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Le Scuderie del Quirinale: una certezza ormai, in fatto di mostre.
Dopo la ricca esposizione su Raffaello, in occasione dei 500 anni trascorsi dalla scomparsa dell’Urbinate, che aveva visto un’affluenza notevole nonostante le difficoltà legate allo scoppio della pandemia, questo luogo si offre ancora una volta come dimora temporanea per un’altra importante mostra: Inferno.
Certo è, che in fatto di centenari e ricorrenze, le Scuderie del Quirinale possono considerarsi ormai leader: in questo 2021 si celebra infatti il 700enario dalla morte di Dante Alighieri. Un’altra commemorazione a Dante, dunque. Un’altra lode lunga 10/11 sale, piena di storia e nozioni sulla situazione politica fiorentina, ravennate, italiana dunque, con excursus sulle sue doti poetiche.
E invece no.
Qui entra in gioco Jean Clair, pseudonimo di Gerard Régnier: l’accademico francese, storico e critico d’arte di fama internazionale, può vantare l’aver ricoperto ruoli importanti quali direttore del Musée Picasso, Direttore della sezione arti visive della Biennale di Venezia dal 1994 (l’anno successivo diresse l’edizione in toto), membro dell’Académie française dal 2008.
Jean Clair è riuscito a realizzare un’esposizione che non è su Dante, ma tratta ovviamente anche Dante. Questo è fondamentale perché in una mostra a tema Inferno è chiaro che Dante sia un perno del discorso; la difficoltà, affrontata in modo eccezionale dal curatore, è insita nel tentativo di non rendere Dante una presenza troppo importante, soffocante. Si può dire che Jean Clair sia riuscito in questo, e abbia reso Dante il nostro Virgilio nell’Inferno creato nelle Scuderie del Quirinale.
La mostra trova le sue ragioni d’essere non solo nel 700enario dantesco, ma anche in un profondo desiderio del curatore: come dichiarato nel 2020 in un’intervista al “Giornale dell’Arte” con Luana de Micco, Jean Clair aveva già proposto nel 2006 a diversi musei francesi e al Prado di Madrid questo tipo di progetto, sentendosi poi rispondere negativamente, “come se fosse incongruo all’epoca interessarsi all’Inferno”.
È stato certamente anche alla luce di ciò che lo studioso ha accettato volentieri la proposta delle Scuderie del Quirinale: l’organizzazione di questa esposizione, inserita nel più ampio programma di celebrazioni dantesche a livello nazionale gestito da Carlo Ossola, è stata per lui l’occasione di concludere (a suo dire) il lavoro di curatore su un tema spettacolare e che gli sta molto a cuore.

fonte: wikipedia, Jean Clair nel 2003
Nella prima sala della mostra l’occhio del visitatore si trova già a dover compiere una scelta molto difficile riguardante la prima opera cui porre attenzione. La Porta dell’Inferno di Rodin (nel suo modello del 1989 in fusione a gesso in scala 1:1) gentilmente concesso in prestito dal Musée Rodin di Parigi oppure, a destra, la scultura La caduta degli angeli ribelli (1725-1735) attribuita a Francesco Bertos?


L’aver posto La caduta degli angeli ribelli nella prima sala della mostra mette in luce quanto sia importante ricordare “l’antefatto”, e per questo tema addirittura si è scelto anche di esporre La Caduta di Andrea Commodi, prestata dagli Uffizi. Le due opere (una scultorea, l’altra pittorica) dialogano dunque per restituire al visitatore una sorta di prequel, una dimostrazione di quanto è avvenuto prima. Prima di cosa? Prima della creazione di questo concetto immenso e caratterizzante per la nostra cultura, ma non solo: come viene brillantemente spiegato, in toni chiari ma mai banali dalle didascalie presenti a muro e in prossimità delle opere, la questione legata alla morte e all’Aldilà trova la sua centralità in qualsiasi realtà religiosa, sin dal principio. Effettivamente, è da sottolineare la puntualità di ogni descrizione presente in mostra, che accompagna il visitatore nel suo viaggio infernale rimanendo fondamentale punto di riferimento.
Nella prima sala, oltre a Rodin, Commodi e Bertos (?) , trovano spazio anche Gil de Ronza, con la sua Morte (1522 ca.) che strizza certamente l’occhio alla Maddalena donatelliana, e il Giudizio universale (1425) di Beato Angelico, direttamente dal Museo di San Marco fiorentino.
La Porta dell’Inferno di Rodin sbarra la strada verso i successivi gironi, quasi intimando al visitatore di non proseguire attraverso le terrificanti immagini con cui è decorata: la decorazione non reca però un’illustrazione letterale della Commedia (da cui certo prende le mosse soprattutto nelle sue sezioni più antiche), ma vede collaborare ai fini di realizzare un’immaginario quanto più tremendo e totalizzante anche un altro poeta: Baudelaire e i suoi Fleurs du mal. Accanto alla porta in gesso è presente anche una sezione che mostra al visitatore alcuni studi, bozzetti vari, realizzati dall’artista che si accingeva a compiere questo incredibile lavoro.
Foto: all’apice della porta troviamo il celebre pensatore. Accanto all’opera, il celeberrimo verso dantesco.


Proseguendo la nostra discesa nell’Inferno, le sezioni che seguono sono un’ottima dimostrazione di quanto questa mostra voglia mettere insieme, oltre che diversi messaggi, anche diversi medium attraverso i quali trasportarli: troviamo infatti quadri, fotografie (con la foto della Bocca della Verità nel suggestivo Parco di Bomarzo), codici medievali e rinascimentali, sculture… Il tutto atto a mostrare quanto, effettivamente si sia cercato di descrivere questo inferno, di trovarlo, di renderlo in qualche modo “comprensibile”. Ma come afferma Laura Bossi, che ha avuto ruolo fondamentale nell’organizzazione della mostra insieme a Jean Clair, “l’Inferno è impensabile, indicibile, infigurabile”.
La seconda sala, di forma ellittica con apertura sulla terza, accompagna (o forza?) lo sguardo del visitatore al centro, verso l’uscita da questa ellisse: qui troviamo Satana che convoca le sue legioni, una tela di Sir Thomas Lawrence del 1796-1797, prestata dalla Royal Academy of Arts di Londra.

Compiendo lo sforzo di non avvicinarsi immediatamente a quest’ultima, ma dandosi il tempo per osservare come il curatore ha voluto accompagnarci da Satana, si possono ammirare le fotografie scattate da Herbert List nel Parco di Bomarzo, codici come “Il cavaliere errante” o La città di Dio di Sant’Agostino, e la Medusa di Ivan Theimer. L’opera di Theimer è accompagnata da un focus sulla bocca dell’inferno: il tema è legato alla figura metaforica che trova le sue radici agli inizi dell’anno Mille in zona anglosassone, diffusasi poi nell’Europa occidentale attraverso miniatura e scultura e arrivando a rappresentare autonomamente l’inferno e le sue sofferenze. Questo aspetto risponde alla necessità umana di dare un volto a ciò che spaventa, in quanto siamo sempre più inquieti rispetto a ciò che non comprendiamo, che non possiamo vedere nitidamente.

Proseguendo verso Satana che convoca le sue legioni, ci si accorge concretamente dell’ottimo effetto che le luci di allestimento compiono esaltando il petto di questo Satana che sembra convocare noi visitatori, ormai parti integranti delle sue legioni. L’opera, che anche grazie alle dimensioni resta impressa nel ricordo della visita come se ne fosse la “copertina”, è stata realizzata fra 1796 e 1797 da Sir Thomas Lawrence sotto il segno di Fuseli.

La mostra continua trattando i temi del viaggio nell’inferno, trattando naturalmente la figura di Caronte, presentata al visitatore attraverso l’opera di José Benlliure realizzata nei primi decenni del ‘900 e attraverso i versi 82-87 del III canto dell’Inferno.

Altra opera di spicco presente in mostra è la tela di Bouguereau, Dante e Virgilio del 1850, in prestito dal Musée d’Orsay: l’opera, di 280,5×225 cm, si staglia con una potenza impressionante legata al candore di queste superfici umane così finemente descritte dall’artista, con una luce che mette in evidenza la violenza dell’atto, della punizione che spetta a coloro che si fingono qualcun altro per ingannare il prossimo. Un passo indietro rispetto alle figure che lottano, notiamo Dante e Virgilio che osservano la scena in penombra, sotto lo sguardo (di chi è ormai abituato a tali scene) del demone alato alla loro sinistra.

Avventurandosi ancora oltre in questa serie di rappresentazioni infernali, ci si perde in alcuni degli episodi più celebri: l’incontro di Dante con il Conte Ugolino e le varie interpretazioni dell’amore di Paolo e Francesca.
Qual è, giunti a questo punto, il valore davvero aggiunto a questa mostra? Il quid che non la rende assimilabile a tutte le altre celebrazioni dantesche? La “seconda” sezione.
Questo perché la seconda sezione, volendo creare una distinzione che a chi ha visitato la mostra verrà naturale forse fare, non parla di Dante, ma parla di noi.
Partendo, o arrivando, dalla celebre frase di Camus, secondo cui l’inferno siamo noi, l’esposizione prosegue trattando i temi più infernali del mondo moderno, passando anche per un’analisi in senso etnografico e folkloristico del tema con le sue attestazioni nella cultura popolare. In questo modo trova senso l’installazione con i pupi, direttamente dal Museo Antonio Pasqualino che testimoniano un sistema di pensiero magico creato dagli esseri umani per potere credere (o illudersi) di poter sconfiggere questo male. In questa parte ad accompagnare il visitatore non è un verso di Dante, bensì una citazione presa da Des fleurs du mal di Baudelaire:
È il diavolo a tirare i nostri fili!
Dai più schifosi oggetti siamo attratti;
e ogni giorno nell’Inferno ci addentriamo d’un passo,
tranquilli attraversando miasmi e buio.
Analizzando la figura del diavolo nelle sue declinazioni più terrene, viene naturale pensare ai concetti di peccato e di tentazione: proprio questo è il titolo della sala successiva, che vuole mostrare al visitatore la volontà di unire, sia a livello cronologico che stilistico, una miriade di artisti che bene o male hanno rappresentato l’inferno o una sua caratteristica.
E questi sono, nella maggior parte dei casi, facenti parte della contemporaneità.
Perché?
Perché l’inferno ha avuto un ruolo fondamentale nell’immaginario comune e nell’arte del passato, è sempre stato (o quasi) un protagonista importante nella sua concezione dantesca e cristiana; ma nella contemporaneità invece? Nel XXI secolo?
Nel XXI secolo, come affermato dallo stesso Clair Jean, è stato il secolo stesso a diventare inferno.
Il secolo breve ha visto infatti un susseguirsi impressionante di inferni in terra (analizzati puntualmente nella mostra), come quello della fabbrica (che vede ovviamente le sue radici nel secolo precedente), in cui troviamo dei veri e propri dannati, le megalopoli, le miniere, le prigioni e i manicomi costruiti sul modello delle architetture panoptiche: non sono stati forse anche questi, quanto quelli di Dante, dei gironi infernali?
Ecco che la mostra, avvicinandosi alla conclusione, si fa sempre più cruda, con una violenza espressionista nei modi e per niente simbolista nei termini: questa parte fa più impressione della prima, perché la prima parte è tratta dopotutto da un libro. Un capolavoro, certo, ma comunque un libro, che si può pur sempre chiudere e smettere di leggere per tornare alla nostra vita, nelle nostre tiepide case.
L’inferno del XXI secolo invece non è un racconto, è verità, è passato che non deve essere dimenticato.
Clair Jean si pone dunque un altro obiettivo, quanto mai gravoso: ricordare al visitatore che l’essere umano può crearlo questo inferno, e lo ha fatto. Ce lo dimostra attraverso opere come quella di Previati, Gli orrori della guerra: L’esodo(1917) che racconta attraverso le tecniche divisioniste uno dei tanti aspetti tremendi dei conflitti mondiali, ovvero la fuga dal luogo che, fino a poco tempo prima, si era percepito come casa, come nido sicuro. La guerra ha spazzato via, insieme a molte altre cose, anche questa certezza, anche la sensazione di possedere un luogo dove potersi fermare senza rischiare nulla; rischiano molto invece, le folle straziate rappresentate con le pennellate filamentose che descrivono l’urgenza, la fretta di allontanarsi, quasi volendo uscire dallo spazio della tela.

Altro ospite fondamentale è Giacomo Balla, con La pazza (1905), in prestito dalla GNAM di Roma: la follia è presa in esame in quanto le malattie mentali siano state spesso descritte dai medici ottocenteschi con termini presi in prestito dal campo della demonologia: così le convulsioni diventano ossessioni diaboliche, i disturbi isterici attacchi demoniaci etc.
Una sezione è appositamente dedicata alla guerra.
L’inferno in terra: la guerra
La guerra è stata la dimostrazione assoluta di quanto l’essere umano sia in grado di non essere umano.
Questo concetto è letteralmente lanciato in faccia al visitatore, che non può sottrarsi alla vista dei volti deformati dalle armi, alla vista delle immagini tremende che rappresentano, con un senso della verità spaventoso, quello che è accaduto praticamente l’altro ieri. La forza di questa sezione si trova nel fatto che accende nel visitatore qualcosa, ci si rende conto della concretezza di questo inferno in terra.

In dialogo con lo scritto di Primo Levi troviamo l’opera di Boris Taslitzky, Piccolo campo a Buchenwald, (1945): il colore è qui piegato sotto il peso del dolore che vuole rappresentare, in un affollamento di persone che non sembrano più nemmeno tali, sotto un cielo che si tinge dello stesso dolore che ricopre. Le opere in questa sezione ci parlano di morte, di sterminio, di quanto l’uomo, “quando tenta di immaginare il Paradiso in terra, il risultato immediato è un molto rispettabile inferno”
Paul Claudel, Conversazioni nel Loir-et-Cher
Il colpo di scena, all’avviso di chi scrive, si trova nell’ultima sezione: una volta arrivati allo sterminio, all’inferno per eccellenza creato dall’uomo in terra, cos’altro si potrebbe mai trovare dopo? Il nulla, giusto?
Sbagliato.
Jean Clair permette al visitatore, in una sorta di ultimatum etico, di uscire a riveder le stelle, nonostante le atrocità commesse in passato. Jean Clair, come un demiurgo gentile, ci permette di godere dopotutto ancora di qualche stella, di qualche piccolo sputo, come le chiamò Majakovskij.
Le opere che troviamo in questa sezione sono rappresentazioni di costellazioni: una in particolare, è una “ripresa effettuata dal Telescopio HUBBLE Ultra Deep Field della NASA”, che dà al visitatore l’occasione di osservare migliaia di galassie situate a molti miliardi di anni luce di distanza.
Una volta usciti dall’ultima sala si percorrono le scale per arrivare all’uscita di questo Inferno, con la consapevolezza di non essere gli stessi di prima e anzi, di essere notevolmente arricchiti.
E con la necessità concreta di uscire a riveder le stelle.
Daria Passaponti