Gli Stati e gli Imperi della Luna”, viene riportato un curioso viaggio spaziale dove scienza, satira e relativismo la fanno da padrone.

Nel racconto, il protagonista tenta vari metodi per poter ascendere alle stelle come legarsi i fianchi con delle ampolle piene di rugiada che, tramite il calore del sole, riescono a sollevare i corpi leggeri oppure, realizzando una macchina di legno, colma di razzi, con l’obiettivo di ergere, contro ogni legge della fisica, un uomo senza bruciarlo. Quest’ultimo metodo sarà la giusta chiave per salire sulla superficie lunare.

Una volta atterrato sul suolo straniero, il protagonista nota la piccolezza della Terra e soprattutto la nullità della Francia rispetto all’intero mondo. Al tempo di Savinien, la Francia era sotto il controllo di Luigi XIII: la società francese iniziava quel lungo cammino di influenze culturali e politiche verso l’Europa che vedranno l’apice con il Re Sole, Luigi XIV. In opposizione a questo nascente controllo francese, nacque una sorta di relativismo antifrancese dove scrittori, come il nostro Savinien, criticavano aspramente, anche se in modo velato, i costumi sociali e quel senso di individualismo tanto ammirato da stati e popoli.

Successivamente il racconto presenta gli abitanti della Luna ossia degli esseri che camminano a quattro zampe ma comunicano in modi differenti in base alla classe sociale: le persone colte, quando erano stanche di parlare, iniziavano ad emettere delle melodie tanto elaborate quanto era importante l’argomento della conversazione mentre, le persone del popolo si esprimevano mediante il movimento del corpo, realizzando una sorta di spettacolo teatrale basato sul mimo. La società descritta è utopica, ispirata sicuramente a quella comunista ideata da Tommaso Campanella (e realizzata in parte in Calabria) e a Utopia di Tommaso Moro, dove la moneta è rappresentata dalle poesie e le persone anziane vengono comandate dai giovani.

Ciò che emerge prepotentemente in realtà è l’assurdo egocentrismo degli abitanti della Luna: nasce verso il protagonista e dunque, verso le persone straniere, una reazione mista fra paura ed incoscienza seguita da quella ignorante superiorità che fa credere di essere migliori rispetto ad un altro essere solo perché si ritiene di vivere in una società più colta e più democratica. 

La reazione spropositata e la non accettazione non sono altro che la negazione di tutta quella società che gli abitanti della Luna (ma anche della Terra) elogiano come migliore, razionale e liberamente aperta.

La sfortuna, o meglio, la censura ecclesiastica e statale, ha voluto nel tempo cancellare le tracce di questo anormale pensatore etichettandolo come pericoloso sia per i vari riferimenti scientifici a Galileo e a Pierre Gassendi sia per il messaggio di libera accettazione del diverso.

Tutto ciò che vi ho presentato è stato oggetto di una parte fondamentale del corso di Letteratura Francese all’Università di Firenze.

Concludo riportando una piccola frase detta dal Demone di Socrate che, nonostante sia estrapolata dal suo contesto, riesce ad imprimersi nei pensieri di tutti noi: “ Pensate a vivere liberamente”.

Giulia Freno

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La denuncia sociale delle fiabe

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Al giorno d’oggi associamo sempre alla fiaba dei connotati infantili, decisamente bambineschi, ma la realtà è differente.

In una lezione di Letteratura Francese all’Università di Firenze è stata esaminata una delle fiabe più celebri, “La Bella e La Bestia”.

Appena sentiamo il titolo dell’opera ci viene in mente la versione animata della Disney piena di canzoni e di quella squisita morale dei buoni contro i cattivi tipica delle semplificazioni.

Però, questa versione è la riscrittura di una riscrittura: l’opera originale è quella di Madame De Villeneuve, scrittrice del XVIII capace di denunciare la precarietà delle donne in un contesto che le trasformava in semplici oggetti di scambio.

Il testo venne pubblicato nel 1740 nella raccolta “La Jeune Américaine et les contes marins” ma non ottenne un grande successo.

Spieghiamo brevemente la trama: la famiglia di Bella è composta dal padre mercante, tre sorelle zitelle, egoiste ed attaccate al lusso e tre fratelli. Un giorno il genitore dopo aver perso le sue ricchezze a causa della sventura e dell’avidità dei commercianti, dovette andare in città. Le tre sorelle chiesero dei vestiti costosi mentre la giovinetta si distingueva chiedendo al padre un’umile e semplice rosa. Al ritorno dalla città, il vecchio si perse nella foresta e dovette rifugiarsi in un castello abbandonato dove trovò la cena pronta e un letto su cui dormire, senza vedere nessun tipo di essere vagare per l’edificio.

Al mattino, vedendo un roseto si ricordò della richiesta di Bella e decise di raccogliere una rosa ma, appena il delicato fusto del fiore fu reciso, un incredibile rumore proveniente dal castello fece tremare il povero uomo. Uscì una sorta di animale detto la Bestia che rimproverava il vecchio di essere un ospite ingrato per aver strappato quella dolce rosa; il padre si scusava dicendo che l’aveva fatto solo per soddisfare la richiesta di una delle sue figlie e allora, il brutale essere disse all’uomo, se questo voleva aver salva la vita, di far venire volontariamente una delle sue figlie al castello.

Una volta tornato a casa, piangendo disse il guaio in cui si era cacciato a causa di Bella e, la dolce fanciulla, che tanto era coraggiosa quanto amava il padre, si propose per andare in pasto alla Bestia. Partirono ed arrivarono al castello dove quell’essere li stava aspettando. La belva chiese se la ragazza era venuta di sua spontanea volontà e lei rispose di sì. La Bella e il padre piansero come se quello fosse l’ultimo momento che passavano insieme ma, per non indispettire troppo la Bestia, il vecchio disse addio alla fanciulla ed andò via.

La Bella era terrorizzata, si trovava in un castello abbandonato, priva dei suoi affetti e con la paura di essere divorata da un momento all’altro. Arrivata l’ora della cena, la ragazza vide il mostro a tavola, non l’aveva visto per tutta la giornata. L’animale le chiese come stesse e disse che non doveva aver paura, lui l’avrebbe trattata come una regina. Ad un certo punto, la Bestia disse alla Bella se voleva andare a letto con lui, la fanciulla spaventata disse di no e il padrone del castello si ritirò nelle sue stanze dopo averla salutata. La proposta veniva avanzata ogni sera e, ogni volta, la Bestia riceveva una risposta negativa.

Non voglio dilungarmi ulteriormente sulla trama per non annoiare voi lettori ma era necessario per introdurre il tema principale della fiaba.

Il dialogo fra il padre della giovane donna e la Bestia non è altro che la rappresentazione dell’inizio di un matrimonio combinato: la rosa, rappresentante la verginità della fanciulla, è la merce di scambio per far sì che l’anziano uomo abbia salva la vita ed infatti, alla consegna di Bella è seguita la consegna di un baule contenente ricchezze tali da ristabilire economicamente la famiglia.

La scrittrice però, non si ferma solo all’accordo matrimoniale ma esplora anche il punto di vista di una ragazza divenuta sposa di un uomo che non conosce, un uomo di cui ha paura e che le pare un animale.

La Bella ha avuto la “fortuna” di trovare un uomo che la rispetta in quanto essere umano e per questo, alla richiesta e al successivo rifiuto di venire a letto insieme, la Bestia pacatamente va via; fortuna che non ha avuto Madame De Villeneuve, sposata tramite matrimonio combinato e poi, divenuta vedova di un giocatore d’azzardo.

L’autrice, nonostante tutto, invita più volte nel corso della fiaba ad andare oltre le apparenze, oltre quella maschera di mascolinità tossica poiché, una volta compresi ed amati i drammi e le sofferenze della Bestia questa, può finalmente trasformarsi in un principe ed essere libera.

Mi pare superfluo distinguere la maschera di mascolinità tossica tipica del patriarcato, dell’uomo che deve essere necessariamente forte e brutale dalla violenza vera e propria, verbale, psicologica e fisica, ma è sempre meglio specificare.

Tornando alle riscritture, quella che ha ispirato la versione disneyana è di proprietà di Madame De Beaumont: il dialogo fra il padre e la Bestia è ancora presente ma la richiesta del padrone del castello alla Bella non è quella di venire a letto con lui ma quella di diventare sua moglie.

La Disney naturalmente ha tolto qualunque riferimento allo scambio e alla sessualità ma ha mantenuto il messaggio di andare al di là delle apparenze, oltre all’aver aggiunto dei servitori trasformati in oggetti d’arredamento e da cucina.

Madame De Villeneuve può essere considerata come una delle prime femministe a denunciare questo grottesco sistema di matrimoni, tuttora presente in molte parti del mondo, tra cui anche l’Italia.

Per informazioni si veda il report sulla costrizione o induzione al matrimonio in Italia del Dipartimento della Pubblica Sicurezza sul sito del Ministero dell’Interno.

Giulia Freno

Gli inferi letterari della censura

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 La scuola è la fonte di conoscenza primaria, luogo dove tutti, chi più e chi meno, hanno passato molto tempo della loro breve, e a tratti misera, esistenza. Tutte quelle montagne di libri, dalla matematica all’educazione fisica, dalla filosofia fino ad approdare alla letteratura. Quest’ultima, una materia così noiosa, con tutte quelle regole da tenere a mente come la legge della baritonesi e la struttura di un sonetto. E poi, dopo averci ingolfato di tutte queste nozioni eccola che arriva, dolce sui suoi passi di fata, l’unica ed inimitabile poesia. La poesia, quel dolce suono che volteggia sugli accenti da una parola all’altra, un’emozione così forte che esce dal foglio e ti stringe delicatamente quei lembi putrefatti tipici del corpo umano, un’essenza, una meraviglia, una salv- No, non scherziamo, la poesia insegnataci a scuola non ha niente a che vedere con le emozioni citate. Tutti i testi presenti nelle varie antologie sono il frutto di una scelta. La selezione riprende sia il gusto del curatore del libro stesso, sia del professore che insegna e addirittura anche la sensibilità del periodo storico in cui ci troviamo. In ogni caso siamo sempre davanti ad una censura, che sia di tipo personale o storica. Vi siete mai chiesti il motivo per cui le poesie di Dante sono sempre, costantemente, le stesse sui libri di scuola? Mi direte che, poiché sono diventate canoniche, devono necessariamente essere presenti! Sì, è vero ma questo contribuisce solo a rendere l’autore un essere mitologico, fuori dal tempo e addirittura, inumano.

Durante di Alighiero Degli Alighieri innaturale, a-temporale e infinito! Certo, peccato che il nostro autore non sia altro che un uomo sposato che praticava costantemente l’adulterio, spirituale e non. Il Poeta con i suoi istinti e le sue fragilità non era altro che l’incarnazione di quell’umanità che noi mascheriamo come forte, possente, quando invece ha solo paura di mostrarsi per quello che è! Era figlio del suo tempo e come tale, esprimeva la sua precarietà vitale su piccoli manoscritti di cui noi, abbiamo solo le copie e non i suoi autografi; quei fogli dove l’emozione veniva imprigionata insieme alla disarmante bellezza di Beatrice Portinari. Una beltà insomma, che sbriciola gli intestini, che corrode le carni e risplende nei più bei sogni notturni. Ed infatti in un capitolo della Vita Nova, è presente una donna, una donna nuda che ha in mano qualcosa, non capiamo immediatamente di cosa si tratta ma poi, notiamo che pulsa, è fiammante, la bella sta mangiando il cuore del poeta! Avrete sicuramente, spero, notato la pseudo allusione sessuale; ecco cosa vi siete persi di Dante nei vostri studi obbligati! Avete perso l’essere umano e ciò che vi ho citato è solo una minuscola parte dell’immensità emotiva dell’autore. 

Come Dante, tanti altri scrittori sono caduti nella trappola del mito, privati della loro emozione cocente, come Torquato Tasso. Il noioso e pazzo Tasso, ricordato sempre dopo l’Ariosto o citato in qualche scritto di Leopardi. L’autore campano ha, per tutta la vita, vissuto sotto il peso scrosciante della censura e del giudizio altrui; l’unico modo per liberarsi era la scrittura realizzando o poemi come la Gerusalemme Liberata ( e poi Conquistata) o le Rime. Ricordo una poesia particolare dove, il nostro poeta, dopo aver visto delle donne baciarsi, esprimeva il desiderio di diventare il terzo fra le due. Oh il dolce e virginale Tasso!

Passiamo ora allo scrittore e drammaturgo toscano Pietro Aretino. Il suo nome viene vagamente citato nelle antologie e tra poco ne capirete il motivo: una delle opere più preziose e più nascoste, si chiama “ Sonetti Lussuriosi”. Non posso citarvi per filo e per segno le rime ma, induco la vostra curiosità a ricercare questi scritti a partire da un piccolo frammento dal Proemio del Secondo Libro: 

Questo è un libro d’altro che Sonetti, 

di Capitoli, d’Egloghe o Canzone; 

qui il Sannazaro o il Bembo non compone 

né liquidi cristalli, né fioretti. 

Qui il Bernia non ha madrigaletti, 

ma vi son cazzi senza discrezione, 

ecci la potta, e ‘l cul che gli ripone, 

come fanno le scatole a’ confetti.

E questa è la parte divertente che vi siete persi ma i testi, cosiddetti, proibiti, non hanno ancora aperto le loro gabbie. 

Infine, vi lascio con un piccolo assaggio di quell’autore che, solo a pronunciare il nome, ci induce a nasconderci dietro il pudore, il Marchese de Sade. L’uomo che condannò la più insolente morale spicciola della virtù; un odio e un disprezzo verso la Provvidenza aleggiava, sulla testa del libertino. Sophie, una delle protagoniste di uno dei romanzi più diffusi, è la pudica vittima da immolare per descrivere una società basata sul vizio e l’ingiustizia della fortuna. La solita fortuna che imputridisce alla vista dell’innocenza e della fede. 

Lettori vi porgo un invito: cercate oltre le antologie e le lezioni scolastiche, non fermatevi alla mera scelta di qualcun altro; se lo farete, la becera e sublime essenza dell’umanità vi si porrà, inerme, di fronte al vostro sguardo.

Gli uomini censurati sono esseri temuti, non disprezzati.

Giulia Freno

Bibliografia e riferimenti:

  1. “Alighieri Durante, detto Dante” St.2020/21, Esclusiva Rai Cultura
  2. “La Vita Nova”, di Dante Alighieri, a cura di M. Barbi, Bemporad, Firenze, 1932 
  3. “Rime”, di Torquato Tasso, Letteratura italiana Einaudi ( ed. di riferimento “Le rime”, a cura di Bruno Basile, Salerno, Roma, 1994)
  4. “Sonetti lussuriosi e altri scritti”, di Pietro Aretino, “I classici dell’erotismo”, Sonzogno, Milano, 1986
  5. “De Sade, I romanzi maledetti”, a cura di Paolo Guzzi, Gianni Nicoletti, Flaviarosa Nicoletti Rossini, Claudio Rendina, Grandi tascabili economici, I mammut, Newton Compton Editori, 2010