L’uomo dei dolori

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L’ammirazione verso la pittura ‘celestiale’ di un artista quale Sandro Botticelli è difficile da obliterare o soffocare. Più recentemente, la sua reputazione è stata al centro di vivaci discussioni culturali, ed il suo nome è risuonato nell’attesa impellente degli esiti dell’asta di Sotheby’s. 

Ma facciamo un passo indietro con l’aiuto di uno dei massimi critici d’arte del nostro tempo: Jerry Saltz, classe 1951 il quale nasce a Chicago, dopo aver conseguito una formazione accademica, negli anni 90’ si trasferisce a New York per potersi dedicare all’arte da un punto di vista “teorico”. 

Dal 2006 inizia a scrivere in veste di critico d’arte per la famigerata rivista americana New York, e ha diffuso numerosissimi beni culturali con la sua arguta e perspicace scrittura fino a colpire il cuore di molti americani, e non solo. Ricordo inoltre che nel 2018 si è aggiudicato il premio Pulitzer per un corpus di opere che inquadravano l’arte visiva Americana come mai prima. 

Nel 2020 Jerry Saltz scrive un articolo pubblicato sulla testata New York ed intitolato This is the saddest picture i have ever seen (Questo è il dipinto più triste che abbia mai visto).

Si riferisce ad una tavoletta quattrocentesca, Il pianto di Mardocheo (Roma, Palazzo Pallavicini – Rospigliosi) attribuita variamente nel corso degli anni a Filippo Lippi, da altri a Sandro Botticelli, oppure ad una collaborazione fra i due fiorentini. 

PIANTO DI MARDOCHEO 

La tavoletta, era, assieme ad altre, tassello fondamentale di uno dei due cassoni con le Storie di Ester datate 1475.

Di seguito vi riporto delle righe che discutono dell’opera, il resoconto critico è stato trattato nel corso di storia della critica d’arte all’Università degli Studi di Firenze, e per mio conto direi essere lo scritto critico più bello che abbia mai letto:

“Il piccolo e quasi sconosciuto capolavoro quattrocentesco di Sandro Botticelli ci mostra un essere umano spogliato di ogni speranza. Il dipinto è un crogiolo metafisico pieno delle disgrazie del mondo esterno, di emozioni invisibili, di vergogna, del pianto delle cose ultime, di perdite cataclismiche, di silenzio, di viaggi finali, della cessazione della vita, di intensità demoniaca e della ritrazione del sé. Spesso chiamato, con aderenza perfetta, La Derelitta (ossia “The Desperate One” ) è il dipinto più triste che abbia mai visto, benché io non l’abbia mai visto dal vivo. Lo vidi per la prima volta quando avevo vent’anni. A forza di chiacchiere mi ero fatto assumere presso la School of the Art Institute of Chicago, dove proiettavo le diapositive nelle lezioni di storia dell’arte. Il pomeriggio in cui lo proiettai, rimasi stravolto.”

“Non c’è modo per entrare visivamente in questo quadro né per uscirne: non c’è spazio. È tutto muro, una sorta di brutalismo premoderno o di rigido minimalismo. Tutto è spoglio di ornamentazione, reso come in basso rilievo, irreale, onirico, sminuito ma concreto, realistico. Botticelli creò The Desperate One a Firenze mentre si avvicinava ad un momento di crisi nella propria vita.The Desperate One, dipinto in anticipazione profetica di tutto ciò…

(Ovvero, le vicende fiorentine di Girolamo Savonarola: l’affermarsi della sua influenza, il declino, il supplizio.)

“ …ci fa intravvedere la desolazione interiore che Botticelli provava. Questo è un mondo bruciato, impoverito. La figura addolorata è piegata su sé stessa. Il suo volto è nascosto: sono visibili soltanto i fluenti capelli maschili. È scalzo come quei danzatori dionisiaci e quelle ninfe che Botticelli aveva dipinto in precedenza e di cui ora si disperava. (…) Tranne che per alcune visioni mistiche, Botticelli trascorse i suoi ultimi anni in un improduttivo esilio emotivo. Visse per vedere il suo stile quattrocentesco soppiantato dai tre grandi del Rinascimento: Michelangelo, Leonardo e Raffaello. Botticelli fu quasi dimenticato fino al XIX secolo, quando i preraffaelliti se ne riappropriano (…)”

“Mi soffermo su l’unico particolare del quadro, una piccola porta di legno a due ante sormontata da una struttura in ferro che chiude un atrio stretto e poco profondo. Questa porta è importante, lo so. Appena sopra di essa si scorge l’unica tregua visiva del quadro: una macchia di cielo blu. Mi struggo dalla voglia di sapere cosa c’è di là di quella porta, e mi balza in testa una strana domanda: La porta si aprirà mai?”

“Ora la vedo: alla porta manca qualcosa e questa assenza finalmente svela il segreto del quadro. L’ho sempre saputo ma non l’avevo mai notato prima: su quella porta non c’è né pomo, né maniglia, né chiavistello, né leva.”

“Anche se alcuni studiosi ritengono che il dipinto raffiguri Mardocheo del Libro di Ester, io vedo la figura come quella di Botticelli. Potrebbe stare all’Inferno, ma siccome non ci sono porte non ne ho la certezza. Suppongo piuttosto che stia fuori alle porte chiuse del Paradiso. La porta che gli sta davanti può essere aperta soltanto dall’interno, da San Pietro, che ci pesa i peccati, le azioni, la vita. Le credenze e le azioni di Botticelli lo hanno condannato, e lui lo sa. Non è l’Inferno questo. È un purgatorio terribile di dolore consapevole. Questo piccolo quadro emette un grido incessante.” 

“Non il detto di Sartre, con quel suo sorrisetto da esistenzialista, “L’inferno sono gli altri”; ma piuttosto qualcosa che sento ogni giorno sempre di più da chi sta uscendo dal proprio isolamento: L’inferno è la mancanza degli altri.”

Scritto che sottolinea anche la forza evocativa e in alcuni casi logorante delle opere di Botticelli, sentimenti molte volte celati dietro ad una bellezza trascendente, definita dagli storici dell’arte ‘ botticelliana ‘. 

Questo è il caso del L‘Uomo dei Dolori di Sandro Botticelli, è una delle opere su cui si sono rivolti i proiettori dei giornali e le aspettative degli studiosi nell’ultima asta di Sotheby’s di New York ,svoltasi lo scorso 27 gennaio. 

E’ una raffigurazione essenziale e drammatica che ritrae Cristo su sfondo nero circondato da angeli, questi ultimi sono privati dei colori celestiali tipici della gioia botticelliana, al contrario sono resi grigi come la pietra con cui è stato lapidato il loro Signore, e tengono i segni della Passione. Le mani del salvatore sono legate da corde, altrettanti simboli della Passione, e la Corona di spine che cinge la testa di Dio. Il volto è privo di dolore seppur questo sia trasmesso dal solo sguardo languido e profondo che tiene l’osservatore in balia di cordoglio taciuto.

 Botticelli lo dipinse quando aveva oltre cinquanta anni e fu una delle ultime opere da lui concepite, ecco che è stato definito da Sotheby’s “un capolavoro assoluto degli ultimi anni di Botticelli” 

La storia del quadro ha inizio nell’Ottocento quando era di proprietà di Adelaide Kemble Sartoris, famosa cantante lirica britannica. In seguito, ereditato dalla pronipote Lady Cuninghame che lo vendette all’asta nel 1963, acquistato da una collezione privata fu visibile al grande pubblico solo nel 2009, anno in cui fu esposto come una delle ‘rare gemme’ di una retrospettiva dedicata a Botticelli dallo Städel Museum di Francoforte.

L’attenzione sul dipinto si è accentuata ulteriormente dalla scoperta dell’immagine di una Madonna con Bambino celata sotto lo strato di colore brillante. Conclusione a cui si è giunti in seguito ad un’analisi a raggi infrarossi condotta su l’Uomo dei Dolori di Sandro Botticelli, conquista che la rende ancora più interessante e affascinante. Si tratta di una pratica consueta delle botteghe rinascimentali, perché il supporto è una tavola di pioppo, materiale raro e pregiato al tempo, dunque anche nel caso di un dipinto incompiuto, in questo caso la versione della Madonna col Bambino, non si sarebbe scelto di buttare via la tavola. La scelta migliore era conservare il supporto pregiato e ricominciare da capo, con un nuovo strato di colore.

Interessante che l’iconografia sia’ quella della “Madonna della Tenerezza”, elemento che attesta lo sguardo del pittore rivolto alle icone greco-bizantine, raffigurazione che convenzionalmente vuole la Vergine tenere la testa di Gesù bambino, guancia a guancia contro la sua.

L’UOMO DEI DOLORI 

Alcuni studiosi ritengono che il pittore abbia adottato uno stile intriso di simbolismo e spiritualità cristiana, essendo stato dipinto nel periodo in cui l’artista era sotto la sfera di influenza di Girolamo Savonarola, il celebre frate domenicano i cui scritti si diffusero enormemente nella città del Rinascimento. Se ne deduce che il dipinto ne diverrebbe riflesso delle teorie e del fervore religioso che alimentava gli animi dei fiorentini alla fine del 400 inizio 500. Era un clima di predizioni apocalittiche, scatenatesi dopo la cacciata dei Medici, e le speranze di salvezza personale avevano raggiunto livelli di particolare intensità. 

Ma come afferma Chris Apostle, responsabile dei dipinti rinascimentali e barocchi di Sotheby’s : “Quello che trovo commovente è che Cristo è un po’ fuori centro. Botticelli ha inclinato leggermente la testa” accorgimento che secondo l’esperto dona al dipinto una carica emotiva e umana. 

“È un dipinto metafisico di una persona matura che affronta la propria mortalità, ed è questo che lo rende così commovente: man mano che qualcuno invecchia, diventa più introspettivo, più metafisico, più spirituale. E penso che si veda molto profondamente in questa immagine”.

Sandro Botticelli: particolare di 'Giovane che tiene in mano un tondello'
GIOVANE UOMO CON UNA MEDAGLIA IN MANO

Il grande entusiasmo che ha condotto il dipinto fino al giorno dell’asta si è spento in una risentita ‘delusione’ provata da molti, perché l’opera è stata battuta per una cifra poco superiore alla base d’asta. Infatti, dai 40 milioni di partenza l’opera è stata venduta alla cifra di 45,4 milioni di dollari. Questa insoddisfazione trova ragione alla luce dell’ultima vendita del dipinto di Botticelli Giovane uomo con in mano una medaglia che poco più di un anno fa era stato venduto, sempre dell’asta di Sotheby’s, per la cifra di 92,2 milioni di dollari. Cifra record per il maestro rinascimentale. 

Ad alleviare questa insoddisfazione vi è una buona notizia: L’Uomo dei Dolori prenderà parte alla grande mostra retrospettiva dedicata a Sandro Botticelli presso Minneapolis, assieme ad altre opere della nostra amata Galleria degli Uffizi. 

Beatrice Carrara

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Uno scrigno di artigianato

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L’Opificio delle pietre dure è noto per il centro di restauro che sorge nella città di Firenze. La sua fama l’ha conquistata grazie ai numerosi restauri che ha svolto in tutta Italia, con l’intento di riportare le opere al loro originale splendore nell’ottica del progetto originale dell’artista. Un esempio recente è il Nano Morgante di Agnolo Bronzino, la cui particolarità ce la tramanda lo stesso Giorgio Vasari, nell’essere dipinta sia sul fronte sia sul retro: «Ritrasse poi Bronzino, al duca Cosimo, Morgante nano, ignudo, tutto intero, et in due modi, cioè da un lato del quadro il dinanzi e dall’altro il didietro, con quella stravaganza di membra mostruose che ha quel nano: la qual pittura in quel genere è bella e meravigliosa» (Vasari, Vita del Bronzino). 

La tela è datata 1553 in base al numero di inventario Mediceo, che in quell’anno la collocava presso il Guardaroba dei Granduchi a Palazzo Pitti. Nell’Ottocento fu soggetta a pesanti ridipinture volte a dare l’aspetto del Dio Bacco al Nano Morgante. Ecco dunque che furono coperte le nudità con grappoli di vite; nelle mani vennero poste un’anfora e una coppa e oscurata la ghiandaia sullo sfondo. Queste aggiunte furono rimosse solo nel 2010 grazie ad un lavoro di restauro delicatissimo condotto dall’Opificio, che ha permesso di ripristinare l’originale intento di Agnolo Bronzino nei confronti di Cosimo I de’ Medici, e al Nano Morgante per la sua dignità di abile cacciatore di uccelli, celebrata dalle fonti storiche.

La storia dell’Opificio la possiamo ripercorrere passo dopo passo nel suo Museo in Via degli Alfani, dove si colloca anche una delle tre sedi di laboratorio di restauro (le altre due rispettivamente a Palazzo Vecchio e alla Fortezza da Basso), oltre alla storica Biblioteca e l’archivio dei restauri compiuti. L’attuale percorso museale è frutto della ristrutturazione architettonica avviata nel 1995 su progetto di Adolfo Natalini, e del riordino della raccolta a cura di Anna Maria Giusti. Il progetto finale diviene un riflesso della vita e delle vicende della secolare attività produttiva di questo luogo.

CENNI STORICI

L’Opificio sorge nel 1588 per il decreto del Granduca Ferdinando I de’ Medici, con la volontà di portare a termine il sogno della Basilica di San Lorenzo, di ricoprirla di marmi pregiati. Dunque, coloro che si formavano presso l’Opificio dovevano diventare abili artigiani nella lavorazione delle pietre.

L’interesse verso queste tecniche di lavorazione vi era già al tempo di Lorenzo de’ Medici e continua spassionata con Cosimo I de’ Medici, interessato soprattutto al porfido in quanto materiale nobile e duraturo, legato alla tradizione della Roma Imperiale. 

È proprio nel periodo di Cosimo che si posero le basi per la fioritura del “commesso” fiorentino, tecnica di lavorazione di marmi e vetri colorati che si sviluppa sin da subito nell’Opificio, destinata a diventare tecnica identificativa di Firenze e dei suoi manufatti artigianali. Infatti, l’attività e il successo internazionale della manifattura fiorentina proseguirono ininterrottamente per oltre tre secoli.

IL COMMESSO 

Il commesso è una tecnica raffinatissima e abilissima che si può definire pittura di pietra, si avvale delle cromie naturali di pietre e vetri colorati, tagliate sapientemente e accostate a formare l’immagine di insieme. L’acutezza tecnica e il pregio dei materiali contribuirono all’immediata e durevole fortuna di questo genere di mosaico, che in sé fa trionfare la meraviglia della natura e dell’arte tecnica.

Un esempio eccelso di questa tecnica lo possiamo ammirare presso la Cappella dei Prìncipi nella Basilica di San Lorenzo. La costruzione si avvia nel 1604 per volontà del granduca Ferdinando I. L’intento era di costruire una grandiosa cappella funebre destinata a perpetuare la memoria della dinastia dei Medici. Tutt’oggi continua a lasciare senza parole e forse anche senza fiato ogni visitatore, che diviene spettatore del bagliore e della ricercatezza di pietre e metalli pregiatissimi. 

Tanto era ambizioso il progetto che i Medici non ebbero la fortuna di vederla finita: si concluse solo nel secolo successivo sotto la dinastia degli Asburgo Lorena. 

In una sezione del Museo dell’Opificio delle Pietre dure sono raccolte parte dei progetti e delle opere di questa plurisecolare impresa della Cappella, tra i quali la serie di dieci pannelli destinati all’altare. 

O ancora il busto monumentale di Cosimo I de’ Medici, concepito da Bernardo Buontalenti e Lorenzo Latini. Dovete sapere che, secondo l’iniziale progetto, le attuali statue funerarie dei Granduchi nella Cappella dei Prìncipi dovevano essere scolpite in marmi policromi; solo successivamente furono eseguite in bronzo. 

Nel Seicento si affermarono nei mosaici fiorentini soggetti naturalistici di fiori, frutta e uccelli che predominano nella decorazione dei manufatti fino al tardo Settecento. Questo motivo si ritrova anche nell’acceso dialogo tra pittori, scultori, orafi, ebanisti e maestri di pietre dure nella creazione di opere. Questa peculiarità senza tempo permette alle loro finezze tecniche ed inventive di combinarsi nella creazione di oggetti unici, anche grazie alla meditata scelta del materiale prezioso.

Molte volte utilizzavano il commesso e il rilievo di pietre dure in abbinamento con altri pregiati materiali, quali il bronzo dorato, l’ebano, l’argento nel concepimento di tavoli, stipiti, cornici, reliquiari, orologi e cassette, insomma negli oggetti d’uso più svariati e ricercati al tempo.

Un nome da non dimenticare è Giovan Battista Foggini eccelso scultore e architetto del periodo barocco che lascia la sua firma nella città di Firenze. Il Foggini a fine Seicento diresse la manifattura con un nuovo impulso, volto a utilizzare le tecniche di maggiore pregio fino ad allora sviluppatosi, nella creazione di opere nuove, inimitabili e sbalorditive.

Nel piano sopraelevato del Museo è esposta la vastissima gamma di pietre preziose in cui la Casata Medicea investì enormi ricchezze e sconfinata passione nella ricerca delle pietre più pregiate che confluirono a Firenze da tutto il mondo allora conosciuto. Per coloro che amano i materiali poter vedere le venature e le tonalità di queste pietre è un vero divertimento, e vi do la certezza che vi lasceranno senza parole.

Sempre in questa sezione, dedicata alle tecniche di lavorazione, sono presenti i banchi da lavoro ottocenteschi. Ebbene sì, perché l’elevatezza e la ricercatezza di questa lavorazione non poteva essere ottenuta con banchi da lavoro qualsiasi. Ecco dunque i banchi studiati e creati appositamente per operare questa tecnica: sono dotati di raschietto e seghetto con cui si tagliavano le pietre con la precisione analitica che solo l’artigiano poteva determinare.

Dal 1737, con il sorgere del governo Lorenese del Granducato di Toscana, si abbandonarono gradualmente i tradizionali temi naturalistici su sfondo nero a favore di vedute paesaggistiche, spesso su ispirazione di pitture su tele. Infatti, molti pittori collaborarono con la manifattura, e le loro opere furono un punto di ispirazione nuovo per creare le opere a commesso.

Presso il museo possiamo ammirare l’accuratezza del commesso che riesce a reinterpretare con le pietre le pennellate pittoriche sulle tele, quasi da non credere.

Nel periodo post-unitario la Manifattura iniziò a conoscere una crisi irreversibile, l’Opificio dovette autofinanziarsi vendendo le sue produzioni recenti e antiche. 

Inoltre, i riconoscimenti internazionali conquistati dalle Esposizioni Universali non determinarono una conquista dal punto di vista economico per l’Opificio a causa della concorrenza agguerrita degli artigiani Fiorentini, che vendevano mosaici più scadenti ma meno costosi. Fu proprio allora che al direttore del tempo Edoardo Marchionni, nell’intento di cercare nuovi sbocchi per il patrimonio di risorse tecniche e manuali ormai secolari dell’Opificio, venne il colpo di genio: dare il via ad un’attività di restauro delle opere artistiche!

Allora il restauro era una pratica nascente, e fu grazie a quella brillante idea, che possiamo affermare che il restauro, ancora prima di salvare le opere d’arte, ha saputo mantenere viva e funzionale fino ai giorni nostri l’antica istituzione medicea.  Iniziò dunque quell’evoluzione dell’Opificio da manifattura artistica a laboratorio di restauro che oggi tanto abbiamo a cuore. 

Beatrice Carrara

Intervista a Luigi Trenti

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Da poco si è conclusa la XIII edizione della Florence Biennale, con un focus incentrato sulle donne e parallelamente con una sezione dedicata al Design, con la mostra Eccellenze di serie dove MuDeTo (Museo del Design Toscano) ha lasciato la sua firma. MuDeTo è il primo museo di design online al mondo, concepito da Luigi Trenti e fondato con Umberto Rovelli e Gianfranco Gualtierotti nel 2013. Beatrice Carrara intervista Luigi Trenti, architetto, designer, professore in Design del Sistema Prodotto presso l’ISIA di Firenze, oltre che presidente di MuDeTo.

1. L’idea di fondare MuDeTo da cosa nasce?

«Tutto nasce quindici anni fa quando in Toscana non c’era quasi niente dal punto di vista associativo relativo al mondo del Design. Io ero socio dell’ADI, Associazione per il Disegno Industriale, e assieme ad altri associati, professionisti e imprenditori del territorio eravamo tutti un po’ insoddisfatti di come la nostra qualità veniva proposta.

Nel bilancio generale di questo paese ha un peso evidente il nord, Milano, perché parliamo di Milano come capitale del Design con quello che gravita attorno a questa città, per esempio il Compasso D’oro che ora ha aperto un museo, o la Triennale.

E l’immaginario generale, anche a livello internazionale, è verso questa città, e in generale il nord d’Italia accentra un po’ tutto ciò che riguarda la cultura del Design. Noi invece, eravamo fortemente consapevoli di quanto è stato fatto, detto e quanto si continua a dire sul nostro territorio riguardo al Design. Quindi, decidemmo all’epoca, di fondare la Delegazione Toscana dell’ADI, riportando in Toscana premi e Compassi D’oro che non si vincevano più da tanti anni. L’ultimo che si era vinto era nel ’98 quando io ero responsabile Design della Targetti. Quindi, da allora per circa un decennio non erano più tornati premi importanti. Dopo aver riportato questi risultati sul territorio, mi sono domandato insieme agli altri colleghi se era sufficiente fare questo. Perché non è sufficiente vincere qualche premio e far conoscere qualcosa, quando hai la consapevolezza che in realtà c’è tutto un mondo che è sconosciuto. Io porto sempre l’esempio del Design Toscano come un grande iceberg, che come tale ha solo una piccola parte che emerge ed è conosciuta. Però c’è una parte enorme sottostante che è ugualmente “di ghiaccio”, di rilievo,  ed importante, e di cui nessuno parla.

Rendendoci conto di questo fatto, ho lanciato l’idea di fondare un museo (che ADI non aveva accolto) autonomamente assieme a due colleghi, Umberto Rovelli e Gianfranco Gualtierotti, con la volontà di raccontare meglio i prodotti, le esperienze, i protagonisti di cui normalmente non si parla e che vengono dimenticati ma che non è detto siano trascurabili, anzi hanno un’importanza notevole. Quindi nasce per rivendicare e far conoscere al mondo una realtà sconosciuta di cui non si parla. Molti dei nostri prodotti non li trovi nella collezione permanente della Biennale o nella collezione del Compasso D’oro, sono stati dimenticati in buona o cattiva fede. Ma se vai a leggere le loro storie ti rendi conto di quanta importanza abbiano avuto per il mercato e la storia del Design in generale.»

2.  MuDeTo ai giovani cosa può offrire?

«Dato che a livello associativo abbiamo dovuto cambiare lo statuto per la nuova legge sul terzo settore, (per cui l’associazione da culturale è diventata un APS, Associazione di promozione sociale) abbiamo inserito anche membri onorari. Come primo membro onorario abbiamo deciso di nominare l’ISIA, Istituto Superiore per le Industrie Artistiche, come primo istituto formativo per il design. In seguito al Design Campus che è la scuola dalla quale provengo, perché sono laureato in disegno industriale. Ai tempi non c’era lo spin-off di Calenzano, c’era la facoltà di Architettura a Firenze, mi sono laureato a San Niccolò. Quindi, con questo tipo di sinergie che stiamo creando vogliamo coinvolgere i giovani, nella ricerca, fargli sviluppare tesi di ricerca, fargli capire soprattutto la ricchezza che c’è nel territorio. Per chi viene in Toscana a studiare Prodotto, Comunicazione, Fashion Design, deve avere la consapevolezza che una volta ottenuto il titolo di studio c’è già qui un patrimonio a livello produttivo dove poter trovare sbocco professionale. Questo è molto importante perché non si deve avere la convinzione che una volta preso il titolo di studio in una bella città, dove c’è un’ottima qualità della vita, puoi scappare via. C’è un mondo da scoprire e noi possiamo essere i Virgilio che accompagnano gli studenti in questo viaggio.»

ANAKONDA KAN200

3 A tutti coloro che ambiscono a creare un oggetto di Design, cosa si sente di consigliare?

«È importante calarsi nel mondo della produzione, ma non è assolutamente facile. Io insegno anche all’ISIA, sono docente da 12 anni, agli studenti chiedo innanzitutto di immaginare che tipo di attività professionale possono andare a svolgere quando avranno il loro titolo di studi. Perché oggi giorno non è così scontato prendere un titolo di studi da designer e poi andare a svolgere la professione. Spesso la professione va progettata, inventata, e capire cos’è che potrà funzionare fra qualche anno. Come il lavoro che c’è oggi sui social di questi influencer, dieci anni fa non si poteva immaginare che potesse accadere questo. Quindi bisogna ipotizzare un panorama in cui esisteranno delle professioni che ad oggi non si possono immaginare. Il ruolo del Progettista di prodotto probabilmente esisterà ancora ma si sta ampliando fortemente quel panorama. Ad esempio le attività produttive oggi tendono a portare dentro i creativi e ad avere uno staff interno, anziché appoggiarsi a professionisti esterni o freelance. Questa è una tendenza consolidata, su cui metto in guardia i miei studenti, perché per esempio tutto il polo del lusso che gravita intorno a Firenze, alla Toscana, è un polo estremamente promettente a livello professionale. Però chiede che il lavoro sia svolto all’interno, come dipendenti, che non è assolutamente negativo, perché se uno riesce a inserirsi e ha talento può fare una carriera eccellente. Ed è una realtà aperta ed estremamente promettente.»

Luigi Trenti, presidente di MudeTo

4 MuDeTo ha preso parte alla XIII edizione della Biennale di Firenze arte + design con la mostra Eccellenza di serie. Tra queste, quale si sarebbe portato a casa? 

«La più ambita dai visitatori era la supercar prodotta dalla Mazzanti Automobili, un’eccellenza che abbiamo scoperto lavorando e confrontandoci tra colleghi. Questo produttore è indipendente e ha fondato la sua attività nei primi anni del decennio scorso. Colui che ha creato questa supercar era un allestitore e restauratore di automobili che sognava di produrre la sua auto; è un oggetto incredibile da collezione con mille cavalli di potenza. Ha presentato alla Florence Biennale due modelli : il primo già in commercio, che è stato esposto all’Expo di Dubai; e la versione nuova in anteprima mondiale che si chiama EVANTRA PURA. Quest’ultima decorata con un “wrapping”, (pellicole applicate sulla carrozzeria) realizzata in fibra di carbonio, sostanzialmente la rappresentazione grafica del nome dell’automobile. Si chiama Evantra, nome di una divinità etrusca, dunque, si ancora alla cultura storica del territorio, e Eventra ha come significato eternità. Gli abbiamo proposto di partecipare alla Florence Biennale, perché era l’occasione perfetta per presentare questa esperienza, di decorare l’automobile il cui effetto finale è simile ad un vaso etrusco. È una risoluzione grafica che parte dal frontale e arriva al posteriore perfettamente centrata. Tutti la sognavano ad un prezzo esorbitante di un milione e mezzo di euro. È la rappresentazione della velocità sartoriale, di qualcosa che viene prodotto per pochi fortunati in cinque esemplari l’anno. 

Parallelamente c’era un oggetto piuttosto odiato, che si può definire il controllo della velocità, l’autovelox. Oggetto odiato dagli automobilisti ma che ha permesso di ridurre gli incidenti mortali del 30%. L’autovelox nasce in toscana come misuratore di velocità, ed è diventato una parola che nell’immaginario comune ha un’accezione non del tutto positiva. 

Parola che trovi nei vocabolari, ed è stato inventato dal Signor Fiorello Sodi, della Sodi Scientifica, trenta, quaranta, anni fa ed è diventato di uso comune. Quindi si usa la parola autovelox anche per altri apparati tecnologici che servono a rilevare la velocità. E anche questa è una realtà che nessuno conosceva e che è stato divertente raccontare agli spettatori.   

AUTOBOX 106

EVENTRA PURA

5. Alla Biennale un oggetto che personalmente mi ha lasciato senza parole è Anakonda Kan200, sono sicura che possa affascinare anche i nostri lettori, ce ne vuole parlare?

«Si tratta di un’eccellenza produttiva del territorio. In Toscana esistono vari produttori abbastanza nascosti, non si mettono mai in mostra, forse per l’indole tipica, l’atteggiamento territoriale. Tramite lo scambio di informazioni tra colleghi abbiamo scoperto questo produttore a San Piero a Sieve, specializzato nella produzione di sistemi audio. Loro nascono come installatori di impianti, per manifestazioni, concerti ecc., dopodiché i fondatori hanno deciso di mettere in pratica la loro esperienza tecnica per produrre degli oggetti nuovi. Dunque, nasce questa produzione con l’intento di creare oggetti performanti come casse o speaker, con la caratteristica di avere una riduzione del volume, per ciò sono estremamente piccoli.

ANAKONDA KAN200

Sono sorprendenti perché hanno un’efficienza notevole pur avendo un ingombro molto ridotto. Uno dei due fondatori con una forte anima creativa, Alessandro Tatini, ha creato questa tipologia di diffusore lineare. Si chiama “anakonda” perché come una sorta di grande serpentone composto da moduli di due metri ciascuno che hanno giunzioni veloci, se ne possono congiungere trentadue così da creare un diffusore lineare lungo fino a sessantaquattro metri.

Con la caratteristica anche di svanire perché dematerializzato, se lo poni su un prato per una festa o un concerto non ti accorgi dove sono gli altoparlanti. Senti la musica di alta qualità, puoi calpestarlo, e se c’è un temporale nessun problema perché è impermeabile. 

Quando lo abbiamo scoperto lo abbiamo subito acquisito virtualmente per il Museo perché è un’invenzione eccezionale, e in effetti tutti rimangono a bocca aperta quando lo vedono.

6. La XIII edizione della Florence Biennale ha riflettuto sul binomio arte e design, secondo lei qual è il punto di forza nell’unire l’arte e il Design? Glielo chiedo alla luce di ciò che dice Bruno Munari nel suo libro Artista e Designer, ovvero che sono l’opposto

«Io questa differenza non la vedo: molti produttori attingono dall’arte. Di sicuro c’è un flusso creativo dall’arte verso il design piuttosto che dal design verso l’arte. Ma anche l’attuale mostra di Jeff Koons in centro a Firenze ti fa capire che l’artista può diventare un po’ designer. Perché è presente un’idea di industrializzazione dell’oggetto molto vicina al modo di agire dell’industrial design, quindi i due punti si compenetrano in modo molto intimo. È importante soprattutto per il territorio toscano, perché con le realtà che abbiamo come la Sodi Scientifica e tutto il mondo della pelletteria e del lusso, siamo sicuramente vincenti nell’ottica della produzione di serie limitate e di alto artigianato. Se iniziamo una competizione dal punto di vista quantitativo, in cui sono forti i produttori dell’estremo oriente, siamo perdenti perché il nostro lavoro costa molto all’industria con un costo del lavoro elevato.

Quindi spingersi verso una produzione di alto artigianato, alla fine non è arte? Secondo me sì! si va verso l’unicità. Molti di questi marchi si rivolgono ad un’utenza alto spendente proponendogli versioni uniche degli oggetti. Come Evantra della Mazzanti Automobili, è un’automobile con una forma abbastanza consolidata, ma se qualcuno vuole qualcosa di unico allora fa al caso suo. E in questo caso, è design che diventa forma d’arte. Evantra è decorata con un wrapping che ricorda la Dea etrusca, è una forma d’arte ed anche per questo è stata esposta alla Florence Biennale. Era una tela appoggiata su quattro ruote.»

Beatrice Carrera

L’arte che dà voce all’Afghanistan

Tempo di lettura: 6 minuti.

In Afghanistan molti artisti stanno nascondendo il loro lavoro e chiudendo i loro studi per paura di essere presi di mira dalle autorità.

L’arte e gli artisti del paese sono messi a dura prova dai talebani, i quali non perdono occasione nel tentativo di eliminare la storia e l’arte afgana. 

In quest’ottica i talebani hanno cancellato il murale più iconico di tutta Kabul imbiancandolo. L’opera ritraeva Zalmay Khalilzad, inviato speciale di Trump, mentre porgeva la mano al mullah Abdul Ghani Baradar. 

Graffito che era divenuto simbolo e testimonianza degli accordi di Doha del febbraio 2020, e sanciva la fine al conflitto armato in Afghanistan del 2001. A sua volta la scelta e l’atto di imbiancare il muro da parte dei talebani diviene ricordo del totale ritiro delle forze armate statunitensi dal paese.

A rendere noto l’accaduto è Omaid H. Sharifi, che ha lasciato l’Afghanistan con la sua famiglia nei mesi scorsi, ed è il fondatore del collettivo ArtLords, che ha ideato e dipinto l’opera. 

“Hanno cominciato. I talebani hanno cominciato a dipingere sopra i nostri murales. Hanno cominciato con quello storico che ha segnato la firma degli accordi di Doha. Il murale Baradar Khalilzad non c’è più. Al suo posto una scritta in bianco e nero che dice ‘Non ti fidare della propaganda del nemico’, una citazione del mullah Haibatullah”. Così l’artista descrive al pubblico di twitter l’evento doloroso, accompagnato dalla foto del murale prima e dopo l’irruzione dei talebani nel paese. 

Se si parla di street art non si può non citare Shamsia Hassani, prima donna afgana a cimentarsi in questa tecnica artistica. I suoi murales portano speranza, coraggio e cruda verità per le strade di Kabul, e non solo. Infatti i suoi graffiti ispirano migliaia di donne tutti i giorni sui muri dell’Afghanistan, Stati Uniti, Italia, Germania, India, Vietnam, Norvegia, Danimarca, Svizzera ecc…

Shamsia utilizza le pareti di edifici danneggiatio o distrutti da bombardamenti come tele per le sue opere, dove le donne afgane ottengono il volto che si sono guadagnate lottando. Sono donne orgogliose, forti, coraggiose, libere di muoversi nello spazio e capaci di apportare cambiamenti positivi alla società con la loro bontà. Su di esse non mancano i segni della società patriarcale; non hanno la bocca perché molte volte devono tacere, e hanno gli occhi chiusi per non vedere la morte e la brutalità che le circonda.  

Ali Subotnick, curatore dell’Hammer Museum di Los Angeles, ha affermato nel 2015 al Los Angeles Time: “È incredibilmente stimolante il fatto che sia una donna che va in strada a dipingere, dove è pericoloso camminare da sola all’aperto a Kabul, è così fiera, indipendente e forte. Sta dando voce alle donne in Afghanistan”.

Shamsia Hassani ci insegna una cosa molto importante che: “L’arte cambia la mente delle persone e le persone cambiano il mondo”

Anche la città di Firenze è onorata di custodire la poetica dell’artista afgana. Sto parlando del murale che copre una parte del muro esterno dell’Istituto Tecnico Leonardo Da Vinci, in via del Terzolle. Concepito quattro anni fa dalla coraggiosa artista, mentre era ospite del comune di Firenze e della Biennale di Arte Contemporanea, in occasione della Giornata Europea della Giustizia.

Nel murale vediamo sullo sfondo il profilo della città di Firenze, mentre in primo piano campeggia l’immagine di una donna afgana il cui vestito raffigura alcune delle strade di Kabul. Anche qui il volto non ha la bocca, perché le donne afgane non hanno la libertà di parola, e ha gli occhi chiusi per evitare di vedere il dolore che affligge il suo paese. Infine è colta nel momento in cui congiunge due dita della mano, omaggio a Michelangelo Buonarroti e al suo celebre affresco Creazione di Adamo, nel controsoffitto della Cappella Sistina.    

L’Afghanistan è da tempo bacino di ispirazione e sperimentazione degli artisti, anche italiani. Alighiero Boetti si recò a Kabul negli anni 50 del 900’ rimanendovi innamorato, pathos che testimonia in un famoso ciclo di opere Mappe, divenute icone del suo modo di operare e di pensare. Per realizzare le sue Mappe – oltre 150 in un ventennio –   si ispirò ai tappeti afgani e agli stessi artigiani locali. Gli arazzi nelle mani dell’artista torinese divengono planisferi politici, che mostrano i cambiamenti globali agli occhi dell’osservatore.

Questa mappa è incorniciata con la frase ALIGHIERO E BOETTI A KABUL AFGHANISTAN NELL’ANNO MILLENOVECENTOOTTANTA’, proprio da quell’anno, il 1980, l’ingresso nel paese è vietato.

“Il lavoro della mappa ricamata è per me il massimo della bellezza. Per quel lavoro io non ho fatto niente, non ho scelto niente, nel senso che il mondo è fatto com’è e non l’ho disegnato io, le bandiere sono quelle che sono e non le ho disegnate io, insomma non ho fatto niente assolutamente: quando emerge l’idea di base, il concetto, tutto il resto non è da scegliere”, afferma l’artista.

Non solo artisti come Carla Dazzi e Carlo Carli operano in Afghanistan divenendo interpreti e diffusori della sua storia, ma le stesse città sul territorio italiano programmano eventi sociali di riflessione sul tema attuale.

A Firenze si è appena chiuso il Middle East Now, festival cinematografico, che quest’anno ha avuto un focus proprio sull’Afghanistan. Fondato nel 2010, ha l’obiettivo di mostrare ai visitatori il cinema, l’arte e la cultura del Medio Oriente in tutte le sue sfaccettature. 

Dal 28 settembre al 3 ottobre si è svolta la proiezione presso il Cinema La Compagnia e il Cinema Stensen di innumerevoli film, cortometraggi e anteprime ad opera di registi internazionali e soprattutto afgani.

Dunque, Firenze si è resa palcoscenico di storie orientali che si sono susseguite e richiamate nelle sale dei cinema arrivando fino ai nostri cuori, portandoci alla commozione.

Un esempio A JOURNEY INTO ZERO SPACE film di Dawood Hilmandi, giovane talento afgano, che è stato proiettato nelle sale del Cinema La Compagnia. Il Film è un trittico, così definito perché è il montaggio di tre cortometraggi che il regista ha selezionato dagli archivi del passato, allo scopo di far riflettere su di essi e sull’attualità. E’ un lavoro cinematografico che mette in discussione le nozioni di casa, storia, autorità e immaginazione. Prima della proiezione del film, Hilmandi ha parlato telematicamente agli spettatori presenti in sala da Qom, in Iran. Ha affermato quanto per lui sia importante diffondere un’autocoscienza e un apprendimento individuale, al fine di concretizzare una coscienza collettiva. Inoltre, definisce il suo film una lettera d’amore verso tutti, aggiungendo per ultimo che non importa l’entità del danno, ma che è importante continuare a fare film, scrivere, raccontare affinché tutto ciò non venga dimenticato.

Questa presa di coscienza e di riflessione in occasione del Middle East Now non termina qui, perché presso il MAD (Murate Art District) di Firenze si tiene la mostra fotografica del giovane Tabit Rida, fino al 20 novembre. Fotografo autodidatta, che scende in strada con la macchina fotografica, avendo l’obiettivo di testimoniare i profondi cambiamenti e la realtà, spesso trascurata, della sua città natale, Marrakech . 

Per Rida, la fotografia è un mezzo finalizzato a una migliore conoscenza del mondo, delle persone e di sé stesso. In questa mostra Marrakech- In times of stillness, ci porta mano nella mano nelle strade marocchine, narrandoci che il tempo non si è davvero fermato con la pandemia e che l’uomo è atto alla resistenza per natura. 

Beatrice Carrara

Marc Chagall: più di un pittore

Tempo di lettura: 5 minuti.

Il 7 luglio del 1887 nasce a Vitebsk, in Bielorussia, Marc Chagall.

In gioventù vive nelle zone più povere della città, la madre gestisce una bottega di alimentari e il padre commercia aringhe. È stata la sua dedizione alla pittura che lo ha portato alla fama e alla notorietà in eterno.

Nel 1911 si trasferisce a Parigi, nel quartiere di Montparnasse, che gli apre le porte dell’amicizia di molti intellettuali, scrittori, e poeti come Apollinaire grazie al quale incontra il mercante d’arte Herwarth Walden. Quest’ultimo affascinato dalle sue opere ne darà molta visibilità nella Parigi degli anni ‘10, procurandogli un guadagno sia materiale che emotivo.

Del rapporto tra Chagall e Apollinaire abbiamo una traccia scritta nel diario dell’artista: “Non oso mostrare i miei quadri ad Apollinaire. Lo so voi siete l’ispiratore del cubismo. Ma io preferisco qualcos’altro. Che altro? Sono confuso […] Un pianerottolo rotondo; una decina di porte numerate. Apre la mia. Apollinaire entra con prudenza […]. Personalmente non credo che la tendenza scientifica sia una cosa buona per l’arte. Impressionismo e cubismo mi sono estranei […] Apollinaire si siede. Arrossisce, inspira, sorride e mormora “Soprannaturale”

 Nel frattempo, è scoppiata la guerra, e Chagall riesce a scampare dall’orrore delle trincee con un incarico d’ufficio al Ministero della Guerra. Nonostante il periodo turbolento espone comunque le sue creazioni, e ne concepisce di nuove grazie alle prime grandi commissioni che lo riguardano: per il mercante Ambroise Vollard disegna le illustrazioni della Anime morte di Gogol e le Favole di La Fontaine. Avranno molto successo le raffigurazioni testuali di Chagall, fresche, luminose e oniriche, un prestigio che lo porta ad ideare le illustrazioni per un’edizione della Bibbia, pubblicata nel 1930.

Marc Chagall è stato un grande viaggiatore, giunse nella maggior parte dei paesi Europei, richiamato dalle numerose commissioni, oltre che dal piacere personale di viaggiare e di farsi emozionare, ma si rivelò anche un insaziabile amatore.

Ha avuto tre mogli nella sua vita, tutte molto amate e coccolate dall’artista. La donna più celebre nella sua vita così come nella sua pittura è Bella Rosenfeld che conobbe appena ventenne e con cui si fidanzò nel 1909, poco prima di partire per Parigi, città in cui Bella giungerà solo nel 1923 assieme alla figlia Ida. La morte dell’amata moglie, sopraggiunta a causa di una malattia improvvisa nel 1944, lasciò l’artista nella totale disperazione.

 Commoventi, intime e travolgenti si rivelano le parole di Bella scritte nel suo diario

 : “Tu, ti getti sulla tela, che trema fra le tue mani, afferri il pennello, premi il colore dei tubetti:

rosso, azzurro, bianco e nero. E mi trascini nel torrente dei colori. Improvvisamente mi sollevi dal suolo e tu stesso ti dai lo slancio con un piede come se la piccola stanza fosse troppo angusta per te. Tu balzi su, ti stendi in tutta la tua lunghezza e voli verso il soffitto. Ti pieghi al mio orecchio e mi mormori qualcosa …. e tutti e due insieme voliamo leggeri… e voliamo via tenendoci per mano… giungiamo alla finestra e vogliamo passare fuori. Dalla finestra ci chiamano una nuvola ariosa e un pezzo di cielo azzurro. Le pareti, addobbate con i miei scialli variopinti, ondeggiano intorno a noi e fanno girare la testa. Noi voliamo sui campi variopinti, e case di legno con le persiane chiuse, su campagne e chiese…”

Fra le tante opere che Chagall ha dedicato alla sua prima moglie, rendendola perpetua nei secoli, Compleanno è una delle più poetiche, e risale ai primi anni di matrimonio. Il titolo fa presumere che il dipinto risalga al genetliaco di Bella, che era nata a Vitebsk il 15 novembre 1895. Si dice che il pittore abbia considerato il matrimonio con Bella come un’emancipazione dalla solitudine, vedeva il rapporto coniugale come una benedizione e mai come una prigione.

Questo puro sentimento è quello che l’artista rimarca nei dipinti che presentano la donna, dunque la sua immensa felicità quando è con lei. Infatti, vediamo come i due innamorati dominano la scena e ne diventano perno visivo. Chagall nel baciare Bella inizia a fluttuare e nel tentare di rendere l’atto d’amore più duraturo si contorce in una posa del tutto innaturale, quasi ad affermare che la forza dell’amore supera ogni legge naturale/ fisica. Da questa forza sentimentale viene condizionata anche Bella, la quale dimentica tutto e viene immersa nell’atmosfera fiabesca creata dal marito col pennello.

COMPLEANNO 1915: olio su cartone. New York, MoMa- Museum of Modern Art

Con l’avvento del nazismo la situazione si complica, le sue opere vengono esposte nel 1937 presso la mostra di Arte Degenerata promossa dal regime nazista, secondo cui le opere degli artisti esposti erano frutto di una mente malandata che determinava la distorsione della realtà sulla tela. Nonostante questo durante la seconda guerra mondiale Chagall riesce a sfuggire alle leggi antisemite sbarcando a New York.

Alla fine della guerra Chagall perde Bella (morta nel ‘44) ma non la necessità viscerale di creare. Ritorna sul palcoscenico con i costumi che disegna per il balletto l’Uccello di fuoco sulla musica di Stravinskij, tenuto dal Ballet Theatre al Metropolitan Opera.

Dalla fine della guerra fino alla sua morte avvenuta il 28 marzo del 1985 nel suo studio a Saint Paul-de Vence, le istituzioni di maggior spicco culturale celebrano il suo creato. A partire dal Museum of Modern Art di New York, che nel 1946 gli dedica una retrospettiva con le opere di oltre quarant’anni di attività.

Ci ha lasciato un corpus di opere che inducono a far sognare, dal più piccolo, all’uomo più maturo, cattura la nostra essenza nell’immensità del trascorrere evocato dalle pennellate. Colori che fanno lievitare la nostra immaginazione conducendoci oltre la tela, oltre la stanza in cui si trova il dipinto, portandoci a volare nel cielo con lui. Con le sue opere fa credere all’umanità che tutto è possibile, anche sopravvivere nell’eternità.

 André Breton nel saggio La metafora in pittura del 1941 afferma:

 “Non c’è stato niente di più risolutamente magico delle sue opere, in cui gli stupendi colori fondamentali portano in sé e trasfigurano il tormento moderno, pur conservando l’antica ingenuità nel raffigurare ciò che la natura proclama il principio del piacere: i fiori e l’espressione dell’amore”.

LE FAVOLE DI LA FONTAINE

Marc Chagall oltre ad essere determinante nella storia della pittura è una figura da rimembrare anche per le sue superbe illustrazioni, di cui purtroppo si parla troppo poco. In quest’ottica si rivelano fondamentali le illustrazioni ideate per le Favole di La Fontaine, maestro delle favole moderne, la cui arguzia nello scrivere trova un connubio perfetto, tre secoli dopo, con il tocco onirico del pennello di Chagall.

Felice e avventuroso dialogo in cui il mondo popolato da animali e oggetti vocianti, che incarnano vizi e virtù esplicitamente umani, si tinge di una vena sognante che cattura i lettori di ogni età. Ecco che ad ogni pagina corrisponde un trionfo di freschezza e vivacità dettato dal sapiente uso del colore dell’artista.

Quando Ambroise Vollard, grande gallerista ed editore-mecenate del ‘900, diede il compito a Marc Chagall di disegnare cento gouaches per illustrare le Favole, la critica del tempo non esitò a manifestare le sue forti perplessità.

Nelle intenzioni di Vollard l’idea di affidare alla mano di Chagall un nuovo ciclo di illustrazioni dell’opera testuale rappresenta una provocazione, lucida e consapevole alle illustrazioni concepite fino ad allora delle Fables. In un articolo del 1929 Vollard dichiara che è giunto il momento di dare: “un’interpretazione meno letterale, meno frammentaria dell’opera di La Fontaine: qualcosa che sia insieme più espressivo e più sintetico. Una simile trascrizione non può che essere affidata a un pittore di temperamento, dotata di immaginazione creativa, e fertile nell’invenzione dei colori”

Ecco il perché la scelta cade su Chagall, di religione ebraica, Russo aperto alla radicale modernità, capace di tradurre in un debutto di colori la vicenda delle favole, e condurle al limite del sogno. Pare naturale che la critica di allora, tradizionalista, nazionalista, xenofoba e anti-ebraica si scagliò contro questo lavoro. Nonostante questo le cento gouaches di Chagall disegnate fra gli anni del 1926 e 1927 fanno la loro veloce comparsa in pubblico nel 1930. Furono esposte in 3 rispettive mostre, a Parigi, Bruxelles e a Berlino per essere immediatamente vendute a collezionisti privati. Nel frattempo, l’idea originale di stampare un’edizione delle gouaches viene interrotta a causa di una deludente riuscita delle prove a colori. Negli anni successivi l’opera di Chagall è stata oscurata alla vista del pubblico. Solo nel 1995, Didier Schulmann decise di organizzare una mostra dedicata al tema, sotto l’egida della Réunion des Musées Nationaux, nella quale esporre il maggior numero possibile delle cento gouaches di Marc Chagall ideate sull’opera di La Fontaine. Negli anni si è verificata una dispersione delle opere originali, in tutto 30 delle 100 gouaches non si è potuto sapere più nulla, a partire dal momento in cui furono vendute all’esposizione di Berlino del 1930. Vi propongo un piccolo soffio rispetto al grande respiro che l’opera conclusiva e originale doveva prevedere nel dialogo fra la scrittura di La Fontaine e la pittura di Marc Chagall.

L’UOMO E LA SUA IMMAGINE

Un uomo innamorato di sé stesso

era convinto che nel mondo intero,

in tutto l’universo,

nessuno fosse bello come lui.

E se vedeva il viso suo riflesso

dentro uno specchio, trovandolo diverso

da quello che credeva, si arrabbiava

con l’innocente oggetto, e lo accusava

di non essere affatto veritiero.

Per sua disgrazia,

di specchi, consiglieri di ogni grazia,

ce n’erano dovunque: nei salotti

in tutte le dimore,

nelle borsette di tutte le signore,

persino in tasca a tanti giovanotti,

e ogni specchio rifletteva il vero.

Allora, cosa fa il nostro Narciso?

Abbandona l’umana società,

Si rifugia in un angolo remoto,

dove non ci sia specchio che rifletta

l’ingrata verità.

E anche qui, cosa trova?

Un lago calmo, limpido e tranquillo,

che gli ributta in faccia la realtà.

Lui si infuria, vorrebbe allontanarsi,

ma il lago è così bello

che l’uomo non riesce a distaccarsi.

Avrete già capito

dove voglio arrivare.

Lo strano male

di cui soffriva quel Narciso affligge

tutta l’umanità, senza eccezione.

L’anima nostra, come quel Narciso,

vede in sé stessa ogni perfezione.

I vizi altrui, che abbiamo sotto gli occhi,

sono soltanto specchi

dei vizi nostri che non vogliam vedere.

Quanto allo specchio d’acqua che riflette

inesorabilmente la realtà

di una difettosa umanità,

quel lago è il vostro libro, signor Duca.

Gouache di Marc Chagall per la favola  IL MUGNAIO, SUO FIGLIO E L’ASINO

Gouache di Marc Chagall per la favola  IL CAVALLO E L’ASINO

Beatrice Carrara

La macchina nelle mani di César

Tempo di lettura: 60 secondi.

César Baldaccini, meglio noto come César, nasce nel 1921 a Marsiglia da una famiglia di emigrati toscani.  Il suo impeto verso l’arte lo condusse a studiare Belle Arti prima nella sua città natale poi a Parigi; quest’ultima è stata la città che ha acceso la fiamma del suo genio artistico e che lo ha reso celebre nel panorama internazionale. La sua prima mostra risale al 1954 presso la galleria parigina Lucien Durand, suggella anni e anni di dedizione nel lavorare il ferro, e determina la rottura dall’immagine dello scultore accademico che investe la sua figura. Questo si legge chiaramente nella sua affermazione “il marmo di Carrara era troppo costoso, la vecchia spazzatura era ovunque. Sono diventato uno scultore perché ero povero”. Attenzione: non afferma di essere disperato e di aver scelto di diventare un artista perché senza alternative, ma, la sua affermazione denota la sua indomabile necessità di creare che con il suo genio è riuscito a saziare in modo rivoluzionario e magistrale, nonostante le scarse risorse materiali e di denaro. 

Inoltre, è da collegare alla fatidica data del 1961, anno in cui César si unisce al movimento del Nouveau Réalisme guidato da Pierre Restany. Il Nouveau Réalisme è uno dei grandi movimenti sovversivi del ‘900 che vuole dare risalto all’attività dell’artista e a tutte le azioni che si avvicendano prima di arrivare all’opera conclusa formalmente. Molto spesso impiega oggetti utilizzati, distrutti e rovinati, ma riassemblati e reinterpretati così da dargli un’altra vita e funzione, diventando simbolo di una generazione che distrugge i vecchi valori per crearne di nuovi.

E’  l’azione quindi dell’artista e non l’oggetto in sé a dare senso e significato all’opera d’arte. Dunque, si comprende come la sua scelta di usare rottami come mezzo per animare le sue idee non sia solo dovuto al fatto che non aveva a sua disposizione materiali pregiati, ma anche per il pensiero dominante alla fine del secolo, che vede l’idea più importante dell’aspetto formale nell’opera d’arte. 

“Quando si vede il mio lavoro, ci si rende conto che è puramente fisico, istintivo, ma vi è anche un uomo dietro, con un cervello. Poiché il mio cervello comunica con tutto il resto. E’  il tatto che mette tutta la meccanica dello scultore in movimento: è la materia che guida lo sviluppo dell’immaginazione. A me, una ragazza non mi eccita se non le tocco il posteriore, se non tocco, non succede nulla”.

L’affermazione di Cesar porta una maggiore chiarezza sul perché la maggior parte delle sue opere sono compresse, premute da forze plasmanti esteriori, perché se lui non tocca “non succede nulla”, non gli conferisce vita. 

Negli anni 70’ si innamora di una gigante pressa industriale importata dagli Stati Uniti con cui César inizia a schiacciare le vecchie automobili, nasce così la fortunata serie delle Compressioni. La tecnica è più veloce rispetto a quella delle sculture in ferro saldato, ma il risultato non lascia meno stupefatti. L’artista raccoglie e seleziona oggetti in base a criteri estetici, da queste riflessioni inizia a lavorare con le macchine usate. Oggetti che sono compressi non solo nella forma ma anche nella loro storia, annulla la loro funzione per ricrearla e contestualizzarla, così da far nascere nuove vicende ed emozioni nella mente di chi le mira e ammira. 

Dauphine 1959, 1970 Automobile compressa

La cura delle opere d’arte parte dall’Università: intervista a due borsiste

Intervista a due borsiste

Le Dottoresse Romina Origlia e Francesca Maria Bacci, borsiste presso l’Università degli Studi di Firenze, da settembre conducono un lavoro di catalogazione presso Santa Maria Nuova. E’ anche grazie alla loro  passione e al loro impegno che il Crocifisso di Francesco da Sangallo è finalmente visibile da parte del pubblico all’interno del percorso museale di Santa Maria Nuova.

1) Cosa maggiormente vi ha affascinato nell’impresa di catalogazione del patrimonio di Santa Maria Nuova? 

FB: Avere la possibilità di lavorare su un patrimonio così eterogeneo per tipologia di oggetti, arco cronologico e varietà qualitativa è un’esperienza estremamente interessante.

Altro aspetto su cui siamo stimolate a riflettere è il rapporto tra una raccolta d’arte così importante e il contesto a cui appartiene, un ospedale tuttora attivo e che ha come prima funzione l’assistenza sanitaria: come conciliare due missioni così distanti? Come conservare e rendere fruibile questo patrimonio?

RO: La ricchezza delle opere ancora da studiare e l’eterogeneità della collezione che include opere di pittura e scultura dal Trecento fino al Novecento con un cospicuo numero di tessili e reliquie.

2) Quali sono le esperienze artistiche che Francesco Da Sangallo traduce nel suo Crocifisso ligneo?

FB: A questa domanda si potrebbe dedicare un’intera lezione di storia dell’arte! Si tratta di un’opera matura e complessa che si nutre delle esperienze elaborate dal padre Giuliano da Sangallo e dallo zio Antonio, entrambi autori di eccellenti Crocifissi lignei, oltre che di altri fondamentali apporti meditati su scultori quattrocenteschi quali Donatello e Antonio del Pollaiolo. 

3) La scelta di collocare il Crocifisso nel Salone di Martino V, nel percorso museale di Santa Maria Nuova, a cosa è dovuta?

FB: Come dicevo prima la raccolta d’arte di Santa Maria Nuova vive in un contesto che si deve armonicamente integrare con le funzioni sanitarie e amministrative dell’ospedale. Il Crocifisso necessitava di uno spazio che fosse abbastanza grande da accoglierne le dimensioni monumentali e di un contesto che potesse valorizzarlo dal punto di vista espositivo. Da questo punto di vista il Salone Martino V si è rivelato perfetto: offre uno spazio adeguato dove il Crocifisso dialoga con altre opere di qualità ed è fruibile nel percorso di visita.

RO: Il Salone Martino V è uno dei luoghi più frequentati di Santa Maria Nuova, in quanto è utilizzato come spazio per incontri e conferenze inerenti alle attività dell’ospedale. In quella sala sono esposte opere del Quattrocento fiorentino, come la sinopia di Bicci di Lorenzo, una croce dipinta e un affresco staccato di Niccolò di Pietro Gerini che accompagnano in maniera cronologicamente coerente il Crocifisso di Francesco da Sangallo. Occorre anche dire che le dimensioni dell’opera con la sua croce erano piuttosto ingombranti e gli altri spazi del percorso museale non potevano accoglierlo.

4) Vedere oggi l’opera di Francesco da Sangallo nell’Ospedale di Santa Maria Nuova, luogo adibito alla cura dei malati, mi ha fatto pensare alla capacità salutifera dell’arte. Ritenete che l’arte possa guarire?

FB: Non so se l’arte possa guarire ma può donare bellezza ed emozioni che sicuramente aiutano a stare meglio.  

RO: In questa pandemia in cui i musei, le mostre e i principali luoghi di cultura sono stati chiusi credo che sia emersa in maniera molto forte, l’esigenza di stare a contatto con l’arte per migliorare la quotidianità delle nostre giornate e ricavarne un benessere mentale.

5) In conclusione, chiedo sempre ai miei intervistati se vogliono dare un consiglio a tutti coloro che stanno studiando attualmente nel loro stesso campo formativo. In questo caso, avete una esortazione da fare a coloro che stanno studiando Storia e Tutela dei Beni Culturali?

FB: Innanzitutto godersi appieno il percorso formativo, amare quello che si studia, sfruttare al massimo il privilegio enorme di studiare arte in un paese come l’Italia: andate in giro e guardate più che potete. Poi, per il “dopo”, essere consapevoli delle difficoltà e delle potenzialità di questo settore e capire qual è il campo in maggiore sintonia con i propri interessi e con le proprie capacità.

RO: L’unico consiglio che mi sento di dare è di riuscire a guardare il mondo che ci circonda con uno sguardo multidisciplinare e non avere paura di entrare in campi che sembrano lontani dal nostro perché anche i settori più insoliti possono regalare stimolanti esperienze di lavoro.

Beatrice Carrara

CROCIFISSO DI FRANCESCO DA SANGALLO- DOPO DUE SECOLI È DI NUOVO FRUIBILE

Tempo di lettura: 3 minuti.

Il repertorio artistico di Santa Maria Nuova possiede un inedito gioiello, si tratta del Crocifisso di Francesco da Sangallo (Francesco Giamberti; Firenze, 1494 – Firenze, 1576) che finalmente può essere ammirato da parte del pubblico, dopo il restauro terminato nel 2009. Infatti, dopo il ripristino del suo originario splendore, solo nel 2013 è stato mostrato al pubblico per la prima volta, dopo due secoli, in occasione della mostra I Sangallo – Una famiglia di scultori, presso il Palazzo Municipale di Pontassieve.

L’opera fu realizzata tra il 1515 e il 1525 per l’ospedale di Santa Maria Nuova. Il complesso architettonico fu fondato da Folco Portinari nel 1288, il padre di Beatrice Portinari, quest’ultima tanto amata sia in vita che in morte da Dante Alighieri.

Alto 184 centimetri e largo 178, l’artista è riuscito a cogliere Cristo nella sua bellezza sofferente, trattenuta e accettata; nel candore ancora vivo e pulsante nelle vene del corpo; oltre che nella sua potenza, vista la sua evidente resa muscolare, nel momento in cui esala l’ultimo respiro.

Quest’ultima caratteristica anatomica, resa perfettamente dall’artista, si ipotizza derivi dalla sua possibilità di attingere agli spazi dell’ospedale. Come spiega Esther Diana, responsabile Settore Biblioteca, Ricerca ed Editoria della Fondazione Santa Maria Nuova Onlus: “Già a partire dal Quattrocento l’ospedale di Santa Maria Nuova è frequentato da molti artisti. Il nosocomio offriva loro la possibilità di studiare da vicino il corpo umano ricavandone conoscenze fondamentali per le opere. Anche Francesco da Sangallo, come Leonardo da Vinci, deve aver passato molte ore qui, a studiare. La perfezione dei dettagli anatomici di questo Crocifisso ne è la dimostrazione. L’immagine del Cristo sulla croce, in un ospedale, aveva finalità ben precise in un’epoca in cui la malattia era considerata la punizione per un peccato commesso: doveva ispirare umiltà, trasmettere conforto e indicare la giusta strada verso la redenzione. Inoltre, le predicazioni di Girolamo Savonarola avevano contribuito ad accrescere il culto del Crocifisso. La sua raffigurazione si diffonde quindi all’interno dell’ospedale, sugli altari e in corsia. A Santa Maria Nuova se ne contano almeno 13, in legno o cartapesta, a dimensione naturale, provenienti da importanti botteghe o di autori anonimi”.

Prima di operare il restauro su un manufatto si attuano degli esami diagnostici, così detti perché volti a ricavare una diagnosi dell’oggetto, ovvero constatarne le parti in ‘salute’ e quelle ‘malate’ al fine di capire come operare nella fase di restauro.  Le indagini hanno confermato la modalità con cui Francesco realizzò l’opera, attraverso l’assemblaggio di tre blocchi di tiglio, materiale che secondo Giorgio Vasari era il migliore tra tutti i legni. In seguito, il restauro ha permesso il rafforzamento della struttura lignea, tramite iniezioni di resina acrilica.

Fase di restauro del Crocifisso di Francesco da Sangallo
https://www.intoscana.it/it/articolo/crocifisso-santa-maria-nuova/

Tra le numerose operazioni che si sono susseguite nella fase di ripristino, curioso è notare che prima di questo intervento il crocifisso presentava uno strato di pittura scura. Probabile che sia stata stesa nel corso dell’Ottocento, quando la maggior parte dei crocifissi lignei erano sottoposti a questo trattamento per renderli di aspetto bronzeo, perché all’epoca era molto più apprezzato del legno.

È grazie al lavoro e all’impegno di due borsiste dell’Università degli Studi di Firenze, Dottoresse Romina Origlia e Francesca Maria Bacci, che il Crocifisso di Francesco da Sangallo è stato ricollocato. Il Salone di Martino V diviene così tappa fondamentale nel percorso museale di Santa Maria Nuova, inaugurato nel 2016. Questa monumentale stanza venne creata nel 1720 dallo Spedalingo Giuseppe Maria Martellini, e oggi ha lo scopo di accoglierci per permetterci di contemplare le opere artistiche esposte, tra cui il tanto atteso Crocifisso di Francesco Da Sangallo. 

Beatrice Carrara

LA BELLA DI TIZIANO

Tempo di lettura: 4 minuti.

Firenze ha una storia secolare nella pratica sartoriale, tutt’oggi coltiva quest’arte senza aver perso la nota e mirabile accuratezza manifatturiera. Infatti, questa attività viene ancora coltivata negli atelier della città, i quali cercano di stare al passo con la moda contemporanea e al tempo stesso guardano alla storia, soprattutto artistica, del capoluogo fiorentino che ne ha cristallizzato l’identità nel cuore di molti.

Nei riguardi di Firenze, i ritratti Medicei sono un ammaliante viaggio alla riscoperta della storia della moda oltre che una dimostrazione della versatilità sartoriale nei secoli. 

Agnolo di Cosimo Tori detto il Bronzino Ritratto di Bia de’Medici 1542-1545, olio su tavola
Galleria degli Uffizi sala 65
( Fonte: galleria degli Uffizi)

I quadri più celebri che ritraggono i membri della famiglia portano la firma di Agnolo di Cosimo Tori, detto il Bronzino, che con catalettica visione immortala l’eleganza della figura, la raffinatezza dal tessuto prezioso e la sua accurata lavorazione. Il tutto accompagnato da gioielli di inaudita bellezza su cui il nostro sguardo si adagia nella contemplazione dell’insieme. Il volto non va in secondo piano ma si eleva in una cornice dettata dalla capigliatura rigorosa e luminosa, che ne sublima lo sguardo e con esso la sua anima nell’eterno.

Numerose sono le figure medicee che il Bronzino dipinse e con esse i loro incantevoli e impeccabili abiti, che ce ne evocano l’amorosa e attenta manifattura. Per citarne alcuni: Bia de’ Medici; Eleonora di Toledo e il figlio Giovanni; Maria di Cosimo de’ Medici; Cosimo I de Medici, Garzia de’ Medici ecc..

Tiziano Vecellio, “La Bella” 1536 olio su tela
Galleria Palatina Firenza
( Fonte: wikipedia )

Tiziano Vecellio è un altro dei ritrattisti più noti del secolo, protagonista dell’arte veneziana assieme a Jacopo Sansovino e l’Aretino. ‘La bella’ è uno dei ritratti più enigmatici dell’artista veneto, perché ancora oggi, nonostante le ipotesi proposte, l’identità della donna raffigurata è sconosciuta. Il ritratto fu commissionato dalla famiglia della Rovere, e grazie a Vittoria della Rovere, quinta Granduchessa di Toscana, giunse a Firenze dove tutt’oggi è conservato presso la Galleria Palatina.

Sicuramente appartenente a una famiglia di alta estrazione sociale, la ‘bella’ è colta nel passaggio dalle tenebre alla luce –dall’ impotenza all’atto–  così recuperando la teoria di Aristotele, cara al suo tempo. Abbandona la malinconia giorgionesca, e ad essa Tiziano sostituisce un prolungamento del tempo, che provoca un senso di serenità nel vivere la vita, come mostra il leggero sorriso della bocca. Particolarmente efficace è la resa estetica del soggetto e le componenti psicologiche che trasmette: nobiltà d’animo, risolutezza, intelligenza, candore. Inoltre, nel quadro immaginativo è riuscito a cogliere la varietà attimale dell’istante, si nota la rapidità delle pennellate che non rifiniscono nelle sue forme la figura, con l’obiettivo di cogliere la verità del momento nella sua trascorrenza.

Come Tiziano stesso scrisse in una delle lettere inviate a Ludovico Dolce: “la natura, della cui semplicità son segretario, mi detta ciò che compongo”. La natura è dunque immediatezza del sentire e quindi l’arte deve essere trascrizione immediata e diretta della ‘semplicità della natura’ senza rifinire o calcolare.

Lo scorso mese, l’abito raffigurato nel quadro ha acquisito consistenza materica grazie al corso di sartoria tenutosi a Firenze (il laboratorio è stato promosso da Fondazione CR Firenze e Associazione OMA – Osservatorio dei Mestieri d’Arte- con il patrocinio del Comune di Firenze). Acclamata è stata la donazione della sontuosa veste  al Corteo Storico Fiorentino, la cui  presentazione si è svolta la mattina del 23 marzo, a Spazio NOTA.

La sua realizzazione è stata dettata dall’usurato stato in cui si trovava il precedente abito, destinato alla capogruppo, oltre che essere un’ideale opportunità per attualizzare la veste di oltre trent’anni fa. L’abito non è una copia, ma una rivisitazione fedele dell’originale, che tende ad una maggiore agevolezza, con un tessuto traspirante e con decorazioni non rimovibili, e ad una maggiore armonia rispetto al resto del Corteo.

Orecchini, ideati dal designer Riccardo Penko
(Fonte: gonews)

Per l’occasione, il designer Riccardo Penko ha progettato gli orecchini in argento dorato, anch’essi su ispirazione di quelli raffigurati nel dipinto. Realizzati completamente a mano, richiamano le antiche tecniche della tradizione orafa fiorentina.

Olivia Scaramuzzi, Consigliera di Fondazione CR Firenze, afferma a riguardo: “La donazione di quest’abito acquista oggi un significato importante di valorizzazione delle tradizioni popolari in un momento in cui la pandemia ha limitato le manifestazioni rievocative che rappresentano il cuore pulsante della memoria storica. Questa iniziativa è stata un’occasione importante di specializzazione sul tema della sartoria che siamo lieti abbia riscontrato un grande interesse. È anche il segnale di un efficace lavoro di squadra fra le varie realtà del territorio per dare opportunità lavorative ai giovani. Siamo infatti consapevoli che il valore del nostro passato unito alla creatività propria delle nuove generazioni riescono a tramandare quella bellezza del fatto a mano che è una delle grandi risorse per la rinascita del Paese”.

Natascha Ferrucci, Capogruppo delle Madonne fiorentine nel Corteo Storico. Nella foto, indossa la veste prodotta a mano dal corso di sartoria della città. (Fonte: gonews)

CORTEO STORICO

Il Corteo Storico Fiorentino è un evento a cui sono molto legati i suoi cittadini. Inizia la sua celebrazione in occasione dei festeggiamenti per il quarto centenario della Partita dell’Assedio. La Partita si svolse il 17 febbraio del 1530, al tempo si festeggiava la ricorrenza del Carnevale, in un momento di grande importanza storica, ovvero l’Assedio militare di Firenze ad opera delle armate di Carlo V.

Epilogo di questo periodo drammatico fu la Battaglia di Gavinana, che si consumò il 3 agosto 1530 presso l’omonimo paese del Pistoiese, determinando la restaurazione dei Medici al governo della città, e la morte di Francesco Ferrucci.

Statua di Francesco Ferrucci (1489-1530) , condottiero della Repubblica di Firenze
(Fonte: wikipedia)

Quest’ultimo oggi viene ricordato come eroe fiorentino e italiano, il quale dedicò la sua vita al servigio della Repubblica di Firenze, e che per essa morì. Oggi rivive tra noi attraverso le numerose commemorazioni che si sono susseguite nei secoli e che ne hanno lasciato ricordo, per esempio, viene citato nella quarta strofa dell’Inno di Mameli:

“Dall’Alpi a Sicilia

Dovunque è Legnano,

Ogn’uom di Ferruccio

Ha il core, ha la mano,

I bimbi d’Italia

Si chiaman Balilla,

Il suon d’ogni squilla

I Vespri suonò”

Inoltre non posso non citare il suo ritratto statuario posto in una delle nicchie che affacciano verso l’Arno nella loggia della Galleria degli Uffizi, vigile e armato mentre mira l’orizzonte più lontano.

Beatrice Carrara

LE NOVITÀ DEL DIDA – UNIFI

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Il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze ha riscontato e ufficializzato un’intesa molto promettente con il Museo delle Terre Nuove. Si tratta di una cooperazione che vedrà i due Enti collaborare su vari fronti: nell’ampliamento della ricerca universitaria e nelle attività museali,  per consentire il progresso della comunità cittadina, trattando anche il tema dello sviluppo urbanistico in un’ottica ecosostenibile. Una sinergia, che avrà durata di tre anni, che guarda al futuro urbanistico e al progresso della ricerca, in poche parole alla salute culturale e infrastrutturale di tutta la comunità.

A riguardo di questa iniziativa entusiasmante, Fabio Franchi, Assessore della cultura del Comune di San Giovanni, afferma alla stampa: “Il Museo delle Terre Nuove ha da sempre una mission molto articolata che lo pone non solo come custode della storia di San Giovanni e delle Terre Nuove, ma anche come centro di riflessione sulla contemporaneità e lo sviluppo delle città. La collaborazione, finalizzata allo studio con il dipartimento di Architettura, rientra proprio in questo ambito e prevede l’organizzazione di iniziative per riflettere sul funzionamento della città, sul significato della pianificazione e sul nuovo volto delle realtà contemporanee, tra sostenibilità e le recenti necessità portate dalla pandemia”.

Oltre all’istituzionalizzazione di questa collaborazione hanno annunciato anche attività parallele, ovvero la partecipazione a progetti firmati MiBACT, ed una rigenerazione urbana a sfondo culturale, che come afferma l’Assessore è: “tema importante e non solo di stretta competenza degli Architetti”.

Insomma, notizia che ci lascia nell’attesa di scoprire quali saranno le novità che investiranno direttamente l’università e la città di Firenze, per ora ne possiamo trarre l’insegnamento che l’unione fa la forza soprattutto quando si parla del bene di tutta la comunità.

 DIPARTIMENTO DI ARCHITETTURA

‘Museo Italia- Allestimento e museografia’ così si intitola il nuovo master di secondo livello annunciato dal DIDA. Corso che ha l’obiettivo di formare figure specializzate nel settore dell’allestimento e della museografia, capaci di operare consapevolmente nell’ambito della valorizzazione del nostro patrimonio culturale materiale, immateriale e paesaggistico fino all’exhibit design di tipo fieristico ed espositivo.

Paolo Zermani, coordinatore del master, richiama a sé Architetti, Ingegneri e Storici dell’Arte in questa partecipazione didattica, della durata di dodici mesi.

Gli ammessi apprenderanno, inoltre, come progettare spazi museali, allestimenti espositivi, e installazioni temporanee e svilupperanno un approccio multidisciplinare al tema della conservazione e fruizione dei beni culturali.

Le candidature per l’ammissione alla prima edizione del master hanno chiuso il 12 febbraio. Ogni anno saranno previste tra gennaio e febbraio l’apertura alle candidature, ma non temere se sei interessato, ho una buona notizia: Il master ha un massimo di trenta posti  (la scelta viene fatta in base ai titoli di studi conseguiti) ma quest’anno, a seguito del notevole numero di candidati, il comitato ordinatore ha deliberato di aumentare i posti disponibili di cinque unità portandoli quindi a trentacinque. Un anno molto fortunato per chi si è candidato, mai dire mai che possa capitare anche l’anno prossimo.

MUSEO DELLE TERRE NUOVE  

Museo delle Terre Nuove sorge nell’antico e cosiddetto Palazzo di “Arnolfo” in piazza Cavour, a San Giovanni Valdarno, Arezzo. L’appellativo del Palazzo si diffonde all’indomani della seconda guerra mondiale, e già dal 1909 era stato dichiarato monumento nazionale. Le sale del museo sono allestite negli spazi che tra il XIII e XIV secolo erano adibite all’amministrazione della giustizia e allo stoccaggio dei cereali. Dunque, una fonte di vita essenziale per l’intera popolazione di San Giovanni Valdarno. Lo sapevano bene i rappresentanti fiorentini più in vista del tempo, che affissero i loro stemmi familiari sul paramento murario, determinando così un trionfo di elementi araldici sul fronte, che conferisce una valenza plastica, oltre che memoriale alla struttura architettonica.

Il Museo delle Terre Nuove ultimamente è ricco di iniziative che ci mediano telematicamente la loro passione per la cultura e la ricerca. Il sito web del museo è ottimo per rimanere aggiornati sulle numerose conferenze e le novità museali.

 A proposito di ciò vi consiglio Venerdì 23 Aprile, alle ore 17.30, di seguire la conferenza a cura di Michel Feuillet che interesserà l’Annunciazione di San Giovanni Valdarno dipinta dal celebre pittore Beato Angelico negli anni ‘30 del 400.

E’ possibile seguirla in streaming sulla pagina Facebook del Museo Basilica S. Maria delle Grazie.

Beatrice Carrara