LA RESPONSABILITÀ SOCIALE D’IMPRESA: COSA CI HA INSEGNATO OLIVETTI

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“La fabbrica non può guardare solo agli indici dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica”. Queste parole, pronunciate da Adriano Olivetti nel 1955 e frutto del suo pensiero, giungono a noi – gente del XXI sec. – come se arrivassero direttamente dal futuro. La ventata d’innovazione che l’imprenditore piemontese ci trasmette, ancora oggi – a più di sessant’anni dalla sua morte – ci fa senz’altro riflettere sulla sua figura e sulle sue intuizioni geniali e dannatamente controtendenza. D’altronde, la formazione del nostro Adriano non è conforme agli standard dell’epoca né tantomeno, verrebbe da dire, a quelli odierni. Egli nasce ad Ivrea nel 1901 e sin da piccolo viene portato nell’azienda di famiglia (inizialmente una piccola officina artigiana) per “respirare” e vivere il lavoro, per diretta volontà del padre Camillo, il quale è fermamente convinto della valenza educativa che tale esperienza avrebbe potuto avere nella vita di Adriano.

E così fu, effettivamente, considerando che lo stesso Adriano, una volta cresciuto, avrà modo di ribadire svariate volte l’importanza di quell’esperienza “da operaio” nel suo percorso di imprenditore “illuminato”, la cui storia è ancora oggi tutta “da leggere” come guida per le strategie imprenditoriali del futuro ma, soprattutto, del presente. Sarebbe infatti superfluo studiare l’operato di Olivetti soltanto nell’ottica della storia, ormai conclusa, della sua vita e delle “belle cose” che egli è riuscito a realizzare. Dobbiamo piuttosto concepirla come un monito per tutti e tutte noi, indifferentemente dal nostro “ruolo” nella società, poiché ciascuno di noi ha continue relazioni con il sistema economico-aziendale in cui viviamo ed essere consapevoli dell’impatto sociale che la rete imprenditoriale grazie alla quale soddisfiamo bisogni di svariate e potenzialmente infinite tipologie ha sull’ambiente che ci circonda significa incidere realmente sulla sostenibilità di quegli stessi sistemi produttivi. 

Concependo, infatti, l’impresa non soltanto come organizzazione aziendale di produzione – il cui fine ultimo è quello di rispondere alle esigenze di noi consumatori tramite lo scambio di beni e servizi all’interno del “fatidico” mercato – possiamo comprenderne piuttosto le peculiarità di comunità quale essa è, con i tratti e le criticità del gruppo sociale che essa costituisce, formato da esseri umani (siano essi operai o manager) e non da macchine prive di necessità interpersonali. 

Proprio con riguardo a queste tematiche, negli ultimi anni si è fatta strada una scuola di pensiero che vede nella “responsabilità sociale d’impresa” (dall’inglese “corporate social responsibility”) una chiave risolutiva di qualsiasi implicazione di natura etica all’interno della visione strategica d’impresa, capace di dare gli “strumenti” per gestire efficacemente le problematiche d’impatto sociale ed etico all’interno delle organizzazioni, come abbiamo avuto modo di studiare nell’ambito del corso di “Strategia d’impresa” alla Scuola di Economia dell’Università di Firenze

Se questa sia o meno la soluzione a tutti i “mali” non è ancora chiaro; di certo c’è che si tratta di un importante “passo avanti” verso l’analisi delle realtà imprenditoriali sotto punti di vista differenti e profondamente rinnovati rispetto a quelli tradizionali, cui siamo stati abituati e a cui siamo, in qualche modo, ormai profondamente assuefatti. 

Di chiaro c’è però che, almeno 30 anni prima rispetto alla “nascita” del concetto di CSR (corporate social responsibility), la cui paternità è da attribuire al filosofo ed insegnante statunitense Robert Edward Freeman e da far risalire al 1984, l’italiano Adriano Olivetti metteva già in pratica i concetti di responsabilità sociale d’impresa all’interno dei suoi stabilimenti produttivi, probabilmente senza ancora rendersi conto di essere il fautore di una grande innovazione per il mondo imprenditoriale occidentale. 

Sabato libero per i propri dipendenti, asilo aziendale per i figli dei lavoratori e delle lavoratrici e ben nove mesi di permesso di maternità sono solo alcune delle buone pratiche che l’imprenditore piemontese ci dimostra essere strade praticabili in termini di sostenibilità aziendale, anche sul piano economico-finanziario.

Olivetti concepisce infatti l’ “ambiente fabbrica” come un “congegno di riscatto e non una fonte di sofferenze” e ancora “una cellula operante rivolta alla giustizia di ognuno sollecita del bene delle famiglie, pensosa dell’avvenire dei figli e partecipe della vita del luogo che trarrà dal nostro stesso progresso un incentivo di elevamento sociale”, citando estratti di un discorso che il nostro Adriano tiene in occasione dell’inaugurazione di uno stabilimento presso Pozzuoli, costruito per tentare di arginare il problema delle migrazioni interne (dal meridione al settentrione) mosse da motivi di lavoro per diretta volontà della famiglia Olivetti, proprio perché è forte l’idea per cui “scardinare” degli esseri umani dalla “propria” terra per ragioni economiche è in realtà spesso un motivo di malessere e disagio per gli stessi lavoratori e le stesse lavoratrici, costretti a rivedere la propria vita per vedersi accreditare un salario alla fine di ogni mese sul proprio conto corrente. 

Insomma, Olivetti delinea uno “stile” che tutt’oggi profuma di futuro: dev’essere nostro compito renderlo effettivamente il presente, per non rimanere ancorati ad un concetto di “fare impresa” che sa di I Rivoluzione Industriale, anziché di Rivoluzione Digitale. 

Matteo De Liguori

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