Il calcio fiorentino: perché parlarne a febbraio?

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Una delle motivazioni per le quali è particolarmente stimolante affrontare il percorso universitario a Firenze è legata al fatto che spesso ci si ritrova a tu per tu con ciò che si studia, si possono percepire al 100% tanti aspetti spiegati durante le lezioni; student* di lettere possono passare per le stesse vie percorse da Dante, così come student* di storia dell’arte possono godersi ogni giorno le meraviglie studiate in aula. Questo accade anche per coloro che affrontano un corso di antropologia culturale, disciplina quanto mai vasta, che nell’anno accademico 2020/2021 è stato condotto dal professor Nardini, specializzato in antropologia dello sport.

Vista sul lato più vicino alla chiesa con gli spalti per i numerosi tifosi
Fonte: florence on the line

Branca dell’antropologia culturale relativamente giovane (rispetto alle altre), dagli ultimi decenni del secolo scorso inizia a farsi spazio in un panorama che come sappiamo bene ha visto lo sport prendere sempre più importanza a livello collettivo, senza essere dunque considerata un’attività elitaria come un tempo, ma che crea e subisce fenomeni non trascurabili su diversi livelli, basti pensare all’ampio seguito che ha oggi il calcio, ma anche il tennis, o il basket. Queste attività, con le loro numerose sorelle, possono essere buone per pensare in quanto offrono una lente su loro stesse e su tutto l’ambiente che intorno vi si crea, ambiente che diventa così portatore e veicolo di significato, di cultura: questi sono solo alcuni dei prerequisiti che devono sussistere per far sì che certe attività possano entrare a far parte di quelle tutelate dall’UNESCO, che dal 2003 tutela i beni culturali intangibili, ossia tutte quelle attività (danze, giochi, aspetti linguistici, tradizioni artigianali…) che hanno un significato rilevante e che concorre a creare senso di identità per le comunità in cui queste attività si realizzano.

I calcianti che si sfidano: rossi contro verdi
Fonte: Cultura comune

Questa definizione, seppur superficiale, porta con sé dei potenziali problemi che non possono essere affrontati in questa sede, ciononostante è importante rilevarne almeno uno, per provare a meglio comprendere la complessità stante dietro questo tipo di dinamiche: si parla quanto mai spesso di concetti quali la “collettività”, la “società”, ma davvero esiste una sola società? Una sola collettività? In un panorama eterogeneo come quello fiorentino (e sfido a trovare un panorama non eterogeneo, oggi) non è così semplice e “matematico” avere una società che si trovi d’accordo su un dato tema, aspetto che però è fondante ai fini della candidatura di un determinato bene (sia esso intangibile o tangibile) nella lista dei beni UNESCO. La storia del riconoscimento del calcio storico fiorentino è dunque una storia che si lega alle disposizioni date dall’UNESCO e dalla Convenzione di Faro, aspetti che comunque viaggiano sui binari “nuovi” dell’intangibilità, ancora privi di una prassi consolidata dal tempo, con tutte le difficoltà del caso, storia che si lega inoltre sul senso di appartenenza a un dato quartiere storico, alla città fiorentina e al senso di profonda capacità ironica stante dietro all’immaginario del “fiorentino”. Ma perché?

Il calcio fiorentino è una realtà poliedrica che è stata in grado di rimanere cifra caratteristica di una società che, da sempre, è molto attenta a rivendicare il senso di appartenenza alla città: quella fiorentina. Per lungo tempo gli abitanti dei quartieri storici di Firenze -Santa Croce, San Lorenzo, Santo Spirito, Santa Maria Novella- si sono ritrovati, in diversi momenti dell’anno, a rincorrere la vittoria del calcio fiorentino attraverso le cacce in Piazza Santa Croce, al cospetto della chiesa. 

Si deve notare che il calcio fiorentino appartiene a quella sfera di pratiche tradizionali che nell’immaginario collettivo ha assunto una dignità anche in ragione del tempo e della risalenza nei secoli: ma è davvero una pratica così antica?

Si trovano notizie della pratica del calcio fiorentino già nel XVI secolo, come attività svolta inizialmente dalle parti subalterne; durante il XVI secolo si assiste a una sorta di elevazione del gioco, che arriva a essere praticata dai figli dei signorotti fiorentini che potevano così fare pratica per le attività militari, e mettevano in scena le partite in momenti importanti come per le visite di alleati, per i matrimoni dell’alta società, dunque per festeggiare momenti di coesione sociale e per celebrare il potere. Perché parlarne a febbraio? 

Ne parliamo a febbraio perché è proprio una partita giocata in questo mese, nel lontano 1530, che costituisce il modello per le partite poste in essere ancora oggi: nel 1530 fu giocata infatti una partita, passata alla storia come la partita dell’assedio, nel febbraio che vedeva le mura fiorentine assediate da Carlo V. Questo contesto diventò per gli abitanti un’occasione per dimostrare che lo spirito fiorentino, quello sarcastico, divertente e giocoso, non poteva soccombere; nonostante la sconfitta militare, i fiorentini avevano ancora qualcosa da dimostrare. Così, il 17 febbraio, sotto lo sguardo incredulo delle truppe di Carlo V (che vedevano la piazza di Santa Croce dalle colline circostanti dove si trovavano ormai prossimi a concludere l’assedio) si svolse la partita dell’assedio, che si sarebbe svolta come d’uso all’epoca, in occasione del carnevale. 

L’evento che oggi si rievoca è dunque un evento di scherno verso un nemico che sì, sta per vincere, ma che non vincerà in tutto, perché lo spirito ironico e sbeffeggiatore fiorentino non si piega. Questo è il vero soggetto della rievocazione che, grazie all’apporto dato dal celebre Corteo Storico fiorentino, trova espressione ogni anno. 

Il campo di sabbia visto dal lato della Chiesa di Santa Croce
Fonte: visit-italy

Dopo questa partita del 1530 si continuò a giocare ma, curiosamente, ci sono sempre meno fonti che testimoniano il proseguimento della pratica; in questo senso assume valore la riscoperta del gioco da parte di Pietro Gori, che nel 1898 inizia una ricerca a tratti filologica atta a ritrovare questo gioco che, dall’arrivo dei Lorena in città, scomparve gradualmente dalla memoria cittadina. I frutti della ricerca da lui effettuata portano, nel 1902, a una prima rievocazione storica del gioco e dei costumi tradizionali: di grande impatto a livello sociale e collettivo, questo evento (ripetutosi nello stesso anno), non venne istituzionalizzato come pratica annuale. Alla sua istituzionalizzazione pensò Pavolini una ventina di anni dopo (sounds familiar?), che con un gruppo nutrito di persone, creò un comitato per la ricostruzione del gioco fiorentino: il fascismo, come ben sappiamo, era solito andare a recuperare aspetti rimasti impolverati nel passato storico di una città per riesumarli, modificarli e piegarli per ottenere aderenza e forza per la propaganda, nella “prassi della dittatura”. Questo è avvenuto: per volere di questo comitato iniziarono ricerche ancora più profonde di quelle portate avanti da Gianluca Gori, che portarono anche a un’analisi capillare degli affreschi del Salone dei ‘500 a Palazzo della Signoria atti a ricostruire nel modo più verosimile l’evento, i costumi, l’atmosfera. Il fascismo fu dunque un momento in cui il calcio fiorentino vide una strumentalizzazione che lo portò ad assumere anche il nome “storico”, proprio per evidenziare la sua natura rievocativa: la prima partita si tenne nel 1930, a 400 anni dalla morte di Francesco Ferrucci. Non a caso, nel 1926 nasceva l’AC Fiorentina, perciò si stava creando una dimensione sportiva peculiare della città, cui gli abitanti potevano fare riferimento per costruire e tessere il senso di appartenenza. Il calcio storico subì un’interruzione per la guerra, ma venne reintrodotto nel ‘47 in un contesto politico stravolto, ma se ne mantenne la stessa narrazione. In una Firenze distrutta, il calcio storico venne reintrodotto dall’amministrazione locale che possedeva segno politico inverso, ma che decise comunque di re introdurlo grazie alla presa che aveva avuto sulla cittadinanza. C’erano motivazioni radicate nelle logiche sociali del periodo: la riscoperta delle tradizioni, il turismo che si avviava ad assumere il suo ruolo fondamentale… l’amministrazione del dopoguerra spinse per reintrodurla anche per le possibilità che portava di rinascita e spinta economica per la città. Si fece pressione facendo leva sulla stessa narrazione della partita dell’assedio, ma assumendo un’accezione radicalmente diversa: questo è importante perché pone in luce come sia possibile dare allo stesso racconto significati diversi, anche opposti.

Oggi il calcio fiorentino si celebra con  il Torneo di San Giovanni, a giugno, con la finale il 24, giorno in cui si rende omaggio al santo patrono di Firenze. I 4 quartieri storici si sfidano in un gioco di palla in cui lo scopo è piazzare la palla in una rete per fare punteggio: per perseguire tale obiettivo sono usate tecniche di lotta e pugilato. Ogni partita è introdotta da una sfilata del corteo storico che termina in piazza Santa Croce, composto da ben 530 partecipanti i cui costumi sono stati riconosciuti per la loro raffinatezza artigianale. Attualmente, se il corteo è rimasto lo stesso sia nel percorso che nei personaggi, il gioco si è evoluto in funzione del contesto sportivo. Inizialmente c’erano atleti di diversa estrazione sociale a partecipare, e venivano estremizzati gli aspetti più violenti di ogni pratica sportiva praticata all’esterno. Oggi, i facenti parte sono atleti professionisti, e oltre al loro sport di riferimento praticano anche il calcio fiorentino: questo ha scremato la possibilità di accedere al gioco, perché il livello atletico si è alzato di molto. Si è alzata anche la violenza del gioco, considerando che si tratta di atleti tecnicamente a livelli altissimi che si interfacciano inoltre a livelli di mediatizzazione molto grandi, essendo stati oggetto di documentari per canali internazionali; Netflix ha prodotto un documentario. 

Questa scenografia si crea nel centro storico di Firenze, che è l’essenza della storia gloriosa che il calcio storico si incarica di rievocare. Questo perché il centro storico di Firenze è la rappresentazione emblematica del Rinascimento italiano (periodo storico che rimane comunque fuori dalla rievocazione del calcio); è diventato patrimonio UNESCO nel 1982, e oggi torna a essere centro d’interesse per le nuove declinazioni del patrimonio, ossia quelle intangibili. 

I costumi sono stati riconosciuti come portatori di valore artigianale e artistico, e la Soprintendenza aveva avviato il procedimento per la salvaguardia dei beni secondo il concetto classico di patrimonio, legato al valore artistico e materiale degli oggetti. A tal punto è intervenuto il Ministero per avviare un progetto che riguarda aspetti più immateriali circa il corteo e la manifestazione del calcio storico. Il progetto di salvaguardia verte sulle linee guida dell’UNESCO e della Convenzione quadro di Faro, e si pone come obiettivo la salvaguardia e il riconoscimento del valore del palio di Siena e del calcio storico, con il loro grande impatto sulla/sulle collettività dei luoghi in cui si svolgono.

Daria Passaponti

 

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L’inferno a Roma

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Le Scuderie del Quirinale: una certezza ormai, in fatto di mostre.

Dopo la ricca esposizione su Raffaello, in occasione dei 500 anni trascorsi dalla scomparsa dell’Urbinate, che aveva visto un’affluenza notevole nonostante le difficoltà legate allo scoppio della pandemia, questo luogo si offre ancora una volta come dimora temporanea per un’altra importante mostra: Inferno.

Certo è, che in fatto di centenari e ricorrenze, le Scuderie del Quirinale possono considerarsi ormai leader: in questo 2021 si celebra infatti il 700enario dalla morte di Dante Alighieri. Un’altra commemorazione a Dante, dunque. Un’altra lode lunga 10/11 sale, piena di storia e nozioni sulla situazione politica fiorentina, ravennate, italiana dunque, con excursus sulle sue doti poetiche.

E invece no.

Qui entra in gioco Jean Clair, pseudonimo di Gerard Régnier: l’accademico francese, storico e critico d’arte di fama internazionale, può vantare l’aver ricoperto ruoli importanti quali direttore del Musée Picasso, Direttore della sezione arti visive della Biennale di Venezia dal 1994 (l’anno successivo diresse l’edizione in toto), membro dell’Académie française dal 2008.

Jean Clair è riuscito a realizzare un’esposizione che non è su Dante, ma tratta ovviamente anche Dante. Questo è fondamentale perché in una mostra a tema Inferno è chiaro che Dante sia un perno del discorso; la difficoltà, affrontata in modo eccezionale dal curatore, è insita nel tentativo di non rendere Dante una presenza troppo importante, soffocante. Si può dire che Jean Clair sia riuscito in questo, e abbia reso Dante il nostro Virgilio nell’Inferno creato nelle Scuderie del Quirinale.

La mostra trova le sue ragioni d’essere non solo nel 700enario dantesco, ma anche in un profondo desiderio del curatore: come dichiarato nel 2020 in un’intervista al “Giornale dell’Arte” con Luana de Micco, Jean Clair aveva già proposto nel 2006 a diversi musei francesi e al Prado di Madrid questo tipo di progetto, sentendosi poi rispondere negativamente, “come se fosse incongruo all’epoca interessarsi all’Inferno”.

È stato certamente anche alla luce di ciò che lo studioso ha accettato volentieri la proposta delle Scuderie del Quirinale: l’organizzazione di questa esposizione, inserita nel più ampio programma di celebrazioni dantesche a livello nazionale gestito da Carlo Ossola, è stata per lui l’occasione di concludere (a suo dire) il lavoro di curatore su un tema spettacolare e che gli sta molto a cuore.

Immagine del curatore
fonte: wikipedia, Jean Clair nel 2003

Nella prima sala della mostra l’occhio del visitatore si trova già a dover compiere una scelta molto difficile riguardante la prima opera cui porre attenzione. La Porta dell’Inferno di Rodin (nel suo modello del 1989 in fusione a gesso in scala 1:1) gentilmente concesso in prestito dal Musée Rodin di Parigi oppure, a destra, la scultura La caduta degli angeli ribelli (1725-1735) attribuita a Francesco Bertos?

Porta dell’Inferno, Rodin, fusione a gesso 1:1, 1989
Caduta degli angeli ribelli, marmo di Carrara, 1725-1735, attr. Francesco Bertos

L’aver posto La caduta degli angeli ribelli nella prima sala della mostra mette in luce quanto sia importante ricordare “l’antefatto”, e per questo tema addirittura si è scelto anche di esporre La Caduta di Andrea Commodi, prestata dagli Uffizi. Le due opere (una scultorea, l’altra pittorica) dialogano dunque per restituire al visitatore una sorta di prequel, una dimostrazione di quanto è avvenuto prima. Prima di cosa? Prima della creazione di questo concetto immenso e caratterizzante per la nostra cultura, ma non solo: come viene brillantemente spiegato, in toni chiari ma mai banali dalle didascalie presenti a muro e in prossimità delle opere, la questione legata alla morte e all’Aldilà trova la sua centralità in qualsiasi realtà religiosa, sin dal principio. Effettivamente, è da sottolineare la puntualità di ogni descrizione presente in mostra, che accompagna il visitatore nel suo viaggio infernale rimanendo fondamentale punto di riferimento.

Nella prima sala, oltre a Rodin, Commodi e Bertos (?) , trovano spazio anche Gil de Ronza, con la sua Morte (1522 ca.) che strizza certamente l’occhio alla Maddalena donatelliana, e il Giudizio universale (1425) di Beato Angelico, direttamente dal Museo di San Marco fiorentino.

La Porta dell’Inferno di Rodin sbarra la strada verso i successivi gironi, quasi intimando al visitatore di non proseguire attraverso le terrificanti immagini con cui è decorata: la decorazione non reca però un’illustrazione letterale della Commedia (da cui certo prende le mosse soprattutto nelle sue sezioni più antiche), ma vede collaborare ai fini di realizzare un’immaginario quanto più tremendo e totalizzante anche un altro poeta: Baudelaire e i suoi Fleurs du mal. Accanto alla porta in gesso è presente anche una sezione che mostra al visitatore alcuni studi, bozzetti vari, realizzati dall’artista che si accingeva a compiere questo incredibile lavoro.

Foto: all’apice della porta troviamo il celebre pensatore. Accanto all’opera, il celeberrimo verso dantesco.

 Dettaglio della Porta dell’Inferno, scattata da Daria Passaponti
 Versi danteschi, scattata da Daria Passaponti

Proseguendo la nostra discesa nell’Inferno, le sezioni che seguono sono un’ottima dimostrazione di quanto questa mostra voglia mettere insieme, oltre che diversi messaggi, anche diversi medium attraverso i quali trasportarli: troviamo infatti quadri, fotografie (con la foto della Bocca della Verità nel suggestivo Parco di Bomarzo), codici medievali e rinascimentali, sculture… Il tutto atto a mostrare quanto, effettivamente si sia cercato di descrivere questo inferno, di trovarlo, di renderlo in qualche modo “comprensibile”. Ma come afferma Laura Bossi, che ha avuto ruolo fondamentale nell’organizzazione della mostra insieme a Jean Clair, “l’Inferno è impensabile, indicibile, infigurabile”.

La seconda sala, di forma ellittica con apertura sulla terza, accompagna (o forza?) lo sguardo del visitatore al centro, verso l’uscita da questa ellisse: qui troviamo Satana che convoca le sue legioni, una tela di Sir Thomas Lawrence del 1796-1797, prestata dalla Royal Academy of Arts di Londra.

Foto della sala, scattata  da Daria Passaponti

Compiendo lo sforzo di non avvicinarsi immediatamente a quest’ultima, ma dandosi il tempo per osservare come il curatore ha voluto accompagnarci da Satana, si possono ammirare le fotografie scattate da Herbert List nel Parco di Bomarzo, codici come “Il cavaliere errante” o La città di Dio di Sant’Agostino, e la Medusa di Ivan Theimer. L’opera di Theimer è accompagnata da un focus sulla bocca dell’inferno: il tema è legato alla figura metaforica che trova le sue radici agli inizi dell’anno Mille in zona anglosassone, diffusasi poi nell’Europa occidentale attraverso miniatura e scultura e arrivando a rappresentare autonomamente l’inferno e le sue sofferenze. Questo aspetto risponde alla necessità umana di dare un volto a ciò che spaventa, in quanto siamo sempre più inquieti rispetto a ciò che non comprendiamo, che non possiamo vedere nitidamente.

Foto Medusa di Ivan Theimer scattata da Daria Passaponti

Proseguendo verso Satana che convoca le sue legioni, ci si accorge concretamente dell’ottimo effetto che le luci di allestimento compiono esaltando il petto di questo Satana che sembra convocare noi visitatori, ormai parti integranti delle sue legioni. L’opera, che anche grazie alle dimensioni resta impressa nel ricordo della visita come se ne fosse la “copertina”, è stata realizzata fra 1796 e 1797 da Sir Thomas Lawrence sotto il segno di Fuseli.

Satana che convoca le sue legioni, Sir Thomas Lawrence, 1796-1797, scattata da Daria Passaponti

La mostra continua trattando i temi del viaggio nell’inferno, trattando naturalmente la figura di Caronte, presentata al visitatore attraverso l’opera di José Benlliure realizzata nei primi decenni del ‘900 e attraverso i versi 82-87 del III canto dell’Inferno.

Altra opera di spicco presente in mostra è la tela di Bouguereau, Dante e Virgilio del 1850, in prestito dal Musée d’Orsay: l’opera, di 280,5×225 cm, si staglia con una potenza impressionante legata al candore di queste superfici umane così finemente descritte dall’artista, con una luce che mette in evidenza la violenza dell’atto, della punizione che spetta a coloro che si fingono qualcun altro per ingannare il prossimo. Un passo indietro rispetto alle figure che lottano, notiamo Dante e Virgilio che osservano la scena in penombra, sotto lo sguardo (di chi è ormai abituato a tali scene) del demone alato alla loro sinistra.

Foto di Dante e Virgilio, Bouguereau, 1850 scattata da Daria Passaponti

Avventurandosi ancora oltre in questa serie di rappresentazioni infernali, ci si perde in alcuni degli episodi più celebri: l’incontro di Dante con il Conte Ugolino e le varie interpretazioni dell’amore di Paolo e Francesca.

Qual è, giunti a questo punto, il valore davvero aggiunto a questa mostra? Il quid che non la rende assimilabile a tutte le altre celebrazioni dantesche? La “seconda” sezione.

Questo perché la seconda sezione, volendo creare una distinzione che a chi ha visitato la mostra verrà naturale forse fare, non parla di Dante, ma parla di noi.

Partendo, o arrivando, dalla celebre frase di Camus, secondo cui l’inferno siamo noi, l’esposizione prosegue trattando i temi più infernali del mondo moderno, passando anche per un’analisi in senso etnografico e folkloristico del tema con le sue attestazioni nella cultura popolare. In questo modo trova senso l’installazione con i pupi, direttamente dal Museo Antonio Pasqualino che testimoniano un sistema di pensiero magico creato dagli esseri umani per potere credere (o illudersi) di poter sconfiggere questo male. In questa parte ad accompagnare il visitatore non è un verso di Dante, bensì una citazione presa da Des fleurs du mal di Baudelaire:

È il diavolo a tirare i nostri fili!

Dai più schifosi oggetti siamo attratti;

e ogni giorno nell’Inferno ci addentriamo d’un passo,

tranquilli attraversando miasmi e buio.

Analizzando la figura del diavolo nelle sue declinazioni più terrene, viene naturale pensare ai concetti di peccato e di tentazione: proprio questo è il titolo della sala successiva, che vuole mostrare al visitatore la volontà di unire, sia a livello cronologico che stilistico, una miriade di artisti che bene o male hanno rappresentato l’inferno o una sua caratteristica.

E questi sono, nella maggior parte dei casi, facenti parte della contemporaneità.

Perché?

Perché l’inferno ha avuto un ruolo fondamentale nell’immaginario comune e nell’arte del passato, è sempre stato (o quasi) un protagonista importante nella sua concezione dantesca e cristiana; ma nella contemporaneità invece? Nel XXI secolo?

Nel XXI secolo, come affermato dallo stesso Clair Jean, è stato il secolo stesso a diventare inferno.

Il secolo breve ha visto infatti un susseguirsi impressionante di inferni in terra (analizzati puntualmente nella mostra), come quello della fabbrica (che vede ovviamente le sue radici nel secolo precedente), in cui troviamo dei veri e propri dannati, le megalopoli, le miniere, le prigioni e i manicomi costruiti sul modello delle architetture panoptiche: non sono stati forse anche questi, quanto quelli di Dante, dei gironi infernali?

Ecco che la mostra, avvicinandosi alla conclusione, si fa sempre più cruda, con una violenza espressionista nei modi e per niente simbolista nei termini: questa parte fa più impressione della prima, perché la prima parte è tratta dopotutto da un libro. Un capolavoro, certo, ma comunque un libro, che si può pur sempre chiudere e smettere di leggere per tornare alla nostra vita, nelle nostre tiepide case.

L’inferno del XXI secolo invece non è un racconto, è verità, è passato che non deve essere dimenticato.

Clair Jean si pone dunque un altro obiettivo, quanto mai gravoso: ricordare al visitatore che l’essere umano può crearlo questo inferno, e lo ha fatto. Ce lo dimostra attraverso opere come quella di Previati, Gli orrori della guerra: L’esodo(1917) che racconta attraverso le tecniche divisioniste uno dei tanti aspetti tremendi dei conflitti mondiali, ovvero la fuga dal luogo che, fino a poco tempo prima, si era percepito come casa, come nido sicuro. La guerra ha spazzato via, insieme a molte altre cose, anche questa certezza, anche la sensazione di possedere un luogo dove potersi fermare senza rischiare nulla; rischiano molto invece, le folle straziate rappresentate con le pennellate filamentose che descrivono l’urgenza, la fretta di allontanarsi, quasi volendo uscire dallo spazio della tela.

Previati, Gli orrori della guerra: l’esodo, 1917, scattata da Daria Passaponti

Altro ospite fondamentale è Giacomo Balla, con La pazza (1905), in prestito dalla GNAM di Roma: la follia è presa in esame in quanto le malattie mentali siano state spesso descritte dai medici ottocenteschi con termini presi in prestito dal campo della demonologia: così le convulsioni diventano ossessioni diaboliche, i disturbi isterici attacchi demoniaci etc.

Una sezione è appositamente dedicata alla guerra.

 L’inferno in terra: la guerra

La guerra è stata la dimostrazione assoluta di quanto l’essere umano sia in grado di non essere umano.

Questo concetto è letteralmente lanciato in faccia al visitatore, che non può sottrarsi alla vista dei volti deformati dalle armi, alla vista delle immagini tremende che rappresentano, con un senso della verità spaventoso, quello che è accaduto praticamente l’altro ieri. La forza di questa sezione si trova nel fatto che accende nel visitatore qualcosa, ci si rende conto della concretezza di questo inferno in terra.

In dialogo con lo scritto di Primo Levi troviamo l’opera di Boris Taslitzky, Piccolo campo a Buchenwald, (1945): il colore è qui piegato sotto il peso del dolore che vuole rappresentare, in un affollamento di persone che non sembrano più nemmeno tali, sotto un cielo che si tinge dello stesso dolore che ricopre. Le opere in questa sezione ci parlano di morte, di sterminio, di quanto l’uomo, “quando tenta di immaginare il Paradiso in terra, il risultato immediato è un molto rispettabile inferno”

Paul Claudel, Conversazioni nel Loir-et-Cher

Il colpo di scena, all’avviso di chi scrive, si trova nell’ultima sezione: una volta arrivati allo sterminio, all’inferno per eccellenza creato dall’uomo in terra, cos’altro si potrebbe mai trovare dopo? Il nulla, giusto?

Sbagliato.

Jean Clair permette al visitatore, in una sorta di ultimatum etico, di uscire a riveder le stelle, nonostante le atrocità commesse in passato. Jean Clair, come un demiurgo gentile, ci permette di godere dopotutto ancora di qualche stella, di qualche piccolo sputo, come le chiamò Majakovskij.

Le opere che troviamo in questa sezione sono rappresentazioni di costellazioni: una in particolare, è una “ripresa effettuata dal Telescopio HUBBLE Ultra Deep Field della NASA”, che dà al visitatore l’occasione di osservare migliaia di galassie situate a molti miliardi di anni luce di distanza.

Una volta usciti dall’ultima sala si percorrono le scale per arrivare all’uscita di questo Inferno, con la consapevolezza di non essere gli stessi di prima e anzi, di essere notevolmente arricchiti.

E con la necessità concreta di uscire a riveder le stelle.

Daria Passaponti

Jeff Koons a Palazzo Strozzi

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La Fondazione Palazzo Strozzi prosegue il suo percorso di mostre ed eventi di arte contemporanea di straordinario valore: dopo American Art, abbiamo adesso Jeff Koons, lo stesso che nel 2015 si fece promotore di quella new wave che investì una Firenze che, nolente o volente, non poteva fare altro che accoglierla. Questa ondata di contemporaneità, partita con l’installazione di Pluto e Proserpina di Koons alla Biennale dell’Antiquariato di Firenze del 2015 (seguita ovviamente da tutte le polemiche del caso) e proseguita con mostre che hanno portato a Firenze artisti dalla caratura di Andy Warhol, Cindy Sherman, Tomás Saraceno, JR, Weiwei, solo per citarne alcuni, si infrange nuovamente contro una Firenze che timidamente si riaffaccia alla normalità di una vita culturale in ripresa. 

Il titolo della mostra è Shine: l’obiettivo è sottolineare l’ambivalenza esistente fra una lucentezza e uno splendore che spesso è, ma ben più spesso appare

Realizzata in stretto dialogo con l’artista (aspetto che è ormai cifra stilistica delle più importanti mostre alla Fondazione) la mostra si sviluppa permettendo al visitatore di entrare gradualmente nel mondo di Koons, un mondo allestito e illuminato perfettamente secondo modalità che inducono il visitatore a cercare un contatto con l’opera, fisico, tattile, minimo, ma percepito come necessario. Uno degli elementi che emerge dalla ricerca di Koons è certamente il contrasto fra la natura in origine economica dei materiali e il loro effetto dirompente e lussuoso alla vista; l’eccentricità dei colori, la loro vivacità, vuole arrivare a definire e sottolineare la vivacità stessa del capitalismo nelle sue varie declinazioni, portando addirittura alcune sue opere a entrare nell’immaginario collettivo. La sua produzione, che si alterna fra una citazione raffinata alla storia dell’arte e una menzione al mondo consumistico e capitalistico, unisce così cultura alta e popolare. 

Le opere dell’artista pongono l’osservatore davanti a uno specchio in cui riflettersi e lo collocano al centro dell’ambiente che lo circonda: sounds familiar?

L’osservatore, oggi come nei primi esperimenti dell’arte volti allo stesso obiettivo, è parte integrante dell’opera, che così cambia e si evolve a seconda di chi ha davanti. Ripercorrendo quel solco già tracciato da diversi artisti prima di lui, come Duchamp e Warhol, che pone al centro la volontà di privare l’arte contemporanea di quella veste fatta di elitarietà e snobismo, Koons porta il visitatore della mostra a essere parte delle superfici quanto mai splendenti delle sue opere, essendo queste talmente lucide da riflettere anche il più piccolo dei dettagli di ciò che vi si trova davanti, arrivando così a dare estrema importanza anche all’ambiente in cui queste sono inserite. 

Foto riguardo opere di Tintoretto e Gazing Balls, scattata da Gloria Passaponti

L’ambiente in cui troviamo la serie delle Gazing balls è uno solo dei tanti partecipanti a questo dialogo in cui sono incluse anche le opere di Tintoretto e statue appartenenti al mondo antico: queste sono le coordinate disorientanti ma contemporaneamente puntuali in cui l’osservatore, compiendo la semplice azione di osservare un’opera, vi si inserisce. Koons è in dialogo con artisti del passato tramite

la sua celebre palla blu, protagonista indiscussa che attira l’occhio dell’osservatore. Quando è posta sulle tele, questa si appoggia su una mensola in alluminio verniciato attaccato alla parte anteriore del dipinto. 

L’arte, dice Koons, è un accadimento che si verifica nella relazione fra l’artista e l’osservatore: partendo da questo pensiero possiamo ben comprendere come alla base di certe sue opere ci sia quella volontà di inclusione dell’osservatore stesso.

“L’arte è un veicolo che connette tutte le discipline umane: la mia vita è stata trasformata dall’arte, che mi ha consentito di continuare a vivere in un contatto con i nostri predecessori. Quando ci si rende conto di questo, ci si apre di più anche agli altri, c’è la rimozione del giudizio e delle segregazioni. Mi piace tantissimo, amo Michelangelo, Verrocchio; Rubens si rifaceva a Leonardo, Verrocchio e Masaccio: è questo amore che ci consente di divenire. Shine riguarda l’accettazione di sé e degli altri per una vita più significativa.”  

 – Koons

Foto sempre della serie gazing balls con statua classica (dialogo con l’antichità), Gloria Passaponti

Il titolo “Shine” è stato oggetto di riflessione durante la conferenza stampa che è stata organizzata in occasione dell’apertura, il 30 settembre, al Cinema Odeon di Firenze. La conferenza ha visto realizzarsi un dialogo fra l’artista, che con la sua presenza ha rimarcato la sua gratitudine verso la città di Firenze, e altri importanti personaggi, fra cui ricordo in particolare la Professoressa di Lingua Sanscrita, Letteratura e Tradizioni Culturali Indiane dell’Università degli Studi di Firenze Fabrizia Baldissera, Arianna D’Ottone, Professoressa di Lingua e Letteratura Araba dell’Università della Sapienza di Roma, Donatien Grau, Head of Contemporary Programs del Musée d’Orsay e Professore all’Ecole Nationale Supérieure des Art Visuels di Bruxelles, Alberto Legnaioli, (Post-doc research fellow in Ebraico presso l’Università degli Studi di Firenze, e Monsignor Timothy Verdon, il Direttore del Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore. L’incontro ha visto la moderazione da parte dei curatori della mostra Arturo Galansino e Joachim Pissarro, Professore di Storia dell’Arte dell’Hunter College di New York. Il focus è stato quello di riflettere partendo da più punti di vista sul significato della parola shine, cui si legano concetti spesso fra loro anche in antitesi, ma sempre in stretto legame con la storia dell’arte, la spiritualità e la filosofia.

Il presidente della Fondazione Palazzo Strozzi, Giuseppe Morbidelli durante l’evento di apertura ha invitato i presenti a soffermarsi sul fatto che il verbo riflettere sia allo stesso tempo un verbo transitivo e intransitivo. Le opere di Koons a suo avviso hanno questa doppia portata, doppio significato: da un lato, per il loro materiale brillano e riflettono e trasmettono la luce, ma dall’altro il motivo di fondo delle opere artistiche è quello di invitare lo spettatore/visitatore a un dialogo con l’opera, a una riflessione. Il visitatore concorre all’opera d’arte che è così un’opera d’arte condivisa, non unilaterale e calata dall’alto. Lo spettatore completa la narrazione, e partecipa così al suo significato e al suo messaggio. 

L’artista ha riproposto le forme archetipiche di uomo e donna ma sotto la lente dei materiali
e delle ricerche della mdoernità.
Gloria Passaponti

“Firenze è sempre stata grande quando è stata anticamente moderna e modernamente antica”. Citando Giorgio Vasari, è stato ricordato durante la conferenza stampa che la vera modernità non è la rilettura del passato, non è un maquillage di ciò che siamo stati, la modernità è il mettere in discussione lo status quo: questa è la forza del rinascimento come oggi è quella dei nostri artisti. 

Koons ha potuto affermare che non c’è niente di più gioioso nella vita che seguire le cose che ci incuriosiscono; e allora lo ringraziamo Koons, per averci dato nuovamente la possibilità di essere curiosi, di appassionarci e di affascinarci.

Daria Passaponti

L’arte che nasconde il dolore

Tempo di lettura: 2 minuti.

Piangere: un’azione necessaria quanto spesso inappropriata, oggi. 

Ma non è sempre stato così. 

Scrive Matteo Nucci, nel suo Le lacrime degli eroi, che la storia dell’uomo ha conosciuto le lacrime di coloro che ai nostri occhi sono invincibili. Come è possibile questo? È possibile perché in un tempo lontanissimo le lacrime, il pianto, la manifestazione dell’emozione, non avrebbero inciso negativamente su nessuno. O meglio, su nessun eroe. Platone stesso sapeva benissimo che gli eroi piangevano, e non degli eroi qualunque, ma quelli omerici, gli Eroi. Odisseo, che pianse al cospetto di Alcinoo, o di Circe, Achille per l’amato Patroclo; il sacerdote Laocoonte, che più di ogni altro rappresenta nella storia dell’arte il dolore


Dettaglio del gruppo scultoreo Laocoonte, da una copia di Agesandro, Atenodoro di Rodi e Polidoro, eseguita fra I secolo a.C. e I d.C., oggi nel Cortile del Belvedere, Musei Vaticani

L’Antico e nel Nuovo Testamento, altri incrollabili pilastri che sorreggono la nostra cultura, vedono diversi esempi di pianti di dolore, di gioia, di liberazione: il pianto di Pietro dopo il rinnegamento, il pianto di Davide per i suoi figli, per il neonato gravemente malato; nella Genesi piange Giuseppe, alla vista del fratello Beniamino in Egitto quando da schiavo diventa governatore e riaccoglie i fratelli che lo avevano venduto.

Perché oggi gli eroi non piangono? Perché nella storia dell’arte piano piano si sono creati escamotage atti a nascondere il pianto, il dolore? Platone sapeva bene, quando scrisse la sua Repubblica che le lacrime degli eroi appartenevano ormai a un’epoca passata, lontana perfino per egli stesso. 

Si iniziò a prendere distanza dal pianto, dal dolore, e questa distanza si declinò in diverse forme: nell’arte, la distanza dal dolore ha il nome di aposiopesi. Essa non consiste in una presa di posizione avversa all’atto del piangere (come si era posto Platone, amando e allo stesso tempo uccidendo gli Eroi che per ultimi, a suo avviso, si erano potuti permettere di piangere per saziarsi del pianto), ma ha una funzione diversa, di “aiuto” verso il fruitore dell’opera. Perché spesso si dice che il ‘900 ha portato l’attenzione verso il pubblico dell’arte, ma questa è una visione estremamente superficiale che non prende in considerazione le grandi (grandissime, alla luce della lontananza cronologica) attenzioni poste in essere dai cosiddetti “antichi”.

Aposiopesi

Si definisce così la figura retorica che prevede che il discorso venga sospeso, lasciando all’immaginazione del lettore la percezione del senso: fra gli autori antichi, Cicerone, Valerio e Quintiliano si soffermarono spesso sul parallelismo tra questa figura retorica e lo stratagemma utilizzato nell’arte per mantenere il decorum anche nei momenti più struggenti.

Si narra che il celebre artista Timante, detto di Cipro, avesse realizzato un’opera raffigurante il Sacrificio di Ifigenia e rendendosi conto che la mano umana non era in grado di rappresentare un dolore disumano come quello provato dal padre Agamennone, avrebbe messo “al sicuro” quel dolore, nascondendolo dietro ad un velo, e lasciando così all’osservatore l’arduo compito di immaginare la profondità di quello sguardo, di quella passione.

Solo 𝐌𝐚𝐬𝐚𝐜𝐜𝐢𝐨, molto tempo dopo, si permise di mostrare il dolore senza coprirlo con apparati esterni: allora il volto di quella Eva diventava così pesante, materico, devastato e devastante.


Masaccio, Cacciata dei progenitori dall’Eden, dettaglio della Cappella Brancacci, Firenze, 1424/1427

𝐋𝐨𝐭𝐭𝐨 invece si pone nel solco inizialmente tracciato quando il limite tra leggenda e storia era una sottile linea beige, ovvero fra V e IV secolo a.C. 

Lotto realizza la tavola con il Compianto come cimasa per il Polittico di San Domenico; grazie al contratto sappiamo che la commissione risale al 20 giugno 1506.

 L’effetto di grande drammaticità è acuito da una luce fredda e da una composizione serrata che lascia però spazio alla ricchezza di gesti e tensioni, resi ancora più espressivi da una leggera sproporzione delle mani. 


L’atmosfera è così dolorosa ma non completamente cupa, proprio grazie a questa luce che è sì fredda, ma al tempo stesso si espande morbida lungo tutta la composizione, probabilmente come conseguenza della frequentazione giorgionesca.

Dettaglio della Vergine nel Compianto di Lotto, 1506/1508

Giuseppe d’Arimatea, rappresentato come un vecchio calvo dai lunghi baffi spioventi, sostiene il Cristo sotto l’ascella sinistra e dietro la nuca, quasi accarezzandolo, affinché il capo senza vita non caschi all’indietro.


Dettaglio di Giuseppe d’Arimatea che sorregge il capo del Cristo, Compianto di Lotto. L’opera è firmata e datata “Laurent[ius] Lotus MDVIII”

Smembrato a un’altezza cronologica che non conosciamo, è documentato nel 1861 grazie all’opera di censimento sistematico degli oggetti d’arte di proprietà ecclesiastica (voluta dal Ministro dell’Istruzione Francesco de Sanctis) effettuata sul territorio umbro-marchigiano dal neo deputato Giovanni Morelli e dallo storico e critico d’arte Giovan Battista Cavalcaselle.

Daria Passaponti

American Art a Palazzo Strozzi

Tempo di lettura: 2 minuti.

American Art 1961-2001: la prima grande mostra dopo l’estenuante chiusura dei musei. Palazzo Strozzi conferma per l’ennesima volta il suo ruolo di punta nella diffusione dell’arte contemporanea nella capitale del Rinascimento.

L’Università di Firenze ha dato la possibilità agli studenti frequentanti il seminario sulle culture visive della contemporaneità, tenuto dai professori di Storia dell’Arte Contemporanea Giorgio Bacci e Tiziana Serena, di addentrarsi e scorgere più da vicino gli elementi caratterizzanti di questa mostra: ripercorrendo la storia degli Stati Uniti dagli anni ‘60, anni dell’inizio della Guerra del Vietnam, fino al tragico 2001. 

L’arte di questi lunghissimi quanto volatili 40 anni è celebrata grazie a oltre 80 opere di 55 artisti: fra gli altri, il monumentale Andy Warhol, la denuncia di Barbara Kruger e la provocatrice Cindy Sherman. Ma andiamo per ordine. 

Alcune di queste opere saranno esposte per la prima volta a Firenze, grazie alla preziosa collaborazione con il Walker Art Center di Minneapolis, il cui fautore è proprio il curatore e direttore associato dello stesso centro, Vincenzo de Bellis

Grazie al suo lavoro e a quello dell’altrettanto fondamentale Arturo Galansino, di cui abbiamo già avuto modo di parlare nell’articolo riguardante la Ferita di JR sempre a Palazzo Strozzi, si avvia dunque il 28 maggio, per chiudersi poi il 29 agosto 2021, una mostra che rilegge questi anni così dinamici e ricchi di eventi, ricordando che l’arte, di fronte ai più disparati fenomeni, bellici, sociali e antropologici, non ha mai taciuto. La mostra ce lo racconta affrontando le varie tematiche che costellano questo periodo, come la nascita della società dei consumi, il femminismo, le lotte per i diritti civili, le questioni di genere, tutto intriso dell’incertezza mascherata dal sogno americano che è stato propinato ai più in quegli anni. 

Cosa si cela dietro al sogno americano?

Certamente si celano le riflessioni sulla figura della donna di cui Cindy Sherman investe il ruolo di portavoce, si celano le influenze più o meno radicate e palesi provenienti dal mondo della pubblicità di Richard Prince e Barbara Kruger; si cela il terribile stigma dell’AIDS raccontato da Felix Gonzalez-Torres, le narrazioni posthuman di Matthew Barney che, con l’inquietudine che solo lui è in grado di far calare sulle cose, presenta, quasi sbatte in faccia al visitatore. Dopotutto, l’obiettivo di tutti loro e di tutti coloro che hanno operato nel loro importante e profondo solco artistico-culturale, hanno questo obiettivo: sbattere in faccia alla gente quello che succede. 

E no, non esiste, nell’America degli anni che vanno dal 1960 al 2001 (e nemmeno dopo, forse) un modo “carino” e “delicato” di farlo. 

La verità è questa, la verità è l’espressionismo di Mark Rothko e la sua tragicità dei colori che rifiutano un segno a cui sottostare, la verità è quella di Louise Nevelson e delle sue cassette/reliquiari assemblate con il legno, quello stesso legno a cui diceva di parlare. La verità è quella di Carolee Schneemann, l’artista che voleva essere chiamata pittrice ma che rimase famosa soprattutto per le sue performances, l’artista che con le sue opere, mai prive di uno sfondo di denuncia, ha raggiunto enormi traguardi in termini di consapevolezza e dialogo con un pubblico sui temi della sessualità e dell’erotismo, del femminismo e delle questioni di genere. 

Eugenio Giani, Presidente della Regione Toscana ha dichiarato: “Quello di oggi è un evento simbolico: la ripartenza della cultura in presenza a Firenze con questa mostra che ci fa percorrere un itinerario di grande rilevanza non solo sul piano artistico ma anche sociale. Quest’anno è” (il ventesimo) “anniversario del dramma delle torri gemelle. Con le torri gemelle è nato il terrorismo internazionale che ha fortemente condizionato il mondo. In 15 anni di attività la Fondazione Palazzo Strozzi fondata nel 2006 è riuscita ad esprimere la vitalità e la centralità dell’arte e questo è molto importante perchè alterna la storia del ‘Rinascimento senza fine’ alla contemporaneità con artisti come JR. La mostra che presentiamo oggi aiuterà sicuramente a rilanciare il turismo di Firenze e di tutta la Regione”

La mostra prosegue anche online attraverso la piattaforma American Art On Demand: grazie a un progetto in collaborazione con il Cinema La Compagnia-Fondazione Sistema Toscana e MYmovies, i possessori del biglietto di ingresso alla mostra potranno entrare nella sala virtuale “Più Compagnia”, che consta di una selezione di opere video fruibili in streaming che testimoniano il lavoro di artisti come Vito Acconci, Nam June Paik, Dara Birnbaum e Dan Graham. Questi artisti hanno utilizzato le immagini in movimento nell’ambito della performance, dell’arte concettuale e dell’estetica che caratterizza il periodo postmoderno.

La mostra, secondo Arturo Galansino, vuole dare un segnale di ripartenza per la vita sociale e culturale di Firenze e della Toscana (…) celebrando l’arte americana affrontando anche importanti temi come le lotte per i diritti civili e il ruolo della donna nell’arte. Per questa mostra si devono ringraziare come sostenitori: il Comune di Firenze, la Regione Toscana, la Camera di Commercio di Firenze, la Fondazione CR di Firenze, il Comitato dei Partner di Palazzo Strozzi, l’intesa Sanpaolo, l’Enel, e infine come premium sponsor Gucci.

Orari mostra:

Lunedì-venerdì: 14:00-21:00

Sabato, domenica, festivi: 10:00-21:00 

Fine mostra: 29 agosto 2021

Daria Passaponti

Il manifesto della mostra American Art 1961-2001

Fonte: Palazzo Strozzi

Una delle sale della mostra

Fonte: Firenzetoday

Sala della mostra

Fonte: Firenzetoday

HENRY MOORE TORNA A FIRENZE

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A quasi 50 anni dall’indimenticabile mostra tenutasi al Forte di Belvedere nel 1972, Henry Moore torna a Firenze. Maestro della scultura inglese, questa nuova mostra vuole mettere in luce le sue produzioni grafiche, legate indissolubilmente alle sperimentazioni formali e linguistiche delle avanguardie storiche (con particolare attenzione a Brancusi e a Picasso) e con la tradizione dell’arte e dei maestri italiani dei secoli precedenti. Moore aveva incontrato Firenze già da giovanissimo: negli anni ‘20 del ‘900, infatti, non si era certo sottratto al “rito di passaggio” del Grand Tour in Italia, grazie al quale ogni artista anglosassone veniva iniziato all’arte classica e rinascimentale. È probabilmente in questi anni che si innamora di Giotto, di Donatello, di Masaccio. Del resto, come biasimarlo.

Foto 1: “The Artist’s Hand” photo by Nigel Moore

Ruolo importante nella sua evoluzione è ricoperto anche dalla realtà manifatturiera della Versilia, con cui entra in contatto e da cui rimane affascinato; il litorale fra Forte dei Marmi e Carrara, le Alpi Apuane e le zone limitrofe rimangono nel suo cuore come un substrato artistico di cui non si libererà mai.

La mostra Henry Moore. Il disegno dello scultoreè curata da Sebastiano Barassi, Head of Henry Moore Collections and Exhibitions e Sergio Risaliti, Direttore artistico del Museo Novecento. In occasione del ritorno di Moore a Firenze, il Museo Novecento vuole porre attenzione principalmente sul valore dell’infinita ricerca del maestro inglese attraverso i suoi disegni, ricerca che, auspicabilmente, sarebbe arrivata alla genesi della sua arte. Organizzata in team con la Henry Moore Foundation, con il contributo di Banca Monte dei Paschi di Siena, la mostra sarà visitabile fino al 18 luglio 2021 e ospiterà circa 70 opere fra disegni, grafiche e sculture esposte nei tre livelli del Museo.

Sebastiano Barassi, curatore, ha dichiarato che “Henry Moore. Il disegno dello scultore”, vuole essere un dono alla città che ha sofferto una crisi pandemica drammatica e che sta uscendo a fatica ma con coraggio e orgoglio da questa situazione così difficile. La presenza in questo momento storico delle opere di Henry Moore a Firenze è anche un richiamo alla forza dell’arte nelle massime difficoltà umane e sociali.

Il percorso espositivo si sviluppa seguendo diversi orizzonti tematici, partendo dal repertorio illimitato di forme e di ritmi che ha la natura, come affermato da Moore stesso, per arrivare alla narrazione tipica dell’artista che ruota intorno a motivi iconografici come rocce, ossa, alberi, animali.

Foto 2: Henry Moore a Firenze nel 1972, foto di Enrico Ferorelli, fonte Art Tribune

Punto cruciale del progetto è evidenziare il legame tra lo scultore e la Toscana: questo obiettivo è raggiunto attraverso l’esposizione di sculture e fotografie che rimandano (fra le altre) al periodo di fine anni Cinquanta in cui Moore visitò per la prima volta Querceta, vicino Forte dei Marmi. Motivo del suo viaggio fu la produzione di una grande scultura commissionata dall’UNESCO nel 1957, destinata alla sede centrale di Parigi. Sono anni in cui l’artista occupa la maggior parte del suo tempo a opere in bronzo, ma per quest’opera opterà per il travertino, essendo la stessa pietra utilizzata nella decorazione della sede UNESCO. La monumentale Reclining Figure sarà frutto del lavoro di Moore e degli artigiani delle cave carraresi della società Henraux

Nelle sale sono esposti bronzetti (molti sono modelli preparatori di sculture monumentali) che fanno riferimento ad alcuni soggetti molto cari all’artista, soggetti che hanno caratterizzato la sua ricerca di una genesi dell’arte: lo studio della figura umana, delle vertebre; la rappresentazione di donne sdraiate, di mani. Il punto di arrivo (o di inizio?) è certamente un equilibrio unico delle forme fra pieni e vuoti, aspetto caratterizzante della grande opera di Henry Moore.

Foto 4: Le opere di Moore a Firenze: Giulio Carlo Argan scriveva che “Le forme archetipe della mitologia di Moore sono l’osso che il tempo ha pulito, il sasso che la corrente ha trapanato e levigato.”
Fonte: Il Giornale

Saranno presenti delle immagini d’epoca che ritraggono l’artista nelle estati passate tra la Versilia e le cave di marmo di Carrara con amici e intellettuali: attraverso queste preziose fonti si traccia una storia fatta di legami e affetti continuativi.

La mostra sarà anche l’occasione per la realizzazione di un mediometraggio volto a raccontare, mediante una raccolta di testimonianze provenienti dal pubblico, il ricordo della mostra tenutasi nel 1972 al Forte di Belvedere. Allora, il 20 maggio, si teneva la prima grande personale interamente dedicata a Henry Moore: oltre 345 mila persone sfidarono il sole a picco per guadagnarsi un posto sugli spalti del Forte. Fra il pubblico c’erano Giovanni Leone, sesto Presidente della Repubblica Italiana e Edward Heath, allora Primo Ministro inglese. 

In cosa consiste la chiamata pubblica al ricordo del ‘72? 

Sostanzialmente, chiunque abbia partecipato all’evento è invitato a spedire via e-mail all’indirizzo del Museo Novecento i ricordi che si possiedono legati a quel momento: fotografie, cartoline, autografi dell’artista. Questa raccolta verrà pubblicata nei canali social del museo e confluirà in un libro che verrà pubblicato nel 2022, vero anniversario della mostra al Forte di Belvedere.

Daria Passaponti

LA SCOPERTA DEGLI AFFRESCHI NASCOSTI AGLI UFFIZI

Tempo di lettura: 2 minuti.

Ci sono alcune città come Firenze, Roma, Venezia, Milano… in cui ogni volta che si sposta un mattone o si iniziano dei lavori, esiste la probabilità che si stia per trovare qualcosa di inaspettato. Qualcosa che potrebbe cambiare le carte in tavola, o qualcosa che spesso porta le Soprintendenze a cambiare le regole del gioco. Diciamo la verità: forse è un aspetto che caratterizza proprio tutto il Bel paese.

Andiamo per ordine: agli Uffizi è periodo di lavori, di restauri e di riarrangiamenti vari in vista della tanto attesa riapertura. 

La panoplia ritrovata al centro del soffitto
Fonte: 055 Firenze

Questi lavori hanno interessato principalmente l’ala di Ponente del museo, per un totale di circa 2000 metri quadrati finora inaccessibili: sono 8 le sale di Ponente restaurate, 14 le sale al piano terra nell’area di Levante, oltre ad altre 21 nella zona dell’interrato. I “nuovi” spazi disponibili presentano una doppia valenza: da un lato sono da inserire nell’ambito dei lavori per la realizzazione dei Nuovi Uffizi portati avanti dalla Soprintendenza insieme alle Gallerie, condotta dall’architetta Chiara Laura Tettamanti (direttrice dei lavori) e dell’architetto Francesco Fortino; dall’altro lato questi lavori comportano anche un importante riordinamento dell’accesso al complesso, infatti dalla riapertura in poi l’entrata sarà spostata dal lato più vicino all’Arno. 

Sono stati anni, come dichiarato da Eike Schmidt, di “progresso nel recupero degli spazi, progresso che permette ora un accesso al museo più razionale e sicuro, e punti di accoglienza organizzati in modo più efficiente. A breve, quando saranno risistemate le sale a pianterreno dell’ala di Levante, la visita agli Uffizi potrà avere una gloriosa introduzione: nelle sale a pianterreno verrà infatti esposta la statuaria classica, con opere dai depositi e altre recentemente acquistate.” 

Il giovane Cosimo II de’ Medici con le allegorie di Firenze e Siena,
da attribuire al contesto del pittore Bernardino Poccetti
Fonte: ANSA

Ma veniamo alle scoperte: proprio nell’area di Ponente sono riaffiorati due affreschi del Seicento. Uno di questi vede all’interno di un clipeo protagonista il granduca Ferdinando I; l’altro – che si presenta in condizioni di conservazione nettamente migliori – mostra un giovane Cosimo II de’ Medici, ritratto a figura intera e a grandezza naturale con intorno le allegorie di Firenze e Siena, da attribuire all’ambito del pittore Bernardino Poccetti (1548-1612), conosciuto e apprezzato nella Firenze dell’epoca per le sue opere figurative.

Negli spazi del piano terra sono inoltre venute alla luce numerose decorazioni presumibilmente settecentesche e ascrivibili al periodo del regno di Pietro Leopoldo di Lorena. Queste decorazioni sono caratterizzate da motivi vegetali e si sviluppano fra pareti e soffitto; al centro del soffitto trionfa una panoplia con dei fasci littori. 

Questi affreschi saranno visibili al pubblico in quanto facenti parte della zona di ingresso del riordinato museo, le cui opere di restauro e riassestamento, come spesso accade, non iniziano e terminano in loro stesse, ma piuttosto agiscono come una sorta di richiamo dal passato glorioso (e per molti aspetti ancora sconosciuto) del complesso vasariano, che mantiene la capacità di sorprenderci ogni giorno di più.

Daria Passaponti

MINISTERO DELLA CULTURA E MINISTERO DEL TURISMO: NASCITE O RINASCITE?

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26 febbraio, Palazzo Chigi: il Consiglio dei Ministri si riunisce sotto la presidenza di Mario Draghi per far fronte alla necessità, percepita come urgente, di riordinare le competenze attribuite ad alcuni ministeri. Come riportato in Gazzetta Ufficiale, ci sono alcune questioni impellenti: istituire un ministero per la transizione ecologica, uno per il turismo (alla luce della volontà di rilancio di questo settore molto colpito dall’emergenza Covid-19) e “rafforzare le funzioni della Presidenza del Consiglio dei ministri in materia di coordinamento e  promozione delle politiche del Governo relative all’innovazione tecnologica, alla trasformazione e alla transizione digitale”.

Perché è necessario non lasciare che questo cambiamento si depositi in un’ala recondita della nostra testa? Perché patrimonio culturale e turismo possono essere visti come due elementi distinti così come inscindibilmente connessi; perché è fondamentale conoscere, almeno sommariamente, la storia del ministero che ha l’onore e l’onere di gestire uno degli aspetti più caratterizzanti dell’Italia e ovviamente di Firenze: il patrimonio culturale.

Dario Franceschini: Il Ministro della cultura Dario Franceschini, nato a Ferrara il 19 ottobre 1958, è avvocato, scrittore e politico.
Fonte: https://www.beniculturali.it/ministro

La genealogia dei ministeri è spesso frutto della scissione o dell’integrazione fra competenze, doveri, responsabilità e funzioni: i dicasteri attorno cui hanno gravitato turismo, gestione, tutela e valorizzazione del patrimonio culturale etc rientrano in questo insieme.

Partiamo da vicino: il MiBACT (l’ex Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo) si è scisso in due dicasteri diversi, dando vita al Ministero del Turismo e al Ministero della Cultura guidati rispettivamente da Massimo Garavaglia e da Dario Franceschini. Dal 31 marzo le attività concernenti il turismo sono state poste sotto l’egida del nuovo ministero.

Garavaglia: il Ministro del Turismo Massimo Garavaglia, nato l’8 aprile 1968 a Cuggiono, è un politico in carica come Ministro del Turismo dal 13 febbraio 2021.
fonte:http://www.senato.it/

In realtà non si tratta di una nascita nel senso stretto del termine: questo dicastero era stato istituito già nel 1959 dal governo Segni II e poi aveva visto la soppressione nel 1993 con un referendum abrogativo. Le sue funzioni erano state poi trasferite a due dipartimenti interni della Presidenza del Consiglio, per poi essere inglobate dal MiBACT nel 2013. Oggi, dal 1 aprile 2021, abbiamo un Ministero del Turismo che  “cura la programmazione, il coordinamento e la promozione delle politiche turistiche nazionali, i rapporti con le regioni e i progetti di sviluppo del settore turistico, le relazioni con l’Unione europea e internazionali in materia di turismo, fatte salve le competenze del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, e cura altresì i rapporti con le associazioni di categoria e le imprese turistiche e con le associazioni dei consumatori.” (https://www.gazzettaufficiale.it/eli/gu/2021/03/01/51/sg/pdf)

Lo stesso Ministero della Cultura (MiC) fu creato dalla disgregazione del Ministero della Pubblica Istruzione. Nel 1974 durante il governo Moro IV, Giovanni Spadolini, nato a Firenze nel ‘25, Segretario del Partito Repubblicano Italiano,  istituì il Ministero per i Beni Culturali e l’Ambiente, che poco dopo sarebbe diventato Ministero per i Beni Culturali e Ambientali. Nel 1998 fu istituito il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, che abbracciava anche la promozione dello sport e dello spettacolo. Nel 2009 si ebbe un nuovo regolamento di riorganizzazione del Ministero e degli Uffici che erano in diretta collaborazione con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali: l’obiettivo era quello di esaltare l’azione di tutela, valorizzazione e fruizione del patrimonio culturale nazionale e al contempo restituire centralità alla salvaguardia del paesaggio nel contesto più generale delle belle arti.

ll logo del Ministero è ispirato al volto di Apollo,
nel celebre gruppo scultoreo di Apollo e Dafne del Bernini
conservato presso la Galleria Borghese.
Fonte: https://commons.wikimedia.org

Il binomio Beni Culturali – Turismo si crea nel 2013 sotto il governo Letta: con la conversione in legge il 24 giugno 2013 (con modificazioni) del decreto legge 26 aprile 2013  “Al Ministero per i beni e le attività culturali sono trasferite le funzioni esercitate dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in materia di turismo”. Ecco quindi la nascita del “Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo”, guidato da Massimo Bray. La successiva svolta fondamentale arriva nel 2018, primo Governo Conte, che vede Bonisoli a capo del “Ministero per i Beni e le attività culturali”, anno in cui si verificò un “riordino delle attribuzioni dei Ministeri dei beni e delle attività’ culturali e del turismo, delle politiche agricole alimentari e forestali e dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, nonche’ in materia di famiglia e disabilità”.

Riuniti l’anno successivo, Beni Culturali e Turismo saranno posti sotto la guida del Ministro Dario Franceschini, per poi vedersi nuovamente separati lo scorso 26 febbraio nei due sopracitati MiC e Ministero del Turismo.

Daria Passaponti

LA FERITA APERTA NELLA CULTURA ESPOSTA A PALAZZO STROZZI

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A circa un anno di distanza dalle prime misure adottate dal nostro paese per contenere l’emergenza sanitaria da Covid-19, si è diffusa la tendenza a fare una sorta di bilancio generale alla luce dell’anno passato. Il risultato di questo bilancio, per quanto riguarda l’aspetto legato alla cultura, ci è presentato da JR, artista contemporaneo francese, attraverso “La Ferita”, (The Wound), opera site-specific che sarà visibile fino al 22 agosto 2022.
JR ama definirsi un photograffeur, avendo fuso nella sua carriera la fotografia e la street art in declinazioni sempre più collettive e legate alla dimensione urbana: è uno di quegli artisti che ciclicamente ricorda al pubblico i caratteri dell’arte site-specific, “inscindibilmente connessa al contesto architettonico, politico, sociale, istituzionale e culturale per cui è concepita”, definizione che dobbiamo alla critica coreana Miwon Kwon.

La Ferita vista dall’angolo di Via degli Strozzi

Il 19 marzo 2021 Firenze si sveglia con questa enorme (28m. per 33) Ferita: circa 80 stampe fotografiche su pannelli di alluminio compongono un fotomontaggio anamorfico, a metà strada sulla strada infinita dell’arte e della cultura.
Questo trompe-l’œil che squarcia il palazzo porta con sé diversi riferimenti: nella parte alta si trova una scala fittizia che riproduce l’ingresso verso la Biblioteca dell’Istituto Nazionale di studi sul Rinascimento, realmente ospitata negli spazi del palazzo. A seguire, verso il basso, la riproduzione di celebri opere (non conservate realmente nel palazzo) ci ricorda quanta bellezza si celi dietro quelle mura chiuse dal Covid e, almeno metaforicamente, abbattute da JR.


Un altro lemma che JR utilizza nel suo discorso più che mai poliedrico è quello della corrente settecentesca del rovinismo, che esaltava testimonianze di edifici appartenenti a un tempo ormai trascorso, con una sorta di sospiro nostalgico cui affidarsi in momenti di inquietudine generale, momenti come questo.
JR sceglie il bianco e nero come abito vintage da far indossare a una situazione più che mai attuale, creando un contrasto concettuale molto forte fra impressione del passato e consapevolezza del presente. La scelta b&w, ormai caratterizzante delle sue opere, proietta il fruitore in una dimensione che a primo acchito non gli pare la sua, è per forza qualcosa di passato, è in bianco e nero! E invece no, JR denuncia e punta un enorme occhio di bue sulla situazione culturale contemporanea, che quasi sanguina, in b&w.

La cultura è stato uno dei settori che più ha subito il colpo ma, a differenza di altri, è anche uno di quelli che ha fatto meno rumore nella caduta: le persone che frequentano i musei, i teatri, i cinema e i vari luoghi culturali erano (o sono?) viste spesso come persone che usufruiscono di un qualcosa in più, qualcosa da fare nel tempo libero, quindi queste azioni venivano assoggettate a una dimensione ritenuta quasi futile, un je ne sais quoi di superfluo. Lo è?


JR dimostra che non è così portando moltissime persone (fra cui anche i fortunati studenti riusciti a rimanere a Firenze) a fermarsi davanti alla sua opera: perché le persone si fermano? Forse qualcuno si fermerà per curiosità, ma la curiosità si sa, dura poco ed è presto superata; allora perché con lo sguardo, anche dopo aver vissuto il momento di mera curiosità, si rimane a fissare quella facciata? Perché, nel profondo, qualcuno di noi vorrebbe poter fare un passo dentro quest’opera, perché quello che JR mette a nudo, questa Ferita, è presente in ognuno di noi. Una volta consapevoli (grazie all’azione dell’artista) del senso di nostalgia che proviamo verso i luoghi della cultura, il rischio è quello di fare pace con questo sentimento di nostalgia, di abituarsi: JR sembra condurre con quest’opera una battaglia per far sì che nessuno di noi si abitui all’idea di un museo chiuso.


Dopo tutti questi mesi passati davanti alle porte serrate degli Uffizi, piuttosto che del Bargello o di tutti gli altri fiori all’occhiello di Firenze, questa ferita aperta nella facciata di Palazzo Strozzi diventa, come ha dichiarato il Direttore della Fondazione Arturo Galansino, “un invito a ritrovare un rapporto diretto con l’arte e una sollecitazione per nuove forme di condivisione e partecipazione”.


Sono mesi e mesi che i musei cercano di arrivare più vicini al pubblico, attraverso digitalizzazioni, mostre online e iniziative limitrofe. Per portare il museo dal pubblico non è bastato il digitale (per quanto abbia fatto certo il possibile) ma è stato necessario un artista: per un secondo, davanti a Palazzo Strozzi, si è ricreato il sodalizio fra artista, museo e pubblico. In un momento storico dove nulla sembra trovare un suo equilibrio infatti, JR ha dato uno scossone alto 28 metri e largo 33 alla situazione, riportando all’attenzione del pubblico, della stampa e del mondo accademico che la cultura è una priorità; forse, si tratta solo di cimentarsi alla ricerca di soluzioni nuove e sicure.

Come afferma nel suo libro del 2015 Can art save the world?:

Images are not special. It is what you do with them”.

Daria Passaponti

LO SPEDALE DEGLI INNOCENTI TRA PASSATO E PRESENTE

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Spedale”, dal dialetto fiorentino, dedicato all’accoglienza dei bambini abbandonati; “Innocenti”, in riferimento all’episodio biblico della strage degli innocenti. Quante volte ci siamo passati accanto, quante volte abbiamo attraversato la piazza di Santissima Annunziata, ora al centro di ferventi polemiche legate alla movida fiorentina in tempo di pandemia? La piazza di Santissima Annunziata ha avuto (e speriamo possa tornare presto così) un ruolo centrale per gli studenti di discipline umanistiche: chi non ha mangiato una schiacciata durante una pausa dalle lezioni tenute nella sede della Facoltà di Lettere di Piazza Brunelleschi? Chi non ha sorseggiato uno spritz festeggiando un esame passato magari nella attigua sede universitaria di Via Laura, o quella in via Gino Capponi? La piazza e le scalinate del loggiato sono state teatro di tante esperienze studentesche, da manifestazioni legate a svariati obiettivi a “semplici” studi e analisi di ciò che caratterizza lo spazio circostante: ed è proprio di quest’ultimo che andiamo a trattare.

Una veduta presa dall’angolo uscendo da Via Gino Capponi, zona universitaria molto frequentata.

Certo lo Spedale ne ha viste di cose: la sua fondazione risale al 1417, dopo un generoso lascito del celebre mercante pratese Francesco Datini, cui specialmente gli archivisti devono molto alla luce del vastissimo archivio di lettere e registri da lui realizzato, che ha permesso di avere uno spaccato della vita dei mercanti di metà XIV secolo. Nel 1419 lo Spedale è niente più che un seme, appoggiato delicatamente ai lati di quella che diventerà la piazza di Santissima Annunziata, che attende di germogliare.

Il demiurgo dello Spedale (e poi della stessa Firenze per molti aspetti) sarà il tanto caro ai fiorentini Filippo di Ser Brunellesco Lapi: dietro lo sguardo severo dell’Arte di Por Suora Maria, garante del lascito del Datini, Brunelleschi farà innalzare la prima colonna del portico degli Innocenti nel 1421 (un anno dopo la partenza dei lavori per la cupola di Santa Maria del Fiore) e sarà a capo dei lavori fino al 1427, anno dopo il quale l’impresa sarà recuperata da Francesco della Luna.

Il progetto iniziale del Brunelleschi è basato sul contrasto tra linee curve e linee rette: questa “lotta” fra rigidità e morbidezza è da inscrivere in una Firenze fortemente intrisa di filosofia e di studi sempre più rivolti a Platone. Le pagine del Timeo occupano uno spazio importante nella mente di coloro che si avviano a diventare artisti, personaggi intellettuali, politici come Coluccio Salutati, che esporranno concetti rimasti poi alla base del tessuto umanistico fiorentino, tessuto le cui trame si possono sfiorare ancora oggi e che sono tuttora particolare oggetto di studio degli universitari fiorentini.

Secondo quanto dice Platone nel Timeo, la proporzione che si instaura fra le misure del segmento e del cerchio è in grado di creare “una cosa sola di sé e delle cose degli altri”.

Questo è il punto di partenza del Brunelleschi, il punto di partenza dello Spedale degli Innocenti, la chiave di volta e di lettura su cui fonderà gran parte degli interventi operati a Firenze. I portici dello Spedale si sviluppano dunque partendo da forme rettilinee, le colonne, che invitano a percorrere una sorta di ascesa, anche solo con lo sguardo, verso le linee curve che ci avvicinano al mondo al di là, quello superiore, quello perfetto.

La dicotomia esistente fra “questo mondo” e “quel mondo” è richiamata anche dagli apparati decorativi dei capitelli, che da un lato presentano decorazioni fogliacee, rimandi alla natura terrena da cui provengono i bimbi abbandonati, mentre dall’altro lato abbiamo una conchiglia da cui nasce una vite, a simboleggiare la nuova vita cui accedono i bimbi, “abbandonati dalla madre e dal padre, e accolti dal signore” come recita il Salmo 23.1 inciso sulla rota degli Innocenti.

La rota era il pertugio in cui venivano messi i bambini, spesso durante la notte, lontano da occhi indiscreti; spesso ai trovatelli veniva poi dato un cognome il cui retaggio oggi è individuabile nei cognomi “Innocenti, Degl’Innocenti, Nocentini”, pratica che poi è stata interrotta al fine di non rendere evidente la provenienza incerta di alcuni soggetti.

Il loggiato degli Innocenti si apre sulla piazza in cui troneggia la statua equestre di Ferdinando I de’ Medici, opera del Giambologna.

Poco dopo la metà dell’800 allo Spedale furono necessarie opere di risanamento economico: per far fronte a questo problema il commissario Carlo Michelagnoli vendette le opere allora considerate di minor prestigio, conducendone così alcune nelle mani dei grandi collezionisti europei e che, dopo chissà quali inimmaginabili percorsi, giunsero nella collezione del Victoria and Albert Museum di Londra. Nel 1853 venne alla luce l’idea di costituire un museo, idea che si concretizzò negli anni ‘90 con l’apertura di tre locali nell’odierno “Cortile delle Donne”.

Da questo momento in poi  la storia del Museo si percorre attraverso grandi acquisizioni (come la “Madonna con Bambino e angelo” di Sandro Botticelli) e innovative ricollocazioni, come il trasferimento nella galleria al primo piano sopra il portico della facciata nel 1971, e infine l’inaugurazione del nuovo museo con tre diversi itinerari tematici nel giugno 2016.

Oggi trovano collocazione al suo interno vari centri per l’infanzia, case famiglia, centri per madri in difficoltà, uffici di ricerca UNICEF: la strada fatta da questa istituzione fiorentina è lunghissima ed ha condotto lo Spedale nel 1997 a diventare Centro Nazionale di documentazione e analisi sull’infanzia e l’adolescenza, riconosciuto come un punto importante di riferimento europeo e nazionale per la salvaguardia dei diritti dell’infanzia. Primo centro di accoglienza per neonati in Europa, lo Spedale e il suo loggiato meritano un passaggio in Santissima Annunziata un po’ più lento, al netto di tutti gli impegni della giornata: la regolarità, il contrasto gentile fra la pietra serena e il bianco di San Giovanni, la cupola che fa capolino da un lato e la vista verso i colli di campagna affacciandosi su Via Gino Capponi sono elementi cui almeno una volta, passando da lì, bisogna fare caso.

Daria Passaponti