Saragat, l’unità nazionale

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In tempi di elezioni del Quirinale non potevo far altro che approfondire un episodio del passato emblematico su ciò che rappresenta e dovrebbe rappresentare il Presidente della Repubblica.

Come recita la prima parte del primo comma dell’articolo 87 della costituzione italiana: “ Il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale”.

Da ciò evinciamo chiaramente qual è lo scopo principale della prima carica dello stato: promuovere coesione e l’unità nazionale.

Elemento, quest’ultimo, tutt’altro che scontato in uno stato di recente creazione e scarsa coscienza nazionale come l’Italia.

Un paese, quello dello stivale, così poco patriottico necessita chiaramente di un ruolo che, per assurdo, sia volto a garantire la sopravvivenza stessa della nazione.

Colui o colei (anche se per adesso il glass ceiling di una donna presidente non si è ancora “rotto”) preposto a questo incarico “unionista” è appunto il Presidente della Repubblica.

Effettivamente può sembrare, messa così, mera retorica. Quindi per dare un’immagine maggiormente calzante vorrei citarvi un evento drammatico in cui veramente il PdR ha rappresentato l’Italia tutta nella sua interezza.  L’occhio cade inevitabilmente sulla nostra Firenze, in particolare a quei giorni dal 3 al 6 novembre del 1966, l’alluvione magistralmente raccontata da Luciano Bausi nel libro Il giorno della piena  .

L’evento fu traumatico non solo per la città toscana e i suoi dintorni ma per tutta Italia. L’esondazione dell’Arno provocò infatti ben 35 morti e danni ingenti al patrimonio artistico cittadino (i magazzini della Biblioteca Nazionale allagati, il Crocifisso di Cimabue,…) .

Firenze, disastrata, vide l’arrivo dell’allora Presidente Giuseppe Saragat, già segretario del partito socialdemocratico (PSDI), ministro degli affari esteri e Presidente dell’Assemblea Costituente fino al febbraio 1947.

In carica dal 1964, Saragat arrivò ,come riporta la stessa Biblioteca Nazionale, addirittura prima dei soccorsi a bordo di un fuoristrada. Non mancarono certo le contestazioni ma il suo arrivo rese l’idea a milioni di italiani di ciò che stava accadendo a Firenze e dell’enorme e disperato bisogno di aiuto che necessitava. Aiuto poi ampiamente ottenuto e chissà, forse anche per merito di un Presidente molto propenso anche in altri disastri a muoversi in prima persona (Belice, Vajont).

In momenti così difficili della storia nazionale la figura del capo dello Stato esce dalla sua immagine ovattata e lontana dal Paese reale. Il PdR scende direttamente sul campo e in quell’istante cessa di essere soltanto il Presidente della Repubblica italiana, diventando la Repubblica italiana stessa. Attorno a lui si ripongono speranze, frustrazioni, gioie e dolori di tutto un popolo. 

La prima carica dello stato formalmente è dunque solo simbolica (non mancano però le eccezioni di presidenti con purtroppo derive presidenzialiste) . Ma quel simbolo per un’Italia quanto mai dimentica di un passato comune, pessimista totale e inconsolabile verso il futuro, è oggi come ieri e domani quanto mai necessario.

Andrea Manetti

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La monumentomania

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La politica da sempre tenta di essere onnipresente nella vita di ciascuno di noi, che sia per il consenso,l’obbedienza o anche la mera notorietà di un singolo.

Dall’educazione ai media, ogni contesto e strumento è buono per propaganda favorevole o contraria ad un politico, autoritario o democratico che sia.

Detto questo proviamo ad immaginarci i luoghi in cui trascorriamo gran parte del nostro tempo.  Posti apparentemente anonimi,come vie,piazze o generalmente edifici. Dove passiamo casualmente senza pensare che lì si è consumata, affinché quella via o parco abbia quel preciso nome, una vera e propria battaglia politica.

Insomma, tutto ciò che anima l’identità di una città o di un paese viene o può essere plasmato dai politici. 

Toponomastica e odonomastica,ovvero il dare nomi agli spazi urbani, non sono quindi solo pratiche onorifiche ma veri e propri messaggi propagandistici alla cittadinanza da parte della giunta comunale  comunale del momento verso una precisa ideologia o un preciso precetto.

Una città quindi può dirci mediante i luoghi che esprime quale maggioranza politica vi sia al momento.

Pensiamo per esempio a Firenze , quando passiamo per Via Vittorio Emanuele II o per il liceo Antonio Gramsci.. 

Ogni città è dunque intrisa nella politica fin dalle sue fondamenta.. e chissà forse leggendo queste poche righe potreste iniziare a vedere le vostre città con altri occhi!

Andrea Manetti

Giovanni Spadolini: un fiorentino

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Il giornalismo vieta a Spadolini di perder di vista la storia, la cronaca, e di fornicare soltanto coi morti. A Roma è popolarissimo specialmente fra i portieri e i bidelli dei ministeri che frequenta. Essi non sanno chi sia quel signore giovane, ma già imponente e autorevole, con cui De Gasperi suole intrattenersi in lunghi e cordiali colloqui; ma fiutano in lui, nella sua borsa di cuoio gonfia di misteriosi documenti, nel suo grave portamento, nella sua composta discrezione, nella stessa foggia dei suoi abiti ispirata più a decoro che a eleganza, l’erede naturale, anche se tutt’ora acerbo d’anni, di quei Servitori della Cosa Pubblica di cui, con Giolitti, s’è perso il seme”  così uno dei più grandi giornalisti italiani del Novecento, I. Montanelli nel 1952 diceva dell’amico Giovanni Spadolini.   Amicizia e stima che i due avranno reciprocamente per tutta la vita.

Spadolini nacque a Firenze il 21 giugno del 1925. Frequenta la scuola elementare degli Scolopi in via Cavour nella quale subito si distinse per la scrittura in quarta elementare del suo primo libro che raccontava la storia d’Italia da Barbarossa a Mussolini.

Di quell’anno scolastico grazie alla Fondazione Spadolini Nuova Antologia abbiamo anche la sua pagella tuttavia non molto brillante. 

Frequenta il liceo Galileo sempre in via Cavour, odonomastica che segnala una interessante coincidenza col Risorgimento, passione che lo accompagnerà per tutta la vita rendendolo uno dei suoi massimi esperti.  

Nel periodo liceale scrive e diffonde tra i suoi amici un suo giornale scritto a macchina intitolato Il mio pensiero .

A soli 24 anni diventa collaboratore per Il Mondo di Mario Pannunzio, una delle riviste più anticonformiste del tempo. Nel 1950 cura gli affari interni presso l’appena fondato settimanale Epoca .

Successivamente scrive anche sulla terza pagina, pagina culturale tipica dei giornali italiani novecenteschi, del noto quotidiano romano Il Messaggero diretto da Mario Missiroli.

Come riporta il libro Giovanni Spadolini. Quasi una biografia scritto dal già professore Unifi Cosimo Ceccuti, allievo considerato quasi come un figlio da Spadolini e curato dal docente universitario della Cesare Alfieri Gabriele Paolini Spadolini diventa direttore del Resto del Carlino nel 1955 e lo rimane per ben 13 anni raddoppiandone la tiratura ed estendendone le redazioni locali. Successivamente alla luce degli eccellenti traguardi raggiunti sarà anche direttore del più grande giornale italiano Il Corriere della Sera , incarico che mantiene dal 1968 al 1972. Incarico che lascia su decisione unilaterale della proprietà di via Solferino.

Spadolini tuttavia non era solo un giornalista ma aveva tre anime: quella del giornalista, dello storico e del politico.

Nel 1950 infatti insieme all’attvità giornalistica viene incaricato alla docenza della facoltà di Scienze poltiche di Firenze di Storia contemporanea,materia che contribuisce a creare. 

Spadolini politico

Dopo anni da docente universitario e giornalista molto attento alla politica estera e interna, molto note le sue posizioni di elogio a De Gasperi ritenuto il responsabile del compimento definitivo del risorgimento con l’accettazone definitiva dei cattolici  dello stato laico unitario, i suo editoriali favorevoli all’europeismo, anticomunisti e intuitivi già negli anni sessanta di una crisi sistemica della Prima repubblica, decide anche lui di lanciarsi nell’agone.

Nel 1972 viene eletto senatore come indipendente nelle fila del Partito Repubblicano Italiano  di Ugo La Malfa , dal Professore (così usavano chiamarlo i suoi allievi più cari) da tempo stimato. Rimase senatore fino al 1994  anno della sua morte, eletto sempre però in Lombardia e non nella sua amata Toscana.

Fonda due anni dopo il Ministero dei Beni culturali e ambientali,ancora esistente. Diverrà il primo presidente del Consiglio non democristiano sia per la sua capacità che per un’esigenza nel paese di cambiamento verso l’egemonia della Democrazia Cristiana.  Bisogno popolare che Spadolini intuì già negli anni sessanta al quale seppe dare ottima risposta facendo arrivare il suo PRI a risultati elettorali record nel 1983 con il 5 % dei suffragi. Stessa intuizione che ebbe successivamente B. Craxi e il suo PSI.

Amico di Giovanni Paolo II col quale era accomunato dalla passione per il Risorgimento. Molto legato anche al regista F. Fellini, al quale a lungo propose invano di candidarsi col Partito Repubblicano e liberale per le elezioni europee.

Presidente del Senato e senatore a vita dal 1991 nominato dall’allora Presidente della Repubblica F. Cossiga.

Muore a Roma il 4 agosto  1994.

Andrea Manetti

L’Antologia, primo esempio fiorentino e italiano di giornalismo moderno

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Le riviste e i giornali iniziarono a fare la loro comparsa nell’Italia preunitaria già ad inizio Ottocento, per non parlare ovviamente delle Gazzette che erano meri bollettini di notizie già in uso nel Cinquecento. Un esempio su tutti fu quello del Conciliatore nato a Milano nel 1818 e subito censurato nel 1819 dall’occupante austriaco per le proprie idee risorgimentali e patriottiche.

Quindi questi periodici si scontravano quotidianamente col rischio di censura. Infatti in un clima repressivo vigente in tutta la penisola gli unici giornali che avevano spazio erano proprio quelli governativi, i quali si occupavano di temi esteri e irrilevanti per la cronaca italiana, fungendo così da arma di distrazione di massa.

In un periodo pertanto non facile per la libera espressione si affermò comunque con molto coraggio l’idea di un commerciante svizzero trasferitosi a Firenze nel 1819: G. P. Viesseux .

L’obiettivo iniziale di Viesseux era quello di portare testate estere a Firenze così da renderle consultabili sia agli stranieri residenti che a chiunque previo pagamento avesse voluto leggerle. Per questo fondò il famoso e ancora oggi attivo Gabinetto Viesseux.

Nel 1821 poi decise di creare una rivista mensile chiamata L’Antologia con sottotitolo “Lettere, scienze e arti” al prezzo di 9 lire toscane.

L’Antologia si ispira a modelli esteri come la britannica Edimburgh Review e inizialmente riporta solo articoli dall’estero traducendoli. Il successo fu immediato, arrivando a vendere anche più di mille copie ad edizione, numero altissimo per l’epoca (le copie però non corrispondono ai reali lettori, infatti una copia acquistata girava tra le mani di molti).

Dopo questi ottimi traguardi il periodico fiorentino passò anche a scrivere articoli originali di proprio pugno. Questi venivano pagati dal direttore, cosa inusuale per i tempi (il giornalismo era una missione più che un lavoro), addirittura venivano retribuiti anche i pezzi che non venivano pubblicati (fatto raro anche oggi), ricevevano dei soldi persino coloro che esplicitamente non volevano alcuna remunerazione perché nobili o benestanti. Il pagamento dei giornalisti rappresenta una innovazione assoluta nel panorama italiano e dell’Europa continentale. Tale beneficio permise a molti intellettuali di formarsi e crescere tra le fila della rivista, su tutti Carlo Cattaneo e Raffaello Lambruschini poi figure di spicco nell’Italia risorgimentale.

Come dovrebbe suggerire il sottotitolo dell’avventura editoriale di Viesseux, gli argomenti trattati erano generalmente attinenti a letteratura, arte e scienza. Tuttavia spesso la rivista celava messaggi politici nascosti (per aggirare la censura) soprattutto a tema risorgimentale. Per esempio moltissimi articoli recensivano opere letterarie o artistiche ma in realtà erano il pretesto per parlare del popolo italiano elogiandolo e incoraggiandolo a rivoltarsi contro gli occupanti stranieri.

Nel 1832 però il progetto avviato 11 anni prima da Viesseux, vera e propria avanguardia politica e giornalistica, venne fatto chiudere dal Granducato di Toscana in seguito a delle pressioni dell’ambasciatore austriaco sul granduca Leopoldo II dovute ad un attacco dell’Antologia contro l’occupazione austriaca del lombardo-veneto.

Viesseux dopo la chiusura si dedicò sempre all’editoria ma fondando e dirigendo giornali meno politici come il Giornale agrario toscano e il tuttora esistente Archivio storico italiano.

Nel 1866, a cinque anni dall’Unità d’Italia rinacque, per volontà di Francesco Protonotari La nuova antologia ancora esistente che ha come modello quella di Viesseux.

Andrea Manetti

PARTITO GIOVANILE LIBERALE

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I liberali dell’Italia prima del fascismo erano notabili che non si interessavano molto delle elezioni e di come prendere voti. Per questo infatti con le progressive estensioni del suffragio elettorale (leggi importanti sono quelle del 1882,del 1891 e del 1912) e quindi con la necessità di fare propaganda attiva e “sporcarsi le mani” nel tentativo di prendere più voti possibile tra le classi popolari, i liberali progressivamente perdono centralità nello scacchiere politico. Ritrovandosi nel 1946 da “partito” di maggioranza prima del regime di Mussolini a un risultato di poco superiore al 6 %.

La necessità di strutturarsi e farsi partito di massa era stata trascurata da quasi tutti i liberali in quegli anni, anche dai più lungimiranti come G. Giolitti.

Qualcuno però già aveva colto questa tendenza di sostituzione della classe politica: Giovanni Borelli.

Borelli nasce nel 1867 nel modenese, nel 1896 dopo varie esperienze giornalistiche approda al Corriere della Sera.  Si interessa subito di politica fondando una rivista teorico-culturale chiamata L’Idea Liberale .

Nel 1898 si assiste alla “crisi di fine secolo” ovvero moti di insurrezione in tutta la penisola contro l’incapacità dei liberali di rispondere alle esigenze di classi sociali svantaggiate. Borelli vedendo quanto accade e la risposta  solo repressiva adottata dal governo liberale allora in carica (gov. Pelloux) si allontana dal mondo liberal-moderato perdendo il posto anche al Corriere in quel tempo filogovernativo. 

Alla radice di questo allontanamento vi è un’esigenza che il giovane giornalista sente impellente: rinnovare il mondo liberale,dotandolo di strutture simili a quelle dei partiti di massa che stavano minacciando l’ordine costituito (all’epoca principalmente il Partito Socialista, nato a livello nazionale nel 1892 e quello Repubblicano nato nel 1895).

 Borelli inizia la sua attività politica proprio così,da outsider sia del mondo liberale classico che del mondo socialista. L’obiettivo che si prefigura è creare un partito liberale al passo coi tempi,mantenendo i valori di fondo liberali per proiettarli nel futuro dinamicamente, ma per farlo ha bisogno di militanti e di associazioni che incidano sul territorio.

Avvia così accordi con varie associazioni giovanili liberali come p. es. l’Associazione Liberale Monarchica fra i Giovani di Firenze .

Grazie alla propria rivista L’Idea liberale che diventa organo politico di propaganda e alle idee innovatrici molto condivise dai giovani, nel 1899 si costituisce il primo comitato esecutivo di tutte le Associazioni liberali aderenti con lo scopo di redigere un manifesto politico.

Manifesto che prevedeva la necessità di conservare le istituzioni liberali (Monarchia,Statuto Albertino,ecc) ma di rinnovarsi da un punto di vista partitico e sociale (riforme sociali per i meno abbienti).

Creare un partito coerente e disciplinato che aggreghi la borghesia in opposizione a papisti che minacciavano le libertà politiche e a socialisti contro le libertà economiche.

Questa svolta dei giovani fu subito osteggiata dal vecchio mondo liberale. Il giornale dei liberali toscani La Nazione definì questi giovani liberali “ambizioselli precoci” che porteranno solo “scissure in seno al partito”.

Nel 1901 nonostante le critiche e gli attacchi il Partito Giovanile Liberale tiene il suo primo congresso a Firenze

Il programma del partito si esprimeva su vari punti di attualità: 

    -intransigenza programmatica contrapposta all’individualità liberale (partito vs notabilato)

    -attivismo dal basso (creare una “democrazia d’azione”)

    -superare il sistema elettorale maggioritario (collegi uninominali) adottando il proporzionale

    -partecipare a comizi,educare le masse lavoratrici e fondare periodici e giornali di partito

Al primo congresso aderiscono circa 110 associazioni principalmente del centro-nord:  48 al centro di cui ben 14 a Firenze,numero più alto di aderenti che la renderanno la roccaforte del Partito. Solo 5 associazioni al Sud.

Fallimento del progetto

Il progetto di Borelli tuttavia non decolla non solo per la sua inconsistenza al Sud. I principali giornali liberali infatti ignorano in un  primo momento questo partito,tranne come già detto quelli toscani che lo attaccano,dato il maggior peso politico del partito su Firenze. Poi lo attaccheranno anche gli altri giornali nazionali quando alle suppletive di Milano del 1902 Borelli candidandosi in un collegio molto conteso tra liberali e socialisti spacca l’elettorato facendo vincere Turati,leader socialista che entra così in Parlamento.

Emarginato dal mondo liberale e dalla stampa che lo accusa di favorire “i rossi”,anche la massoneria si schiererà contro il nuovo progetto ritenendosi attaccata da Borelli che più di una volta l’aveva definita clientelare e pericolosa. 

Anche l’ipotesi di alleanza con i radicali salta dopo che Borelli li aveva definiti notabilari.

Nelle varie tornate elettorali il Partito Giovanile Liberale non elegge mai nessun deputato .

Neanche a Firenze Borelli riesce a farsi eleggere alle suppletive del 1901, Tuttavia in quest’occasione si distingue per enorme qualità dialettica all’interno del partito Aldemiro Campodonico,poi esponenete storico del nazionalismo toscano, che lo stesso d’Annunzio nota con piacere. Il Vate definirà i “i borelliani” come Vagellanti ,crasi tra flagellanti (ritenuti così dal poeta perché visti come fustigatori del vecchio mondo liberale) e Via dei Vagellai nel centro storico fiorentino (tra via De’Benci e Piazza Mentana) in cui era ubicata la sede del partito. 

Col passare del tempo il Partito perde gradualmente forza e vigore,frammentandosi e gradualmente tornando nelle fila del vecchio mondo liberale. 

Dopo la disfatta alle politiche del 1913,nel 1914 il partito si scioglie definitivamente.

Così nonostante fosse anticipatore dei tempi,innovatore e pieno di giovani ambiziosi e intellettuali non decolla e fallisce miseramente il progetto di rinnovamento anche storico che si era prefissato. La notorietà data  loro da d’Annunzio non è che una magra consolazione.

Andrea Manetti

NON SOLO PARTIGIANI: UN FASCISTA ALLA CESARE ALFIERI

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Come sapete la scuola Cesare Alfieri di Firenze ha visto transitare tra le proprie aule esponenti importanti della Resistenza italiana e poi della Prima Repubblica, uomini come Sandro Pertini già Capo di Stato ed esponente di spicco della lotta partigiana. 

In un consueto discorso di fine anno (discorso del 1979) che il Presidente della Repubblica è solito fare agli italiani, Pertini, presidente dal 1978 al 1985, affermò: “Dietro ogni articolo della Carta Costituzionale stanno centinaia di giovani morti nella Resistenza. Quindi la Repubblica è una conquista nostra e dobbiamo difenderla, costi quel che costi.”; frase forte che tiene ancora vivo il tremendo ricordo del regime fascista che il Presidente (così veniva chiamato) aveva contribuito a sconfiggere. 

Proprio negli stessi anni in cui Pertini frequenta l’ateneo fiorentino anche Alessandro Pavolini si apprestava a dare gli esami nella stessa facoltà. Entrambi infatti iniziavano il percorso universitario proprio negli anni Venti del secolo scorso. Una coincidenza curiosa che esprime due anime diverse di un’Italia che proprio qualche giorno fa ha celebrato il 25 aprile, festa di liberazione da un regime e soprattutto da una guerra civile che idealmente coinvolge proprio queste due persone che hanno popolato e sicuramente arricchito nel bene o nel male il nostro Ateneo.

Ma vediamo chi è Pavolini nello specifico.

Alessandro Pavolini nasce a Firenze nel 1903, figlio di Margherita Cantagalli e di Paolo Emilio Pavolini. Il padre è stato un celebre filologo e traduttore, docente di sanscrito, la lingua ufficiale dell’India, presso la Facoltà di lettere dell’Università di Firenze.

Il futuro gerarca, durante gli studi presso l’Istituto di Studi Superiori Cesare Alfieri, poi Università dal 1924, dove si laurea in scienze politiche e giurisprudenza, si interessa fin da subito alla politica e al giornalismo.

Nel 1920 infatti si iscrive ai Fasci di combattimento della sezione fiorentina, movimento fondato da B. Mussolini a Milano l’anno precedente. Diventando elemento centrale di una milizia tra le più sanguinarie della Toscana.

Nell’ottobre del 1922 partecipa alla Marcia su Roma. Mobilitazione che spinge il re d’Italia Vittorio Emanuele III a nominare Mussolini quale capo del governo. 

Il fascismo si consolida divenendo sempre più totalitarismo, e con il suo consolidarsi si fa strada anche Pavolini.

Nel 1924 partecipa alla contestazione del docente antifascista Gaetano Salvemini all’Unifi.

Dopo anni trascorsi da giornalista presso varie riviste di area fascista come Solaria e Critica fascista diventa federale di Firenze nel 1929, incarico che durante il fascismo era equiparabile al ruolo di sindaco, incarico che ebbe fino al 1934.

Dopo essere stato deputato dal 1934 al 1939 (ruolo svuotato di importanza), ottenne il suo incarico più prestigioso divenendo Ministro della Cultura Popolare. Dicastero fondamentale perché considerato realizzatore della “rivoluzione fascista”, ovvero una sorta di indottrinamento delle masse alle idee e ai costumi fascisti.

Dopo l’8 settembre del 1943 con l’armistizio dell’Italia badogliana Pavolini, gerarca tra i più intransigenti e violenti, si schiera immediatamente al fianco dei nazisti fondando le brigate nere, milizie incaricate di reprimere in ogni modo gli antifascisti che combattevano al centro-nord contro l’invasore tedesco.

Il 12 aprile del 1945, catturato a Dongo in provincia di Como dopo essere processato dal CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) per collaborazionismo col nemico, viene fucilato.

Una figura controversa

Esistono molti chiaroscuro di questo personaggio e Firenze ne è ancora influenzata. Basti pensare che fu lui a favorire e ad inaugurare una serie di realtà ancora oggi fondamentali per il capoluogo toscano, come l’autostrada Firenze-Mare, la Stazione di Santa Maria Novella, lo stadio Artemio Franchi (all’epoca chiamato Giovanni Berta) e infine l’istituzione del Maggio Musicale fiorentino.

Tuttavia Pavolini non è stato solo questo e non sarebbe giusto ricordarlo solo per questo.

Con le sue azioni infatti si è macchiato di una serie di crimini, spesso anche ai danni di innocenti. Pensiamo ai franchi tiratori su Firenze che il gerarca fiorentino dispose per vendicarsi sui cittadini fiorentini festanti per la propria città che si apprestava ad essere liberata. Non scordiamoci neanche le imposizioni e le minacce a chi non prendeva una tessera del partito fascista nei suoi anni di amministrazione cittadina e il sogno di Pavolini all’indomani del delitto Matteotti di annientare ogni opposizione residua ben più duramente e velocemente di quanto poi sia stato fatto effettivamente. 

“Alla più perfetta delle dittature preferirò sempre la più imperfetta delle democrazie”, e anche se il fascismo di perfetto non aveva niente così voglio concludere il mio articolo con questa frase parte del discorso già citato del Presidente Pertini.

Andrea Manetti

LE TIPOLOGIE DI PARTITI POLITICI: DA WEBER A SARTORI

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In vista delle elezioni universitarie che si terranno a maggio e che vedono numerosi schieramenti politici afferenti a tradizioni di cultura politica differente, ho ritenuto potesse sembrare interessante analizzare le classificazioni fatte da vari scienziati politici, tra cui Giovanni Sartori, già docente all’Unifi, sulle varie tipologie di partiti politici e di sistemi politici.  

I partiti per Max Weber 

Il sociologo e politologo tedesco M. Weber ha proposto per primo un’analisi sull’evoluzione dei partiti nel tempo, ancora oggi valida e che ci permette di capirne le strutture e le origini storiche. Approfondire questa prima classificazione ci permetterà di comprendere meglio quelle successive dato che si rifanno, almeno in parte, ad essa. Questo studio si fonda su una distinzione tra due tipi di partito e la loro struttura: il partito di notabili e il partito di massa.

Il partito di notabili è il tipico partito del XIX secolo, il primo periodo storico che vide la presenza dei partiti politici, grazie alle prime elezioni moderne che avvennero in tutta Europa. Questo partito quindi è la prima vera forma politico-partitica contemporanea. Gli uomini che compongono questo partito, il personale di partito, sono i notabili, ovvero coloro che in virtù della propria condizione economica possono impegnarsi a tempo pieno e a proprie spese nel creare e nel dirigere un partito.  Questi essendo dotati di risorse autonome non svolgono la politica come professione, e non percepiscono quindi nessuna indennità (stipendio) se eletti in Parlamento. Sono infatti partiti composti da nobili, proprietari terrieri, grandi borghesi o avvocati, medici, notai particolarmente benestanti.

La politica non viene vista come una professione ma come possibilità di tutela dei propri interessi economici, ciò che noi oggi definiremmo lobbying. La loro attività è saltuaria e legata alle campagne elettorali, durante le quali si formano comitati elettorali che poi scompaiono a elezioni concluse. Elezioni assolutamente ristrette perché vedono pochi candidati sfidanti e poche persone con diritto di voto (ad esempio, in Italia fino al 1882 potevano votare solo il 2% dei soli cittadini maschi; alle donne rimase interdetto fino al 1946).

Il notabile non era eletto per le proprie idee ma per la dimensione clientelare che era riuscito a creare sul territorio, e per la propria deferenza, ovvero per la classe sociale a cui apparteneva, elementi visti come una garanzia da parte degli elettori: se un candidato era un proprietario terriero toscano veniva votato non tanto per le proprie idee ma perché rappresentante di quella classe (latifondisti) e di quel territorio (Toscana).

Il partito di massa è invece la forma partitica tipica del Novecento. Weber la osserva poco perché morirà nel 1920, tuttavia riesce a coglierne plasticamente struttura e organizzazione. Questa forma di partito si dota di politici di professione come personale, i quali vivono di e per la politica, appartenenti a tutte le classi sociali e votati per la loro ideologia. Chi viene eletto, in questo caso, percepirà uno stipendio e tenderà a fare gli interessi di chi lo ha votato e non della categoria economica che esprime. Il politico è quindi un delegato del popolo, almeno in teoria.

Il partito di massa inoltre si struttura su tutto il territorio in maniera permanente, rimanendo attivo anche in momenti privi di elezioni.  Con i progressivi allargamenti di suffragio elettorale, arrivando infine quello universale, il partito di massa ha sostituito il partito di notabili, incapace nella struttura di poter parlare a tutto il popolo.

Le strutture organizzative dei partiti

Maurice Duverger, politologo francese, approfondisce l’analisi condotta da Weber attualizzandola. Nel suo studio suddivide i partiti in quattro categorie sulla base dell’ideologia, delle risorse e del tipo di struttura: il partito liberale, il partito socialista, il partito comunista e il partito fascista. Il partito liberale (dei notabili per Weber) si organizza in comitati elettorali formati da un piccolo nucleo di persone, circa 10 o 15, appartenenti a classi sociali elevate.

Vi si aderisce per cooptazione all’interno di circoli borghesi classici. La struttura di cui si dotano è informale, che tende quindi a dileguarsi a elezioni finite.  La loro principale risorsa da spendere in campagna elettorale è il prestigio sociale dei notabili.  Il partito socialista invece si dota di sezioni composte dalle masse popolari. L’adesione in questo caso è formale, prevede dunque un tesseramento

La struttura è burocratica, e tende quindi a radicarsi a livello territoriale con regole precise e complesse. La loro principale risorsa è l’attivismo dei militanti. Per queste caratteristiche è stato definito un partito burocratico di massa.  Il partito comunista possiede varie cellule che generalmente si sviluppano nelle fabbriche (luogo di adesione privilegiato). Queste sono composte da circa 30 membri e prevedono un inquadramento permanente all’interno del partito, ovvero che accompagna il membro per tutta la sua vita, “dalla culla alla tomba” (definito per questo partito di integrazione).

La sua struttura, sempre secondo Duverger, è totalizzante. La principale risorsa è la partecipazione comunitaria dei membri. Il partito fascista si radica sul territorio attraverso milizie ovvero piccoli gruppi di persone reclutati su base militare. Si fonda su principi di gerarchia e fedeltà.

I sistemi politici secondo Sartori

Giovanni Sartori, uno degli scienziati politici più conosciuti e brillanti sul panorama italiano ed internazionale, nonché professore di lunga data alla “Cesare Alfieri” di Firenze, alla luce delle definizioni precedenti (Weber, Duverger) elabora varie tipologie di sistemi politici. Per sistema politico si intende il contesto nel quale uno o più partiti operano. Un sistema politico può essere monopartitico o multipartitico e può essere caratterizzato da un’elevata polarizzazione ideologica (estremismo) o da moderazione.

I regimi monopartitici sono di tre tipologie: a partito singolo, dove un solo partito è legale; a partito egemonico, quando esistono più partiti ma satelliti del più grande; e infine a partito predominante, dove sono presenti più partiti legali e in competizione tra loro senza riuscire però per lungo tempo a spodestare quello al comando.

Nei regimi multipartitici rientrano invece i bipartitismi: solo due partiti hanno le capacità di conquistare la maggioranza dei seggi. La competizione è verso il centro dove si trovano gli elettori più indecisi. Questo è il modello tipico dei paesi anglosassoni (partito conservatore vs. partito progressista/laburista) e che predilige una moderazione ideologica. Sempre in questa categoria rientrano i sistemi multipartitici moderati: con 5 partiti forti che vedono moderazione ideologica e governi di coalizione. Tutti i partiti sono orientati ad andare al governo. 

Il multipartitismo segmentato è semplicemente il multipartitismo moderato con più di cinque partiti rilevanti. Può esistere invece il multipartitismo polarizzato anche detto pluralismo polarizzato. Questo vede la presenza di 5 o più partiti tra cui partiti antisistema spesso inconciliabili  tra loro e addirittura con il sistema democratico stesso (opposizioni bilaterali). In questo sistema generalmente governa sempre una coalizione di partiti moderati per un senso di responsabilità democratica rispetto alla presenza di opposizioni irresponsabili.

Quest’ultimo è il caso tipico dell’Italia della Prima Repubblica, che vedeva una convergenza di partiti al centro, i quali governavano ininterrottamente (Democrazia Cristiana e centristi), e all’opposizione Movimento Sociale Italiano (eredi del fascismo) e Partito Comunista Italiano, i due partiti antisistema rispettivamente di destra e sinistra più forti dell’Europa Occidentale del secondo Novecento.

Andrea Manetti

IL RUOLO DEGLI STUDENTI UNIVERSITARI NELL’INTERVENTO NELLA GRANDE GUERRA

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Siamo a Firenze: è l’agosto del 1914. La Prima Guerra Mondiale è cominciata e vede subito contrapporsi gli imperi dell’Alleanza (Germania, Austria-Ungheria, Impero Ottomano) alle forze della Triplice Intesa. L’Italia indugia e per il momento sceglie la neutralità. La maggioranza del Paese è, infatti, contraria all’intervento: dai liberali ai socialisti passando per i cattolici. Si ritiene, infatti, che la guerra sia troppo costosa e lunga, inadatta ad un paese ancora di giovane unificazione. Dalla parte dell’intervento in guerra ci sono gli universitari, specialmente quelli fiorentini. Loro sono giovani e ardenti di voglia di combattere, vogliono completare il Risorgimento annettendo le Terre irredente (Trento,Trieste,Gorizia ecc) . Molti di loro hanno assistito alla Guerra di Libia, appena tenutasi, che l’Italia ha appena vinto, conquistando la Cirenaica e la Tripolitania. Quasi nessuno degli studenti universitari, però, quella guerra l’ha fatta in quanto troppo giovani e non obbligati ad arruolarsi. Ancora meno ricordano le Guerre di Indipendenza che hanno portato grandi territori all’Italia.

Le guerre prima erano state piuttosto brevi e fatte di poche  battaglie. Non si poteva immaginare cosa sarebbe accaduto poi: l’orrore della trincea,la fame, i traumi, le malattie ma sopratutto i morti. Gli universitari, influenzati dal Futurismo, vedevano la guerra come un compimento di una storia: l’affermazione dell’Italia a livello internazionale, insomma, la guerra come “igiene del mondo”. In quei mesi, l’unico partito per il momento favorevole all’intervento era l’Associazione Nazionalista Italiana, che cresceva esponenzialmente. Soprattutto in Toscana, dove aveva già vinto alle elezioni del 1913 qualche collegio. Firenze è la base del partito: nei salotti fiorentini non si fa che infuocare il dibattito animato da universitari e intellettuali di entrambi gli schieramenti (neutralisti ed interventisti). Dibattiti che spesso finivano con le celebri “scazzottate futuriste”, insomma, delle vere e proprie risse. I nazionalisti, specie toscani, crebbero molto velocemente grazie alla mobilitazione dei giovani e della potenza mediatica che avevano. Molti studenti, infatti, iniziarono a collaborare per varie riviste, sopratutto fiorentine, profondamente interventiste e guidate da intellettuali molto influenti.

Riviste come La Voce,fondata a Firenze nel 1908 da Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini (quest’ultimo però poi si pentì della propria posizione interventista),videro una grande crescita di lettori e collaboratori proprio in quel periodo. Degne di nota poi furono anche Lacerbae Il Regno. Gli universitari, quindi con le loro collaborazioni e l’attivismo, furono i principali motori del Nazionalismo Italiano e del conseguente ingresso in Guerra dell’Italia.  Le loro mobilitazioni, culminate con le “radiose giornate” del maggio 1915, ebbero buoni frutti perché spinsero il Presidente del Consiglio A. Salandra e il Ministro degli Esteri S. Sonnino ad entrare in guerra al fianco dell’Intesa, convinti dal mito della <<guerra lampo>> e della possibilità risolutiva dell’Italia come ago della bilancia in una guerra che sembrava essersi impantanata. Quindi l’entrata dell’Italia nella Grande Guerra è avvenuta anche grazie al contributo degli studenti universitari specie dell’Ateneo fiorentino. Gli stessi che poi l’hanno anche combattuta. Sempre ammesso che in una guerra si possa veramente stabilire chi vinca o chi perda.

Andrea Manetti

LE RIVOLTE CENTRIFUGHE IN ITALIA

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In una recente lezione del corso “Storia dei partiti e dei movimenti politici” tenuto dal docente Gabriele Paolini per la “Cesare Alfieri” di Firenze,abbiamo avuto modo di trattare il tema del brigantaggio postunitario.

Il brigantaggio è un fenomeno storico e politico corrispondente al solo meridione italiano e avvenuto nel decennio successivo all’unificazione italiana,terminato con la completa cessazione dello stesso nel 1870 dopo numerosi scontri tra il regio esercito e bande di contadini,briganti generici e vagabondi principalmente tra Basilicata e Calabria.

Il brigantaggio meridionale non è qualcosa di strutturato o di uniforme ma varia da banda a banda sia per l’intensità dello scontro che per le tipicità delle varie bande. Ognuna di queste guidata da una figura carismatica: il più famoso fu sicuramente Carmine Crocco Donatelli molto influente nel Vulture,in Basilicata.

Il fenomeno riscosse immediatamente enorme preoccupazione dello stato centrale,tanto che si decise di disporre una commissione parlamentare d’inchiesta,la prima nella storia d’Italia,nel 1862, per comprendere meglio le origini del fenomeno e come contrastarlo e dopo circa un anno di studio si optò per una repressione molto cruenta e talvolta sommaria.

Il banditismo postunitario infatti ebbe molto seguito tra i più emarginati del sud Italia ma sopratutto dalla precedente elite borbonica che governava su quei territori prima dell’unificazione (Regno delle due Sicilie). I Borbone stessi o almeno alcuni,esautorati da ogni potere nella penisola,incoraggiarono e finanziarono questo fenomeno centrifugo.

Ma perché centrifugo? Il termine chiaramente a prima vista potrebbe ricordare lo strumento per la frutta che molti di noi possiedono nelle loro case,tuttavia per la tristezza degli appassionati di elettrodomestici non stiamo parlando di ciò.

 In scienza politica infatti ci si riferisce con forza centrifuga,come suggerisce il termine, ad una fuga verso il centro,una reazione locale conseguente ad un eccessivo,repentino e penalizzante accentramento di potere. L’opposto della forza centripeta ovvero verso il centro in seguito ad un eccessivo decentramento.

Il fenomeno del brigantaggio rientra pienamente in una reazione locale ad un accentramento rapido ed eccessivo quale quello dell’Italia risorgimentale. L’ingresso infatti del Regno borbonico nel Regno d’Italia non fu assolutamente un’azione bilaterale come invece avvenne in altre regioni italiane. Il meridione ancora legato ad un’economia preindustriale e con nessuna presenza amministrativa sul territorio,con tassi di analfabetismo tra i più alti d’Europa,viene annesso mediante varie battaglie e scarso consenso popolare. Oltre questo bisogna ricordare che la politica dell’Italia liberale anche dopo l’unità trascurerà per molto tempo le istanze meridionali,privilegiando investimenti al centro nord.  Basti pensare che il primo Presidente del Consiglio dei ministri meridionale fu Francesco Crispi,che era siciliano,a distanza di quasi trent’anni dall’unificazione. La goccia che fece traboccare il vaso fu sicuramente l’introduzione della leva obbligatoria  militare,evento mai conosciuto al Sud prima dell’unificazione.

Tutti questi eventi sono indubbiamente scatenanti una reazione contro il centro anche violenta. Tuttavia è bene ricordare che l’unità d’Italia fu voluta anche da molti meridionali per ragioni storiche e culturali e che senza di essa il Sud avrebbe avuto seri deficit sia a livello commerciale,finanziario e industriale rimanendo a livelli di sottosviluppo pari alla Russia zarista del tempo. Tra analfabetismo,economia agricola con tecniche molto antiquate e inefficienti e un rischio concreto di default l’ex regno dei Borbone sarebbe dunque addirittura stato peggio e ancora più povero rispetto al Nord di quanto lo sia oggi a più di 150 anni dall’unificazione.

Il fenomeno di rivolta verso il centro delle periferie rimanendo al contesto italiano non è certamente limitato al solo brigantaggio. Tralasciando le epoche antiche,il Medioevo e i secoli immediatamente successivi caratterizzati da costanti rivolte specialmente contadine. Infatti anche la storia recente si è vista protagonista di tali fenomeni sia violenti e anti sistema che istituzionali e democraticamente legittimi.

Un fenomeno centrifugo violento su tutti ancora attivo e diffuso in tutta la penisola e anche oltre è ovviamente quello della criminalità organizzata (cosa nostra,camorra,ecc) nato proprio in contesti economicamente e socialmente fragili come il già citato Regno delle Due Sicilie,in cui lo stato centrale caratterizzato da clientelismo e immobilismo non riuscì a soddisfare bisogni di determinate aree locali così da vedersi sostituire da fenomeni di natura extrastatale.

Esistono però fenomeni centrifughi in alcun modo connessi alla violenza e al rovesciamento dell’ordine costituito, fermamente democratici. Alcuni esempi pacifici e istituzionali recenti sono sicuramente la nascita,durante la crisi dei partiti della Prima Repubblica (anni Ottanta e Novanta del Novecento), al nord della Lega di U. Bossi in reazione all’inefficienza dell’apparato politico italiano nel garantire all’industria del Nord lo sviluppo richiesto. Mentre al sud,il parito siciliano La Rete (1991) nasceva in risposta all’abbandono dello stato delle aree meridionali,lasciando lo strapotere alla mafia.

Ancora oggi è possibile interpretare l’euroscetticismo come una risposta centrifuga all’Unione Europea.

Andrea Manetti

FOREST SHARING: IL NUOVO PROGETTO INNOVATIVO A TUTELA DEL PATRIMONIO BOSCHIVO ITALIANO

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Forest Sharing è un interessante progetto creato nel 2018 ma già immaginato dal 2016, da, tra gli altri, 5 dottorandi del dipartimento di Scienze Forestali dell’Università di Firenze attraverso la startup innovativa Bluebiloba legata ad Unifi.

Tale progetto si propone di valorizzare il patrimonio boschivo italiano mediante una gestione esperta e partecipe dei boschi affinché questi non cadano in uno stato di abbandono ed incuria a tutela della collettività tutta. Qualsiasi proprietario di un bosco può affidarsi a Forest Sharing per ottimizzare al meglio il suo utilizzo vedendosi assistito da tecnici esperti o addirittura per delegare al progetto stesso la gestione del bosco.

La startup fornisce monitoraggio con droni e analisi con tecniche di remote sensing con un approccio di precision forestry. L’incuria delle nostre foreste non è infatti un problema trascurabile, decine di centinaia sono infatti gli incendi boschivi che ormai affliggono, soprattutto nel periodo estivo, la nostra penisola.

Tale fenomeno è causato ovviamente dal cambiamento climatico ma anche dall’ormai assenza della sempre più rara pulizia e cura dei boschi. In passato soprattutto in montagna la cura della natura era una pratica molto frequente, poi però questo “occhio di riguardo” nei confronti della madre terra pare entrato in disuso.

Proprio quindi per far fronte al problema dell’abbandono dei nostri boschi nasce così il progetto innovativo Forest Sharing che si occupa appunto della cura e della valorizzazione economica dei nostri amati polmoni verdi ovvero gli alberi. Al momento il progetto è attivo in tutta Italia ma la sua base principale di utenza è la Toscana.

Andrea Manetti