Il manifesto: il potere della comunicazione visiva

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Breve Storia del manifesto

Ripercorrere la storia del manifesto ed i suoi elementi dialettici sarebbe impossibile senza nominare il precedente cinese che insieme alle impaginazioni figurate egiziane e Sumere di testi geroglifici costituiscono gli antenati del manifesto.

La storia del manifesto, e della pubblicità in generale, ha origini antichissime: Pompei ad esempio è ricca di testimonianze che rivelano già un linguaggio pubblicitario. Ne sono la prova i reperti strappati alla lava come la colonna ritrovata a Ercolano nel 1897, ancora ricoperta di manifesti scritti su papiro e sovrapposti gli uni sugli altri.

I primi avvisi propriamente detti furono monopolio dello Stato e della Chiesa che quest’ultima usava per la concessione delle indulgenze, mentre lo Stato adoperava come avvisi per il reclutamento dei volontari.

A partire dalla seconda metà dell’Ottocento inizia a formarsi un linguaggio informativo sintetico e psicologicamente suadente: si ha così la trasformazione dell’avviso e dell’editto in manifesto per mezzo dell’abbreviazione dei testi e dell’ingigantimento delle vignette. Seguiranno le prime leggi disciplinanti l’affissione, e sul piano tecnico e strumentale possiamo constatare come l’invenzione della litografia, della cromolitografia ed i primi esperimenti di fotografia a colore siano diventati i mezzi più consoni allo sviluppo di questo mezzo comunicativo.

Data la rarità e l’irreperibilità di molti pezzi, fissare un itinerario dell’evoluzione del manifesto non è impresa facile.

Storia del manifesto

Verso la fine del XIX secolo le arti grafiche si esprimevano soprattutto attraverso la produzione di grandi poster pubblicitari in stile Art Nouveau: questo tipo di arte per il mondo del commercio era spesso seguita da un’unica figura che era insieme artista, designer e architetto, e per questo era fortemente influenzata dalle tendenze del tempo delle belle arti, dell’arte applicata e dell’Arts and Crafts. Durante la Belle Epoque in Francia, le mostre di manifesti proliferarono. Tra i grafici più celebri: Jules Cheret, Toulouse-Lautrec e Alphonse Mucha.



 

Non meno importante fu il caricaturista italiano Leonetto Cappiello,il quale ebbe molto successo a Parigi nei primi anni del Novecento. Cappiello rifiutò il dettaglio dell’Art Nouveau e si concentrò sulla creazione di una semplice immagine, spesso umoristica, che avrebbe immediatamente catturato l’attenzione dello spettatore. Grazie alle officine cromolitografiche è stato possibile lo sviluppo e la diffusione del manifesto in Italia, come la casa editrice italiana di edizioni musicali “Casa Ricordi”, che nel 1885 iniziò a stampare manifesti artistici e pubblicitari. 

Solo all’inizio del XX secolo vennero utilizzate le cosiddette arti grafiche per creare delle immagini aziendali complete. Nel 1907, l’architetto e designer Peter Behrens fu nominato consulente artistico presso la casa tedesca AEG. La nascita di questa nuova disciplina portò alla creazione dell’American Institute of Graphic Art di New York nel 1914, la prima organizzazione fondata appositamente per la promozione di un’arte grafica.

Con la prima guerra mondiale l’importanza del disegno grafico come strumento di propaganda si impose definitivamente. La guerra inaugurò la più grande campagna pubblicitaria mai creata fino al momento, fondamentale per la raccolta di denaro, il reclutamento di soldati e l’incentivazione degli sforzi di volontariato, e la provocazione di sdegno nei confronti del nemico.

Abbiamo tutti presente il poster di chiamata alle armi creato da James Montgomery Flagg con la scritta “I Want You For US Army” e l’immagine dello zio Sam. Dopo la prima guerra mondiale i nuovi movimenti artistici come il futurismo, il costruttivismo e il neoplasticismo ebbero anche loro un profondo impatto sull’evoluzione del disegno grafico e i disegnatori, influenzati da questi impulsi avanguardisti in concomitanza al Bauhaus e al de Stijl, svilupparono un nuovo approccio razionale nei confronti del disegno che comprendeva l’uso di forme geometriche e linee semplici.

Prima e durante la Seconda Guerra Mondiale con la scuola Svizzera, che si basava sull’evoluzione della Bauhaus per creare una forma moderna di disegno grafico, emerse lo stile grafico internazionale, con un’estetica riduttiva che incorpora molti spazi bianchi e si basa sul precetto modernista secondo il quale la forma segue la funzione.

Durante la Seconda Guerra Mondiale i disegnatori grafici producevano poster per la propaganda caratterizzati da purezza formale e economia estetica: venivano fuse insieme immagini e slogan attraverso un messaggio informativo più diretto possibile.

Dagli anni posteriori alla guerra fino alla fine degli anni ‘50 ci fu un aumento dell’uso del design come strumento di marketing che portò a una maggiore specializzazione del settore. La professione del grafico fu riconosciuta non solo come una vocazione all’interno del design ma come settore a parte. Nonostante le tensioni della Guerra Fredda, la fine della Seconda Guerra Mondiale portò ad un incremento delle nascite e alla formazione di una nuova società dei consumi, grazie all’arrivo della televisione, dei viaggi in aereo e dei marchi internazionali. Nel 1958 il teorico della comunicazione Marshall McLuhan intraprese uno studio sulla comunicazione del settore con il libro “The Medium Is the Massage” il cui titolo nasconde il gioco di parole con il termine «mass age»: l’epoca delle masse, alludendo all’appiattimento culturale da parte dei mass-media e al fatto che l’immagine fosse divenuta più importante del contenuto.

Verso la fine degli anni ‘60 le teorie moderniste furono messe in discussione. Una nuova generazione di grafici inizia a sperimentare con creazioni più espressive influenzati dalla Pop Art. La cultura della droga e l’alienazione politica portarono agli apici il ruolo del poster ormai divenuto psichedelico, richiamando le immagini della Optical-Art e delle opere surrealiste. 

Sempre in questi anni il disegno grafico allarga ancora di più il suo campo ai nuovi settori della comunicazione visiva con mezzi quali la televisione e il cinema, sfruttando i grandi cambiamenti avvenuti nella tecnologia e nella stampa fotografica.

Anche negli anni ‘70 il disegno grafico fu collegato al marketing attraverso il linguaggio universale del capitalismo industriale, in un tentativo di competere con maggiore efficacia in un mondo caratterizzato dalla sempre crescente globalizzazione.

Il periodo del new age del design grafico assiste alla nascita di poster in vera e propria antitesi con i precetti della Scuola Svizzera. Viene abbandonato il modernismo e e nasce il movimento punk che è un catalizzatore della nuova visione grafica inglese di quegli anni. Si tratta del New Wave o Swiss Punk Typography con una grafica caratterizzata dallo stile anarchico e aggressivo che cattura l’energia e la rabbia interiore dei giovani. Una nuova ondata di disegnatori post moderni invase l’Olanda e l’America conservando alcuni elementi della scuola svizzera ma capovolgendone gli schemi. Incorporarono al modernismo la fotografia, il cinema e riferimenti culturali eclettici. Questa New Wave adottò al posto dell’oggettività modernista una soggettività post-moderna ispirata ai nuovi mezzi di comunicazione elettronici. (Nel 1976 nasce la multinazionale Apple)

Negli anni ‘80 i grandi brand compresero che un disegno grafico all’avanguardia poteva conferire ai loro prodotti un vantaggio sulla concorrenza, così puntarono ad instillare nel consumatore un senso di appartenenza e a proiettare aspirazioni e desideri contenuti dell’idea che il marchio rappresentava. Attivisti e artisti come il collettivo Gran Fury e Keith Haring sfruttarono il potere del manifesto come strumento di comunicazione di massa e di costruzione della comunità per promuovere la consapevolezza durante la crisi globale dell’AIDS.

Oggi siamo di fronte a un pluralismo espressivo prodotto dalla globalizzazione e dal desiderio di individualismo dei designer. Ed oggi, più che mai sommersi dalle immagini, che i grafici hanno una responsabilità rilevante ed un potere di persuasione che può alterare il punto di vista delle persone riguardo temi importanti. 

È il momento in cui i professionisti di questo settore dovrebbero far leva a favore dell’impegno sociale più che su quello commerciale per rappresentare un cambiamento sociale significativo.

Manifesti a Firenze e dintorni

La fotografa Marialba Russo presenta la mostra Cult Fiction al Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato, mostra visitabile fino al 6 giugno 2021. È esposta per la prima volta la serie fotografica dedicata ai manifesti dei film a luci rosse apparsi nelle strade di Napoli e Aversa.

Marialba Russo documenta e descrive con la sua serie un cinema (“di genere”) quasi tutto al maschile in cui la figura femminile è considerata un oggetto di possesso e la condizione della donna viene rappresentata da manifesti spesso grotteschi dai titoli quasi comici. 

Alla mostra troverete oltre 60 scatti dei poster che tappezzavano i muri italiani negli anni 1978-1980, gli anni dell’apertura delle prime sale cinematografiche specializzate in Italia.

Gli scatti riproducono l’impatto della pubblicità parlando da una parte della spinta alla liberazione sessuale di quegli anni, dall’altra anche di una mercificazione del corpo femminile. Le fotografie documentano La rivoluzione culturale, politica e sociale degli anni Settanta.

Il poster da sempre è portavoce di rivoluzione e mostra la società senza veli: basti pensare alla rappresentazione della donna come quella razzista e xenofoba delle varie etnie nel corso della storia. Il manifesto ritrae infatti uno spaccato antropologico della mentalità delle epoche passate ed analizzandolo possiamo notare come il pensiero collettivo muti nel tempo.

Sempre a tema manifesti e affissioni, a Firenze appaiono per le strade della città manifesti di volti accomunati dalla scritta “fragile” in una mostra diffusa a cielo aperto.

Ci riferiamo ai manifesti di Ache77, stencil artist e serigrafo, per Voce Amica, visibili fino al 15 giugno, opere contemporanee che stimolano la riflessione sui temi della solitudine, l’accoglienza e l’ascolto

Telefono Voce Amica Firenze OdV è un’associazione di volontariato nata a Firenze il 16 ottobre 1963, svolge esclusivamente un servizio di ascolto telefonico in forma completamente anonima, offerto a chiunque senta il desiderio di parlare con qualcuno, perché solo o in situazione di disagio. Il servizio è gratuito e attivo tutti i giorni, festività comprese, dalle 16 alle 6 del mattino seguente al numero 055 2478 666.

Alessia Bicci

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ANTONIA DONI E LE ARTISTE DIMENTICATE DALLA STORIA DELL’ARTE

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Qual è la tua pittrice preferita? Forse stai avendo delle difficoltà e non ti viene in mente nemmeno un nome. Non hai tutti i torti effettivamente… la nostra memoria è affollata di così tanti nomi maschili che sembra non esserci spazio per l’altra metà del genere umano: le donne. E le poche di cui ricordiamo il nome spesso sono note più per la loro biografia tragica o per il loro aspetto fisico piuttosto che per i loro lavori artistici. 

La critica dell’arte stessa, disciplina che dalla fine dell’800 fino agli anni 70 del Novecento ha ignorato, espulso e persino cancellato le testimonianze sulle artiste e sulla loro presenza ottocentesca e novecentesca, facendo calare il sipario anche sui secoli precedenti. La grande cancellazione delle artiste è avvenuta all’inizio del 900 e le ragioni di questa relegazione all’oblio sono da ricercare nella modernità.

Firenze è la culla del rinascimento, questo lo sappiamo bene: libri e musei sono pieni delle opere d’arte che la nostra città ospita e che ha visto dare alla luce ma… solo di uomini!

E invece di pittrici ed artiste ce ne sono eccome. La protagonista di oggi è Antonia Doni

Ma prima, facciamo il quadro della situazione.

Il contesto storico: la donna come parte attiva nel mondo dell’arte

http://www.enteboccaccio.it/s/casa-boccaccio/item/5387
Parigi, Bibliothèque Nationale de France, Fr. 12420, f. 36r. La sibilla Amaltea sfoglia un libro seduta ad un leggio.

Abbiamo già notizie delle prime pittrici greche e romane come Timarete, Kaliypso, Iaia e Eirene. Nel Medioevo invece, gli artisti, sia uomini che donne, raramente erano menzionati personalmente. Erano considerati degli artigiani e sporadicamente firmavano le loro opere. I manoscritti del “De mulieribus claris”, un testo di Giovanni Boccaccio composto nel 1361-62 che descrive le vite di 106 donne dell’Antichità e del Medioevo attraverso i loro vizi e virtù, erano decorati con preziose miniature raffiguranti donne intente a scolpire, cucire, dipingere, scrivere ecc. Le miniature reinterpretano in chiave medievale la figura della donna testimoniando così l’attività artistica femminile del periodo.

Nel Rinascimento, per primi in Italia e nelle Fiandre, i pittori iniziarono ad essere riconosciuti come veri e propri artisti. Ed è in questo periodo che anche le donne cominciarono, a fatica, ad essere riconosciute come tali; sebbene non sappiamo effettivamente quante fossero perché le condizioni erano loro decisamente avverse, ed inoltre il genere femminile è stato dimenticato dalla critica per troppo tempo, quindi ancor meno delle già poche artiste esistenti al tempo sono quelle di cui abbiamo notizie. 

Il pittore, lo scultore erano considerati lavori maschili e per svolgere queste professioni era necessaria una preparazione che richiedeva lo studio della figura umana, copiata dal vero da modelli che abitualmente posavano nudi. E questo era ritenuto decisamente scandaloso per una donna agli occhi degli uomini dell’epoca.

Le donne per secoli non hanno avuto accesso ad una formazione pittorica paragonabile a quella riservata agli uomini, costrette ad una femminilità borghese-aristocratica dipendente e rinchiusa nella dimensione domestica. Basta pensare che fino al 1893 le ragazze non erano ammesse alla scuola di nudo della Royal Academy di Londra. La stessa RA inaspettatamente trova tra i suoi membri fondatori due donne, le pittrici Mary Moser e Angelica Kauffman (1768), le quali ricevevano un trattamento differente rispetto a quello riservato agli uomini. Nel dipinto “The Academicians of the Royal Academy” di Johan Zoffany vi sono ritratti trentaquattro dei primi membri della Royal Academy che si preparano per una lezione di disegno dal vivo con due modelli maschili nudi. In esso Angelica Kauffmann e Mary Moser non sono state raffigurate come gli altri membri partecipanti alla lezione, bensì vengono mostrate sotto forma di ritratti appesi alle pareti poiché sarebbe stato per loro inappropriato trovarsi in quella stanza.

Le donne erano tenute fuori da più di una classe dell’Accademia ed era dato per scontato che non avrebbero avuto alcun ruolo attivo nella gestione dell’istituzione stessa fino a Novecento inoltrato. Il 1860 è stato l’anno in cui venne ammessa la prima studentessa alla Royal Academy, Laura Herford, la quale inviò furbescamente un disegno per l’approvazione nella scuola firmandolo solo con le sue iniziali, e così questo fu accettato prima che qualcuno capisse che era stato realizzato da una donna. Herford fu seguita da altre studentesse, ma furono escluse dalle classi dal vero fino appunto al 1893, ed anche dopo questa data i modelli che posavano per le ragazze dovevano avere i genitali coperti, non mostrandosi mai in nudo integrale. L’ammissione delle donne fu strettamente controllata per assicurare che non superassero il numero degli uomini.

Nella seconda metà dell’Ottocento si vede dunque aumentare la popolazione delle donne artiste. Ufficialmente le donne furono ammesse nel Corpo Accademico dai tempi ben più antichi, ma erano quasi sempre affiancate da padri o mariti artisti, loro maestri e compagni di vita.

Nel XIX secolo però questo incremento dell’attività artistica femminile nel mondo accademico è dovuto a una crescente alfabetizzazione artistica che si svincola dall’apprendimento familiare o parentale, insieme all’aumento di richiesta di partecipazione nelle scuole d’arte da parte delle donne dettata dall’urgenza di ricoprire ruoli superiori, che senza una adeguata istruzione non potevano essere loro assegnati.

Johann Zoffany RA,
The Academicians of the Royal Academy, 1771-1772
Vediamo come in questo dipinto  Mary Moser and Angelica Kauffman  sono rappresentate sulla destra in forma di quadri poiché per loro sarebbe stato disdicevole trovarsi nella stanza insieme ai due modelli nudi.

In Italia le donne sono state ammesse nelle Accademie di Belle Arti con date diverse a seconda delle sedi delle scuole. Ad esempio nel 1897 all’Accademia Albertina di Torino, su centosettantuno iscritti, trentacinque furono le allieve donne. Beh… meglio di niente! Nel tempo, questi numeri saranno destinati ad aumentare. Il problema è che nonostante si registri, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, una cospicua presenza di donne che si dedicano alle arti visive, l’attività artistica femminile continuava a rimanere un fenomeno quasi ignorato, come evidenziato dal diffuso disinteresse della pubblicistica.

https://bibliotecadelledonne.women.it/rivista/la-donna-rivista-quindicinale-illustrata/

All’Accademia di Belle arti di Firenze è stato proibito l’accesso alle donne per lungo tempo, anche quando ormai dal 1869 le leggi italiane concedevano per diritto alle donne l’accesso agli Studi Superiori. Il pittore Giovanni Fattori fu uno degli insegnanti della Sezione femminile della scuola di Disegno di Figura fino al 1907, anno nel quale vennero riunite le classi maschili e femminili.

A Torino, si ha la prima manifestazione artistica internazionale riservata esclusivamente alle donne con le Esposizioni internazionali femminili di Belle Arti del 1910-11 e 1913, mentre all’estero già da tempo esisteva una tradizione in materia. La manifestazione fu organizzata dal primo magazine femminile italiano del Novecento, “La donna” (diretto da soli uomini).

Prima di questo evento ci fu a Firenze l’Esposizione Beatrice, una serie di eventi ed esposizioni dedicati ai festeggiamenti per il seicentenario della morte di Beatrice Portinari, l’amata di Dante Alighieri. Grazie all’iniziativa della poetessa e compositrice musicale Carlotta Ferrari, che per onorare il ricordo di Beatrice organizzò una grande fiera artistica improntata alla valorizzazione della creatività del modo femminile. 

La figura della donna, che tanto piace raffigurare agli artisti, non riveste per secoli il ruolo di raffigurante, e se lo fa, come abbiamo visto, sovente è in una condizione di forzata segretezza. La donna per molto tempo non ha avuto le possibilità e gli strumenti per opporsi al tipo di rappresentazione che la società le ha costruito addosso, non avendo così il diritto di potersi rappresentare da sola e di mostrare la propria visione del mondo. Gli storici italiani hanno continuato a concentrare le proprie attenzioni sulle figure maschili, che sebbene necessitino le attenzioni che da sempre abbiamo loro dedicato, riportano solo un quadro parziale del mondo e dell’arte.

Antonia Doni 

Nel Cinquecento la donna, se decideva di intraprendere la carriera artistica, perdeva la propria identità sessuale svolgendo un lavoro considerato “da uomo”, e per questa ragione le prime pittrici e miniatrici appartenevano al mondo ecclesiastico. Le religiose inoltre ricevevano un’istruzione, che non era affatto scontata. Negli scriptoria delle abbazie le suore colte e dotate di capacità grafiche e pittoriche si dedicavano all’arte della calligrafia, della decorazione, della copiatura e al disegno, per illustrare i libri con preziose miniature.

Spesso le artiste cinquecentesche erano figlie d’arte, poiché era l’unico modo per imparare il mestiere: confinate nel ruolo di procreatrici, le donne potevano decorare la casa, la propria persona, cucire e ricamare ma le libertà finivano qui. Al loro tempo, le artiste erano persino conosciute tra la popolazione, ma poi sono state messe in un angolo dalla critica.

A Firenze sono ben più di 2.000 le opere di artiste rintracciate e censite nei musei e nelle chiese. Antonia Doni è la prima delle artiste Fiorentine dimenticate di cui parleremo, in attesa del giorno nel quale non ci sarà più bisogno di dedicare sezioni apposite per celebrare l’estro delle donne e per farne conoscere le loro opere.

Antonia Doni (1456 – 1491) è la figlia di Paolo Uccello, ha dipinto “Vestizione di una monaca, una miniatura ad oggi collocata presso il gabinetto Disegni e stampe degli Uffizi

Per i motivi già citati, le notizie su questa donna, a suo modo rivoluzionaria, non sono molte: sappiamo fosse fiorentina, primogenita del celebre pittore quattrocentesco Paolo Uccello, presso la cui bottega si formò, che fu una suora carmelitana e che divenne una suora di clausura nell’ultimo decennio della vita. Tutto torna, la nostra Antonia era figlia d’arte ed ecclesiastica. Pacchetto completo.  

Vasari, nelle sue Vite, scrive di Paolo Uccello e fa riferimento ad una “sorella che aveva la conoscenza del dipingere” si tratta di Suor Antonia. La sua produzione fu così prolifica da farle guadagnare il titolo di “pittoressa” sul certificato di morte, perciò questa era la sua vera e propria occupazione, oltre a quella di suora, se così si può dire. È la prima volta che la forma femminile della parola “pittore” appare nei registri pubblici fiorentini.

Grazie alle commissioni interne all’ordine religioso, come miniature e tavolette votive, ebbe modo di lavorare con una libertà che mai avrebbe avuto se fosse stata laica.

Non sono note opere firmate o documentate di Antonia. La miniatura conservata agli Uffizi che rappresenta la vestizione di una monaca è stata attribuita a Suor Antonia ma non ne abbiamo la certezza.

Per quanto riguarda la scena rappresentata, che si svolge nella chiesa di S. Donato in Polverosa, si pensa che si tratti della monacazione di Costanza Vecchietti del 1481. È stata avanzata anche la proposta che il dipinto rappresenti la vestizione di Suor Antonia e che sia opera di un ignoto miniatore fiorentino della fine del XV e l’inizio del XVI secolo.

Alessia Bicci 

IL PARADISO IN PIAZZA DELLA SIGNORIA

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In Piazza della Signoria a Firenze è stata installata una torreggiante creazione di Giuseppe Penone, uno dei massimi esponenti dell’Arte Povera contemporanea. L’opera in questione porta il nome di Abete e si inserisce tra le numerose iniziative svoltesi per celebrare il settecentesimo anniversario della morte dell’Alighieri.

È un’anticipazione della mostra monografica di arte contemporanea “Alberi Inversi” dedicata a Dante e visitabile nelle Gallerie degli Uffizi dal 1 giugno al 12 settembre 2021, ospitante i lavori di Giuseppe Penone. L’opera è un albero di 22 metri il cui tronco ed i rami sono stati realizzati in acciaio inossidabile mediante lavorazioni complesse, disposti a spirale ascendente. Gli elementi cilindrici appoggiati sui rami metallici dell’abete sono stati modellati in bronzo, realizzati da calchi di bambù. L’ispirazione proviene dalla terzina del canto diciottesimo del Paradiso che recita: “l’albero che vive de la cima / e frutta sempre e mai non perde foglia” perifrasi che indica il Paradiso stesso. L’albero a cui è paragonato il Paradiso riceve vita dalla sommità e non dalle radici, ed i suoi rami indicano il grado di ascesa a Dio attraverso i cieli.

Christo, Installation of Wrapped Trees Riehen, 1998
https://christojeanneclaude.net/artworks/wrapped-trees/

Nel nostro caso il misticismo non è stato abbandonato ma ha mutato di significato; il sottotitolo dell’opera è infatti: “La spirale della crescita vegetale, la spirale della conoscenza”. I frutti non sono anime come nella Commedia, ma pezzi di metallo, e l’ascesa è verso una divinità laica: il sapere. Lo stesso autore ha commentato: “Abete in Piazza della Signoria indica lo sviluppo del pensiero che è simile alla spirale di crescita del vegetale“.

Vedendo l’opera però, il collegamento col paradiso sembra sfuggirci. Tipica dell’Arte Povera è infatti la celebrazione del ritorno alla natura come via di fuga dalla razionalità del sistema capitalistico di cui la quotidianità della fine degli anni 60 era intrisa (e lo è oggi ancora di più), anni in cui il movimento ebbe origine. L’Arte Povera “celebrava (…) il ritorno alla natura e ai processi corporei come via d’uscita dalla razionalità borghese repressiva e dal sistema capitalista” racconta Germano Celant. È un’avanguardia che risente l’influenza del ’68 e mette in crisi il rapporto tra significato e significante. Proprio a causa di questo cortocircuito l’opera risulta di difficile comprensione. Il direttore degli Uffizi Eike Schmidt ha sottolineato come Abete sia un ponte tra la Divina Commedia e la contemporaneità. Quest’ultima non deve esentarsi dalle riflessioni che l’opera in sé suggerisce, come gli aspetti ambientali dell’arte, soprattutto nello spazio urbano antropomorfo. Impossibile non pensare all’impatto dell’uomo sulla natura e di come questo minacci l’Eden paradisiaco sostituendolo con una natura metallica.

La collocazione in una piazza non è casuale: tra il tempo della storia e quello della vita, tra passato e presente. Non è stata la prima opera accolta in Piazza della Signoria che ha fatto discutere l’opinione pubblica. Ricordate nel 2017 Big Clay di Urs Fisher? Forse vi tornerà in mente con le parole di Sgarbi che la definì una “mer** gigantesca”. Quest’anno, il Sindaco Nardella, preparato alle critiche, all’inaugurazione dell’installazione ha affermato: “Quando l’arte fa discutere è arte vera, quando sono tutti d’accordo non è più arte, è marketing”

Cos’è l’arte Povera?

Le vicende dell’Arte Povera sono legate alla figura sopra citata del critico d’arte Germano Celant. È proprio Celant, sul finire degli anni Sessanta, a coniare questa definizione e a redigerne il manifesto. L’Arte Povera è un corrente artistica italiana, settentrionale, di stampo sostanzialmente concettuale… Esatto, l’arte del: “ma questo lo sapevo fare anche io!”.

Il movimento è in aperta polemica con le ricerche della Pop Art e si contrappone alla cultura dei consumi, al conformismo, alla mercificazione dell’artista e alla riduzione dell’opera d’arte ad oggetto commercializzabile.

Contrapposizione resa evidente dagli alberi di Penone che sono il simbolo antitetico del consumo immediato.

Giuseppe Penone, Abete, piazza della Signoria, Firenze © photo OKNOstudio

L’Arte Povera promuove il rinnovamento e l’ampliamento dei materiali impiegati dagli artisti: materiali vivi, elementi naturali, legno, metalli, tessuti organici sono affiancati da materiali di origine industriale. Questa duplicità evidenzia la divaricazione tra il mondo naturale e quello del progresso che caratterizza l’Italia dell’epoca. Siamo di fatto negli anni portati in scena da Antonioni in Deserto Rosso, film la cui poetica, per certi aspetti, riporta alla mente l’Arte Povera, con la sua attenzione ai processi di urbanizzazione del panorama urbano. 

L’Arte Povera si fa beffa del mercato dell’arte e gioca con il concetto di prezzo e valore dell’opera artistica, nonostante ciò non riesce a sfuggirgli, ed i lavori dei suoi esponenti oggi valgono cifre esorbitanti. Basti pensare che tra le personalità che hanno ispirato il movimento vi sono Piero Manzoni e Duchamp.

Ma la carica rivoluzionaria di questa avanguardia è data dalla spiritualità, dall’esistenzialismo di cui le opere si fanno carico, mostrando l’artificio dell’arte per mezzo di illusioni. Infatti, essa rigetta il concetto d’arte così come era conosciuto fino a quel momento e lo rivoluziona. La fruizione delle opere pone interrogativi: questa è la genialità del movimento. Il fruitore si chiede perché stia osservando una determinata opera. L’Arte Povera compie una dichiarazione fortissima ma silente sul concetto di rappresentazione, del tutto nuova. Nel silenzio che lascia una tela dipinta interamente di un solo colore rimbomba la voce della propria coscienza. Il fruitore ha un ruolo attivo e risponde alle domande che l’artista gli pone attraverso le opere.Cosa sono? Chi sono? Di cosa posso fidarmi? L’Abete di Penone è reale o è finzione?”

L’Arte Povera riconfigura l’idea del ruolo della natura nell’arte in un modo del tutto diverso dalla Land art (le famose spirali di Robert Smithson e le installazioni di Christo e Jeanne-Claude, celebri per “impacchettare” paesaggi, alberi, e monumenti).

La Land art esce prepotentemente dai musei, si libera dalla galleria e si inserisce intrusivamente nel panorama. Il suo scopo non è comprendere la natura, anzi, è un arte antropocentrica in cui l’artista stravolge il paesaggio. L’Arte Povera al contrario si interroga con umiltà su cosa sia la natura. Predilige le modalità espositive effimere come la performance e l’installazione. 

E tu cosa ne pensi di “Abete” ? Qual è il suo significato? 

Alessia Bici

DESIGN: COLLABORAZIONE E SOSTENIBILITÀ

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DESIGN: QUESTA PRIMAVERA COLLABORAZIONE E LA RICERCA PER LA SOSTENIBILITÀ

Giovedì 8 aprile 2021 è stata presentata attraverso una digital exhibition la mostra “Impresa per la sostenibilità 4.0”, che in tre ambienti racconta il ruolo della regione toscana nella partnership con le imprese locali e le istituzioni del territorio che si occupano di ricerca come il Distretto interni e design (DID) ed il PENTA, polo dell’eccellenza nautica toscana.

La mostra, presto visitabile online, ospita una raccolta di progetti degli studenti del Design Campus in collaborazione con l’industria.

Gli scenari di impresa 4.0 collaborano con il dipartimento di architettura e design nella sfida per la sostenibilità grazie ai finanziamenti della regione.

Il laboratorio per la sostenibilità, che ha per direttore scientifico il professor Giuseppe Lotti, fa parte del sistema didalabs comprendente oltre 30 laboratori, ed ha svolto un ruolo fondamentale applicando i principi del design e sviluppando programmi di ricerca sui temi della sostenibilità di prodotti e servizi, dalla fase di concezione a quella di realizzazione.

Infatti la maggioranza dei progetti, frutto delle collaborazioni con le industrie e guidati dal design, che collega il mondo accademico e con quello industriale, sono stati realizzati in forma di prototipi e molti di questi sono oggi in produzione.

La missione del DIDALABS, collettivo di laboratori del Dipartimento di Architettura è il supporto scientifico e tecnico alla didattica ed alla ricerca attraverso il coinvolgimento di studenti e ricercatori nell’area dell’architettura, del disegno industriale, della pianificazione territoriale e del paesaggio.

La mostra digitale varca i confini imposti dalla pandemia e racconta il know-how dei maestri del made in Italy presentando una completa realtà di fruizione che mostra i vantaggi del necessario trasferimento online di mostre e musei in questi tempi difficili, come ad esempio la riduzione dell’impatto ambientale e la possibilità di raggiungere un grande numero di persone.

Nonostante il dipartimento non smetta di credere nell’importanza della fisicità del museo.

Tra i progetti esposti troverete: piattaforme di realtà aumentata; camper a ridotto impatto ambientale; servizi domotici in cloud per camper, nautica e trasporto ferroviario; sistemi prodotto-servizio con sensori che controllano i parametri vitali delle piante e dell’inquinamento atmosferico.

Alla presentazione ha partecipato l’Assessore Leonardo Marras che ha sottolineato come la regione dovrebbe essere un facilitatore per offrire strumenti che aiutino a orientare il sistema ed il credito verso una strategia europea di politica industriale volta a favorire la patrimonializzazione delle imprese e la lotta ai cambiamenti climatici.

Formafantasma al Centro Pecci

Sempre in merito alla sostenibilità l’Università di Firenze ha incontrato, grazie ed un seminario tenuto al Design Campus di Calenzano, il designer Simone Farresin che insieme a Andrea Trimarchi costituisce il team dello studio Formafantasma.Questidesigners dopo gli studi a Firenze hanno deciso di trasferirsi in Olanda, dove hanno frequentato la Design Academy di Eindhoven. Da qui seguono numerosi  successi per il duo: i nel 2011 l New York Times li ha definiti tra i designer più influenti dei prossimi dieci anni; i loro pezzi sono stati acquistati per le collezioni permanenti dei più celebri musei al mondo tra cui il MoMA, il Victoria and Albert Museum, il The Art Institute of Chicago, il Centre Georges Pompidou e molti altri.

Simone Farresin ha illustrato la mostra “Cambio” commissionata dalla Serpentine Gallery di Londra che sarà visitabile al centro Pecci di Prato da maggio. La mostra è un’investigazione sull’estrazione, produzione e distribuzione dei prodotti in legno in cui viene posta in primo piano la materia grezza invece del del prodotto finito, con una particolare attenzione al processo produttivo piuttosto che alla forma. Scopo della mostra è l’acquisizione di consapevolezza della responsabilità politica ed ecologica dell’insegnamento del design. É un’indagine sulla governance dell’industria del legno che produce implicitamente dei design brief che fungono da punto di partenza per mettere in discussione la figura del designer ritratta dall’immaginario collettivo. Non si vogliono offrire vere e proprie soluzioni ma dei suggerimenti, degli spunti di riflessione sui materiali di cui i progettisti si servono quotidianamente in una visione che può essere del tutto speculativa della disciplina, rivoluzionando così il modo di concepire il design. Lo studio ha un approccio al design che non è formale, ma basato su una ricerca di tipo concettuale.  Ecco il perché del nome dello studio: “Formafantasma”. Sono i materiali a parlare e non la forma che rimane in secondo piano per essere svelata solo alla fine.

Il nome della mostra invece; “Cambio”, è l’augurio di un cambiamento di approccio volto alla responsabilizzazione del designer e del consumatore. Cambio si riferisce anche al ricambio della membrana dei tronchi degli alberi che genera il legno verso gli strati più interni producendo il materiale necessario affinché l’albero possa crescere. Formafantasma questa volta ha deciso di concentrare la propria attenzione sul legno, che è il protagonista della mostra.

Questa scelta è stata dettata da molteplici fattori tra cui la volontà di mantenere saldo il legame con le radici del design italiano e quindi la rinomata industria del mobile che attribuisce al legno un ruolo primario. Inoltre, il collegamento con la Great Exibition del 1851 è sorto spontaneo dal momento in cui il sito del Serpentine, che ricordiamo aver commissionato ed ospitato la mostra, è proprio Hyde park, sul cui suolo fu edificato il Crystal Palace, la grande serra progettata da Paxton che ha ospitato la prima Esposizione Universale. Questa monumentale cassa di vetro è servita ad esporre i successi dello sviluppo economico e del disegno industriale e proprio in questo sito emerse la figura del designer moderno. Non solo vi furono esposti macchinari e oggetti innovativi ma vennero esposti i campioni dei materiali estratti delle colonie, primo tra tutti il legno. Al design dunque si chiedeva di dare forma agli oggetti ottenuti grazie ai contributi delle estrazioni di materie prime provenienti da altri paesi e con ciò nascono le problematiche legate alla questione economico ambientale relativa al colonialismo. Cambio presenta alcuni di questi campioni di specie lignee ormai estinte esposti nel 1851.

Per anni non si è riflettuto sui diritti delle foreste, dei loro abitanti e dei raccoglitori delle materie prime. Basti pensare che attualmente la Costituzione Italiana non prende in considerazione esplicitamente l’ambiente e la sua tutela, che solo recentemente sono stati materia di interesse, non essendo in precedenza stata rivolta ,da parte dei legislatori, una particolare attenzione a riguardo. Solo dal 2014 l’UE ha stabilito un sistema di licenze per le importazioni di legname garantendo test sul legno di cui i prodotti che vengono importati in Europa sono costituiti, per capire se siano legali o se invece di origine protetta.

Formafantasma desidera non trascurare la deontologia forestale, la filiera ed il viaggio che compie il legno per diventare prodotto finito. Il legno necessita essere raccontato poiché in esso si disvela un mondo lento, in contrapposizione a quello rapido della dimensione umana, ma altrettanto stimolante. Conoscere le leggi e le normative che regolano le operazioni di disboscamento e piantumazione è di fondamentale importanza. La mostra è una continua conversazione con professionisti di vari settori che parlano dello stesso soggetto osservato da punti di vista diversi, compone una rete di collaborazioni tra esperti in cui le conoscenze sono libere di fluire verso la coscienza del visitatore.

Tra le considerazioni più interessanti emerse dalla mostra che ci riguardano da vicino

vi è sicuramente quella che l’albero, in quanto organismo vivente, assorbe dall’atmosfera anidride carbonica, CO2. In questo modo sottrae una sostanza che è bene sia presente nell’atmosfera in quantità limitate. Il carbonio rimane imprigionato nell’albero e continua ad essere disponibile fintanto che l’albero si preserva nel bosco o nelle nostre case sotto forma di materiale da costruzione. In un metro cubo di legno rimane imprigionata circa una tonnellata di CO2  e questa quantità rimane stoccata fino a quando il legno marcisce o viene bruciato ed essa torna nellatmosfera.

Illustrazione
di Lauren Martin

Quando scegliamo un mobile in legno potremmo tentare di instaurare un ciclo virtuoso in cui il mobile in questione dovrà avere una durata pari o maggiore di quella della vita dell’albero stesso, altrimenti la CO2 sarà rilasciata nell’atmosfera ancor prima del tempo. Ad esempio, se acquistiamo un tavolo in legno dobbiamo conoscere la durata della vita dell’albero di cui è fatto, che se supponiamo essere di novant’anni, il ciclo di vita del tavolo dovrà essere garantito per almeno questo arco temporale, nel nostro caso novant’anni . In un’installazione viene criticata l’industria veloce e l’obsolescenza programmata che porta alla deresponsabilizzazione ed all’acquisto compulsivo non consapevole. La stessa cosa che accade ai mobili accade a maggior ragione a tutti gli oggetti il cui uso è per sua natura effimero.

Un albero impiega cinque anni ad assorbire la CO2 che un piccolo packaging rilascia quando viene smaltito dopo essere stato usato una sola volta.

Alessia Bicci

UN PIEDE SUL BATTISTERO

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La città di Firenze è ricca di misteri nascosti tra i suoi vicoli e nelle sue mura…letteralmente!

 Il Battistero di San Giovanni Battista in piazza Duomo è uno dei monumenti davanti al quale si passa più spesso per via della sua posizione centrale, eppure forse c’è un dettaglio che vi è sfuggito. La porta meridionale del battistero, quella che guarda via dei Calzaiuoli, fu realizzata tra il 1329 e il 1336 da Leonardo D’Avanzo e impreziosita con le formelle di Andrea Pisano narranti gli episodi della vita di San Giovanni Battista. Fin qui niente di nuovo, giusto? Se osservate attentamente però noterete sulla destra un rettangolo scolpito nel marmo. Sembra che qualcuno abbia affisso una targa sul battistero. Nessuna targa, tranquilli, sono delle unità di misura medievali.

Il rettangolo, secondo la leggenda, raffigurerebbe l’impronta del piede di Liutprando, re dei Longobardi e re d’Italia dal 712 al 744 d.C; il quale, volendo regolarizzare le transazioni commerciali decise di adottare come unità di misura il proprio piede. Il “pes regis Liutprandi”. Impose così per tutto il Regno una medesima misura lineare. Il cronista Giovanni Villani scriveva: “Dopo Albarigo, regnò re dè’ longobardi Eliprando (Liutprando), il quale fu grande come gigante, e per la grandezza del suo piede si prese la misura delle terre e chiamasi ancora ai nostri tempi piè d’Eliprando, il quale poco meno d’un braccio della nostra misura”.Villani quando parla “della nostra” (misura) si riferisce al fatto che Firenze aveva già delle misure proprie ufficiali sin dal tempo della contessa Matilde di Canossa, incastonate fuori di Porta San Pancrazio, la Porta Occidentale della città. 

Vi erano anche altre tipologie di misure: quelle di volume, di superficie, ponderali e di capacità per solidi e liquidi. Anch’esse avevano come base di riferimento parti del corpo o elementi naturali. A Firenze c’erano quindi il piede, il palmo, il pollice, il braccio e la tesa ovvero la distanza tra le dita medie tenendo le braccia allargate. Il piede del re Liutprando ad esempio, misurava 43 centimetri circa. La leggenda narra fosse un uomo dalla statura eccezionale. (Considerate che 30.5 cm di piede corrispondono ad una taglia 48.5 di scarpe da uomo). Secondo alcuni il rettangolo mostra la misura della somma di entrambi i piedi. In effetti si tratta di una leggenda poiché il battistero fu profondamente ristrutturato nel corso dell’XI secolo ed il il rivestimento marmoreo esterno del monumento come lo vediamo oggi risale al 1128 circa, quindi risalente a molti anni dopo la morte di Liutprando (690-744).

Il rettangolo raffigurante il piede di Liutprando

 Anche le origini del Battistero ad oggi non sono certe, sembra essere stato edificato sui resti di una struttura romana del I secolo d.C. e rimaneggiato nel VII secolo, durante la dominazione longobarda. I primi cronisti ritenevano che il tempio della divinità del dio Marte, antico protettore di Firenze si trovasse dove poi venne edificato il Battistero, forse suggestionati dalla conversione della città al Cristianesimo e dalla conseguente sostituzione del vecchio protettore dio della guerra con il nuovo Santo coraggioso e battagliero; San Giovanni. I due protettori sono infatti accomunati dal coraggio: fisico per Marte e spirituale per il Battista. Gli studi archeologici hanno però smentito l’ipotesi della trasformazione architettonica da tempio dedicato a Marte, a Battistero cristiano. Il Battistero è invece un’opera originale di stile romanico.

In seguito, l’unità di misura longobarda fu sostituita a Firenze da quella che prende il nome di “braccio fiorentino”, pari a 58 centimetri circa. Istituito per evitare imbrogli dei mercanti. Bensì in Piemonte con il nome di “piede Liprando”, l’unità di misura longobarda fu in uso fino all’introduzione del sistema decimale. Vi è ancora un’altra storia legata alla misurazione della materia che spiega forse le ragioni dell’esistenza di un modo di dire fiorentino che sicuramente avrete usato almeno una volta. Come racconta Piero Bargellini; intellettuale e sindaco di Firenze dal 1965-67, nel Chiasso delle Misure, prima ancora Chiasso del Fondaco degli Acciaiuoli, si trovavano gli uffici delle Misure o del Segno. L’Ufficio del Segno era il luogo nel quale venivano depositati e conservati i campioni delle misure e dove venivano verificati gli strumenti di misurazione. Tutto questo veniva fatto per evitare imbrogli da parte dei mercanti i quali spesso assumevano in bottega ragazzi molto giovani e minuti così grazie alle loro braccia ben più corte del braccio fiorentino,riuscivano a gonfiare i prezzi delle merci.

Questa potrebbe essere una delle origini della dicitura “avere il braccino corto”, appellativo fiorentino degli avari. In ogni modo bisognerà attendere l’unità d’Italia per avere un unico sistema metrico in tutta la penisola; con la legge del 28 luglio 1861 venne adottato definitivamente il sistema metrico decimale. Oggi le vecchie unità di misura locali sono molto importanti e fanno parte di uno dei numerosi metodi di datazione storica. La mensiocronologia è un processo utilizzato per risalire alla datazione di edifici storici e si basa proprio sulla misura dei materiali da costruzione impiegati; le cui misure ed unità di misura, come abbiamo visto , variavano a seconda dei comuni ed erano soggette ai cambiamenti politici.

Alessia Bicci

AL MUSEO, MA SUL DIVANO DI CASA – PICCOLA GUIDA ALLE VISITE DIGITALI

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Più volte nelle aule, virtuali, della facoltà di Architettura ci siamo interrogati su come le restrizioni dovute all’emergenza sanitaria abbiano cambiato il modo di fruire l’arte, portandoci a riflettere su come lo spazio in cui si svolgono gli eventi non ricopra un ruolo marginale ma faccia parte dell’evento in sé. È innegabile la rilevanza dello spazio fenomenico nel vivere quotidiano, ovvero lo spazio in cui si forma la personale rappresentazione del mondo.

Lo spazio si configura e si modifica a seconda dei nostri movimenti all’interno dello stesso. Funziona come un filtro, il mezzo tramite il quale siamo immersi nella realtà, uno spessore tra l’io e la percezione e al contempo mediatore di quest’ultima.

Lo spazio è percepito dal soggetto in maniera attiva, con il corpo e la totalità dei sensi in un flusso di scambi reciproci.

La psicologia della  Gestalt introduce la nozione di affordance di J. Gibson, la teoria ecologica della visione secondo cui la percezione  di un oggetto, mediata dalla sensazione e quindi dai sensi, comporterebbe la selezione delle proprietà intrinseche che ci consentono di interagire con esso. In sostanza il fruitore vede o tocca un oggetto e coglie immediatamente la possibilità di interazione con esso perché tali informazioni sono già racchiuse nell’oggetto che si offre al pubblico. Le cose si offrono (to afford) ai nostri sensi, e a seconda di come ci vengono presentate possono essere percepite in maniera diversa.

Attraverso il modo in cui espone l’arte il museo racconta di una società che si identifica in quell’arte e che ne fa uso per riflettere su se stessa; parla di come quella società organizza il sapere. Gli spazi espositivi hanno subìto una notevole evoluzione nel tempo, dalla galleria rinascimentale al modello del White cube.

Oggi gli artisti contemporanei tendono ad espandere il proprio intervento nello spazio che li circonda. L’architettura dei musei ha avuto una vera e propria evoluzione: basti pensare al Groninger Museum o al centro Pompidou, luoghi deputati alla visita di opere d’arte, sono a loro volta un prodotto artistico che predispone l’osservatore ad una esperienza multisensoriale polivalente.

Il museo dunque non è più semplicemente il luogo dove esporre le opere d’arte, ma è la fusione di una serie di funzioni e servizi: sale espositive, laboratori, bar e ristoranti.

Questa complessità che oggi va a caratterizzare il museo, lo eleva a segno identificativo della metropoli contemporanea. Luogo di laica sacralità e mezzo essenziale per l’educazione emozionale.

I confini del museo con l’esterno sono liquidi: abbiamo assistito alla trasformazione del museo: da luogo dell’eccezionalità elitaria, il “Mouséion” in Alessandria d’Egitto, a luogo della quotidianità. Infatti si è compreso che sono conquistabili tanti più visitatori quanto più i musei si mostrano accoglienti per tutti.

-Se il tema ti interessa l’università di Firenze presenta nell’offerta formativa il master di secondo livello del dipartimento di Architettura “Museo Italia- Allestimento e museografia” diretto dal professor Paolo Zermani. –

Per saperne di più visita il sito:

https://www.unifi.it/vp-11857-dipartimento-di-architettura-dida.html#museo

Appurato il valore dell’esperienza materica e dello spazio, sia espositivo che architettonico nell’approccio con l’arte, dobbiamo fare i conti con l’attuale impossibilità di visitare i musei. Siamo costretti ad un approccio che ai più risulta insolito, vittime dell’atrofizzazione dei sensi forzatamente incollati alla dimensione domestica. Se già il rapporto con l’opera d’arte era complesso adesso il “Ceci n’est pas une pipe” di Magritte davanti agli schermi si moltiplica in “ceci n’est pas untableau (quadro)”. In una sorta di decontestualizzazione della decontestualizzazione. Non tutto il male però viene per nuocere! Infatti l’esperienza virtuale non è priva di vantaggi e non deve essere necessariamente comparata con la visita dal vivo poiché il digitale fa da sostegno e non da sostituto. Così come le piattaforme di streaming di brani musicali non rimpiazzano i concerti, questa situazione di emergenza si può rivelare portatrice di nuovi mezzi per ampliare il concetto di fruizione museale.

Basta una connessione ed uno smartphone ed abbiamo accesso a musei dall’altra parte del globo, altrimenti inesplorabili.

Ecco quindi alcune delle piattaforme virtuali dove rifugiarsi in caso di crisi d’astinenza da arte:

  • Google Arts & Culture, un museo digitale con visite virtuali, mostre, collezioni e luoghi di interesse storico. Le immagini delle opere sono ad alta definizione ed è possibile ingrandirle per cogliere dettagli che non potrebbero essere osservati neppure dal vivo.
  • Il sito del MET è uno dei più completi con audioguide, un ampio catalogo di libri consultabili online, video spiegazioni ed un canale YouTube.
  • Il sito del British museum offre tour virtuali delle varie sale ed un canale Youtube .
  • Se preferite l’arte moderna il sito ed il canale del Tate Modern fanno al caso vostro. Audioguide per ogni opera, articoli e tutorial per ricreare le opere dei vostri artisti preferiti.
  • Meritano anche i tour a 360° del sito dei Musei vaticani (stanze di Raffaello, cappella Sistina, sale Paoline ecc.)
  • Gli Uffizi con il loro sito mostrano le opere ad alta definizione con annesse spiegazioni
  • Il Rijksmuseum Amsterdam invece nella sezione Rijksstudio ricrea un vero e proprio allestimento online.
  • arte.tv : in sei lingue, tra cui l’italiano, troverete video (anche molto brevi), cortometraggi e documentari gratuiti su arte, architettura e non solo.
  • L’Associazione Mus.e cura la valorizzazione del patrimonio dei Musei Civici Fiorentini ed in questo periodo offre visite online gratuite, su prenotazione, che si svolgono su Zoom.

Alessia Bicci