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Il 15 novembre 2021 il microprocessore ha contato 50 anni dal suo primo annuncio ufficiale. Il capostipite di questi dispositivi è l’Intel 4004 e la sua entrata in scena nel 1971 ha dato inizio all’era tecnologica.
Agli addetti ai lavori è ben nota l’importanza di questo avvenimento, ma alla maggior parte delle persone forse non è ben chiaro cosa sia e cosa faccia esattamente un microprocessore (abbreviato µP). Proviamo a fare chiarezza in modo semplice.
Ognuno di noi, alle prese con l’acquisto di un nuovo PC o smartphone, ha sentito nomi come Snapdragon, Intel Pentium, AMD e caratteristiche come dual-core, quad-core e octa-core. Tutto ciò attiene al microprocessore contenuto nel dispositivo.
Gli apparecchi di cui facciamo largo uso sono in generale dei “calcolatori”, sono cioè delle macchine che svolgono una gran quantità di operazioni complesse. Tali operazioni non sono fini a sé stesse (come per la calcolatrice), ma sono volte a far sì che possiamo leggere un documento, ricevere e guardare un video, telefonare ad una persona, giocare ad un videogioco e moltissimo altro. Il “cervello” che gestisce ogni operazione è proprio il µP. Si tratta, fisicamente, di un dispositivo molto piccolo, come suggerisce il nome, che elabora o “processa” segnali elettrici ed esegue istruzioni.
In realtà i calcolatori esistevano ben prima della venuta del microprocessore, ma la novità che il 4004 costituiva era data dal fatto che la CPU (Central Processing Unit, l’unità che svolge i calcoli ed esegue le istruzioni) era realizzata per la prima volta interamente su un’unica piastrina di semiconduttore, anziché essere composta da elementi distinti e poi interconnessi mediante fili o piste metalliche. In un unico chip si aveva un sistema di elaborazione completo, si trattava cioè di un circuito integrato – integrato appunto in un’unica piastrina di silicio -.

Ciò che può sorprendere i più è che l’uomo dietro al 4004 è un italiano, il vicentino Federico Faggin. Classe 1941, laureatosi cum laude in fisica nel 1965 presso l’Università di Padova, si trasferì nella fiorente Silicon Valley nel 1968, dove lavorò dapprima per la Fairchild ed in seguito per la Intel. Qui nel 1970 prese in mano un progetto commissionato dalla giapponese Busicom, che fino ad allora era stato tralasciato. Grazie all’innovativo espediente da lui ideato per implementare su silicio i componenti circuitali e lavorando senza sosta per mesi, Faggin riuscì a compiere l’impresa di realizzare il primo processore in un unico circuito integrato: il microprocessore. Rispetto ai dispositivi esistenti occupava molto meno spazio, era più veloce e consumava meno potenza.
Come egli stesso racconta nella sua autobiografia “Silicio”, edita da Mondadori, i contemporanei non ebbero immediatamente coscienza dell’avanzamento che il µP rappresentava, tant’è che il fisico si decise a lasciare Intel per fondare la propria azienda (Zilog) e dovette combattere una lunga battaglia legale e culturale per ottenere la paternità della sua invenzione.
Tutti noi, soprattutto noi studenti, dobbiamo molto al microprocessore. Senza di esso diremmo addio ai computer, agli smartphone, a tutti quegli strumenti che ci hanno permesso di non fermarci durante la pandemia di COVID-19. Abbiamo visto inoltre come la crisi dei semiconduttori abbia gravi conseguenze sul mercato, proprio perché non si riesce a fornire tanti microprocessori quanto il bisogno richiede.
La storia del microprocessore ci insegna che ogni valida intuizione deve lottare e farsi strada per emergere, ma questo non ci deve impedire di propugnarla, né ci giustifica a rinunciare, perché la rinuncia potrebbe significare una perdita assai più grave di qualsiasi fatica possa essere necessaria.
Lorenzo Luzzo